Il ritmo
Gli antichi greci e latini usavano una poesia basata sull’alternanza ritmica tra sillabe di quantità lunga (durata due) e sillabe di quantità breve (durata uno).
Le lingue neolatine, e tra queste l’italiano, non hanno distinzione di quantità delle sillabe. La loro poesia si basa su una musicalità data dagli accenti naturali delle parole, ordinate secondo un numero definito di sillabe.
I versi
Il verso più comune è l’endecasillabo, formato da undici sillabe: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” non avrebbe la musicalità se noi spostassimo anche un solo accento.
Ogni verso si divide in due emistichi, separati da una cesura.
Secondo il numero delle sillabe, si parla di decasillabo, novenario, ottonario, settenario, senario, quinario…
Le strofe
I versi possono essere sciolti o raggruppati in strofe. I “Sepolcri” del Foscolo sono un poemetto di 295 endecasillabi sciolti. La “Divina Commedia” si compone di terzine.
La rima
Le strofe sono in genere caratterizzate dalla rima. Si chiama rima l’identità di suono tra due finali di verso a partire dall’ultimo accento: “che la diritta via era smarrita” rima con il primo verso con il suono ita.
La rima può essere:
- baciata (versi contigui, AA)
- incatenata (ABA BCB CDC)
- alternata (ABBA)
Le strofe sono variamente organizzate. L’ottava ha rime ABABABCC; il sonetto si compone di due quartine e due terzine, con sistemi di rime diversi.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il poeta Giosuè Carducci tentò di tornare alla poesia greca e latina con un sistema di versi italiani che ricordassero almeno le arsi (accenti) dei versi classici. Li chiamò barbari perché sembravano versi latini letti da uno straniero. Lo seguirono, tra gli altri, il Pascoli e il d’Annunzio.
La lirica contemporanea preferisce il verso libero, in cui la musicalità non segue regole precise, pur usando i versi e le rime.
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