Prima Guerra Mondiale
Guerra combattuta tra il 1914 e il 1918 da ventotto nazioni, raggruppate negli schieramenti opposti delle potenze alleate o dell’Intesa (comprendenti tra le altre Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia e Stati Uniti) e degli Imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria).
Causa immediata della guerra fu l’assassinio il 28 giugno 1914 a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip; le cause fondamentali del conflitto vanno tuttavia ricercate nelle contrastanti mire imperialistiche delle potenze europee, cresciute in un clima di esasperato nazionalismo.
Sarajevo 1914: attentato all’arciduca Francesco Ferdinando
Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e sua moglie Sofia furono uccisi dal nazionalista serbo Gavrilo Princip (nella foto d’epoca, il momento del suo arresto). L’assassinio minò l’assetto delle potenze europee, già in grave crisi, e il fragilissimo rapporto dell’Austria con la Russia, grande protettrice della Serbia, diventando la miccia che avrebbe fatto divampare la prima guerra mondiale. Il 28 luglio infatti l’Austria-Ungheria, con l’appoggio dell’alleato tedesco, dichiarò guerra alla Serbia.
Soprattutto a partire dal 1898, i contrapposti interessi di Francia, Gran Bretagna e Germania (e in misura minore di Austria, Russia e Giappone) alimentarono uno stato continuo di tensione internazionale che spinse i governi a mantenere permanentemente in stato di all’erta eserciti sempre più armati, e ad accrescere la potenza delle proprie marine militari. I tentativi di fermare questa corsa al riarmo (conferenze dell’Aia del 1899 e 1907) ebbero scarso effetto, e non riuscirono a impedire lo strutturarsi dell’Europa attorno a due coalizioni ostili: la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Italia, e la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia.
Le premesse
Nell’Europa del 1914 esistevano, è vero, tutte le premesse che rendevano possibile una guerra: rapporti tesi fra le grandi potenze (Austria contro Russi, Francia contro Germania, Germania contro Inghilterra), la divisione in blocchi contrapposti, corsa agli armamenti, spinte belliciste all’interno dei singoli paesi. Ma queste premesse non avevano come sbocco obbligato un conflitto europeo. Fu l’attentato di Sarajevo a far esplodere tensioni che altrimenti avrebbero potuto restare latenti. E furono le decisioni prese da governanti e capi militari a trasformare una crisi locale in un conflitto generale.
Dichiarazioni di guerra
Il governo di Vienna, compì la prima mossa inviando, il 23 luglio, un durissimo ultimatum alla Serbia ritenuta responsabile di un piano antiaustriaco. Il secondo passo fu fatto dalla Russia assicurando il proprio sostegno alla Serbia, sua principale alleata nei Balcani. Forte dell’appoggio russo, il governo serbo accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo in particolare la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato. L’Austria giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Immediata fu la reazione del governo russo che, il giorno successivo, ordinò la mobilitazione delle forze armate. La mobilitazione, che i generali russi vollero estesa fino al confine con la Germania, fu interpretata dal governo tedesco come un atto di ostilità. Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne risposta e fu seguito, a ventiquattr’ore di distanza, dalla dichiarazione di guerra. Il giorno stesso (il primo agosto) la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum e con la successiva dichiarazione di guerra alla Francia (3 agosto).
Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco a far precipitare definitivamente la situazione. Bisogna ricordare che la Germania soffriva da tempo di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali. La strategia dei generali tedeschi si basava inoltre sulla rapidità e sulla sorpresa, non ammetteva la possibilità di lasciare l’iniziativa in mano agli avversari e costituiva dunque di per se un fattore di accelerazione della crisi e di ostacolo al negoziato. Il piano di guerra tedesco, dando per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti (l’alleanza franco-russa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un attacco contro la Francia, che avrebbe dovuto esser messa fuori combattimento in poche settimane. Dopodiché il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia, la cui macchina militare era lenta a mettersi in azione.
Ci fu in seguito l’invasione del Belgio (3 agosto) e l’entrata in guerra della Gran Bretagna a sostegno dei Belgi (5 agosto) che venne provocata appunto dall’invasione tedesca ai danni del Belgio. Mentre l’Italia si dichiarava neutrale, anche il Giappone (alleatosi con gli inglesi nel 1902) dichiarò guerra al Reich il 23 agosto, attaccandone subito dopo i possedimenti asiatici. Nel settembre 1914 la firma del patto di Londra sanciva l’unità tra Francia, Gran Bretagna e Russia.
1914-1915: dalla guerra-lampo alla guerra di trincea
Le operazioni militari si svolsero su tre diversi fronti:
• quello occidentale, o franco-belga;
• quello orientale, o russo;
• quello meridionale, o serbo.
La trincea, insubordinazione e autolesionismo
Sul piano tecnico, la trincea fu la vera protagonista del conflitto: la vita monotona che vi si svolgeva era interrotta solo da grandi e sanguinose offensive, prive di risultati decisivi. Da ciò, soprattutto nei soldati semplici, uno stato d’animo di rassegnazione e apatia che a volte sfociava in forme di insubordinazione. La visione eroica e avventurosa della guerra, infatti, restò prerogativa di alcune esigue minoranze di combattenti, come le “truppe d’assalto” (Sturmtruppen) tedesche o gli “arditi” italiani; per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano per solidarietà con i propri compagni, ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione. Si diffusero tuttavia, nonostante le minacce del plotone di esecuzione, la diserzione o addirittura l’autolesionismo, consistente nell’infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. In altre occasioni ci furono casi di ribellione collettiva, scioperi militari o ammutinamenti, che avvennero un po’ dappertutto.
Il fronte occidentale
Il piano strategico tedesco, che prevedeva una rapida guerra di movimento contro la Francia per poi volgersi contro la Russia, fu bloccato dall’esercito francese nella prima battaglia della Marna (6-9 settembre). I tedeschi, costretti alla ritirata sino al fiume Aisne, estesero il fronte fino alla Mosa, a nord di Verdun. Ne seguì una sorta di gara in velocità verso il mare del Nord, con l’obiettivo di acquisire il controllo dei porti sulla Manica. Questa segnò la fine della guerra di movimento sul fronte occidentale e portò alla guerra di logoramento, di cui furono protagonisti la trincea, l’assalto con la baionetta, l’artiglieria, la conquista e la perdita di pochi lembi di terreno con perdite umane elevatissime.
Il fronte italiano
Allo scoppio della guerra l’Italia si dichiarò neutrale. Successivamente, però, le forze politiche e l’opinione pubblica si divisero sul problema dell’intervento in guerra contro gli imperi centrali. Erano interventisti: i gruppi di sinistra democratica e alcune frange eretiche del movimento operaio, i nazionalisti, alcuni ambienti liberal-conservatori. Erano neutralisti: la maggioranza dello schieramento liberale, che faceva capo a Giolitti, il mondo cattolico, i socialisti.
Contrarie alla guerra erano le masse operaie e contadine, mentre i ceti borghesi e gli intellettuali erano per lo più a favore dell’intervento. Ciò determinò l’entrata in guerra (maggio 1915) fu la convergenza tra la pressione della piazza e la volontà del sovrano, del capo del governo, Antonio Calandra, e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino. L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915. Nel corso del suo primo anno di guerra, i più importanti eventi militari che la videro impegnata furono quattro battaglie dell’Isonzo dall’esito incerto (29 giugno-7 luglio; 18 luglio-10 agosto; 18 ottobre-3 novembre; 10 novembre-10 dicembre), che fecero fallire l’obiettivo di spezzare le linee austriache e conquistare Trieste.
1916: la guerra di posizione
Nel 1916, dopo aver trasferito 500.000 uomini dal fronte orientale a quello occidentale, i tedeschi sferrarono un massiccio attacco alla Francia dirigendosi verso la fortezza di Verdun (21 febbraio). Furono ancora bloccati e dovettero subire la controffensiva alleata sulla Somme. Ma né l’una né l’altra operazione furono decisive: la spaventosa carneficina (1.600.000 morti) risultò inutile ai fini della guerra.
Tentativi di negoziato
Nel corso del 1916 il presidente degli Stati Uniti d’America (a quel tempo ancora neutrali) Woodrow Wilson cercò di spingere al negoziato le potenze belligeranti sulla base di una “pace senza vittoria”. A fine anno il governo tedesco rese nota la disponibilità in tal senso delle potenze centrali, alle quali tuttavia la Gran Bretagna non diede credito.
1917: l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il ritiro russo
Il 1917 fu l’anno più difficile della guerra, soprattutto per l’Intesa: molti furono i casi di manifestazioni popolari contro il conflitto e di ribellione fra le stesse truppe. Questo clima di stanchezza (espresso anche dall’iniziativa di pace lanciata senza successo dal papa Benedetto XV) si riscontrava anche in Italia. La demoralizzazione e la stanchezza delle truppe favorirono la vittoria degli austro-tedeschi dell’ottobre del ’17 (Caporetto), dovuta comunque anzitutto ad errori dei comandi italiani.
Si verificarono inoltre due avvenimenti di decisiva importanza:
• In Russia dopo la caduta dello Zar, in marzo, iniziò un processo di dissoluzione dell’esercito; dopo la rivoluzione di novembre, il paese si ritirò dal conflitto.
• In Aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra con l’Intesa, dando al conflitto, per volontà del presidente Wilson, una nuova connotazione ideologica “democratica”.
Nel 1917 i tentativi degli Alleati di rompere le linee tedesche portarono modesti vantaggi con un costo in vite umane talmente grande da provocare un ammutinamento fra le truppe francesi e la sostituzione del loro responsabile, il generale Nivelle, con il generale Henri Philippe Pétain, che decise di rimanere sulla difensiva fino all’arrivo delle forze americane.
La guerra sottomarina
Sempre nel 1917 i tedeschi dovettero riconoscere fallito il tentativo di spingere la Gran Bretagna alla resa mediante il blocco sottomarino delle sue isole. Inoltre, già dagli inizi del 1918 gli Alleati (grazie soprattutto al contributo degli Stati Uniti) producevano nuove navi più di quante i tedeschi riuscissero a distruggerne. Nonostante ciò, e nonostante anche il numero molto limitato dei mezzi disponibili, la guerra sottomarina si rivelò subito un’arma molto efficace. Soltanto poiché sollevò numerosi dissidi politici e morali, ad esempio l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania che trasportava anche americani, venne sospesa la guerra sottomarina tedesca ad opera di energiche proteste statunitensi.
Lo sbarco degli americani
La posizione di Wilson riguardo alla guerra mutò decisamente nel gennaio 1917, quando la Germania annunciò che, a partire dal successivo 1° febbraio, sarebbe ricorsa alla guerra sottomarina indiscriminata contro le imbarcazioni in arrivo in Gran Bretagna o in partenza da essa, contando in questo modo di poterne piegare la resistenza entro sei mesi. Gli Stati Uniti avevano già ammonito in precedenza che questo genere d’azione violava palesemente i diritti delle nazioni neutrali, così che il 3 febbraio il presidente americano decise di sospendere le relazioni diplomatiche con la Germania, seguito da diverse nazioni dell’America latina. Il 6 aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra.
Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania nell’aprile 1917, il governo degli Stati Uniti organizzò rapidamente una Forza di spedizione inviata in Europa al comando del generale John Pershing. Entro la fine di maggio, 175.000 soldati americani erano già presenti in Francia; sarebbero diventati quasi due milioni verso la fine della guerra.
La Russia si ritira
Circa un mese prima l’entrata in guerra degli Stati Uniti, un evento segnò profondamente gli esiti della guerra. All’inizio del marzo 1917 uno sciopero degli operai di Pietrogrado si trasformò in un’imponente manifestazione contro il governo imperiale. Quando i soldati chiamati a ristabilire l’ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono con i dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar Nicola II abdicò e poco dopo venne arrestato. Appena insediato, il governo provvisorio si impegnò a proseguire la guerra, ma la successiva rivoluzione bolscevica del novembre ebbe come effetto il ritiro della Russia dalla guerra.
Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917 (24-25 ottobre secondo il calendario russo), i bolscevichi presero il potere in Russia. Il nuovo governo decise infatti di porre fine alla guerra dichiarandosi disposto ad una pace “senza annessioni e senza indennità”. Il 3 marzo 1918 nella città di Brest-Litovsk, ai confini con la Polonia, la Russia stipulò la pace con gli Imperi centrali e dovette però accettare delle condizioni durissime: fu costretta a cedere infatti circa un quarto dei suoi possedimenti in Europa.
Sconfitte italiane
Durante i primi otto mesi dell’anno, nonostante le carenze in effettivi, artiglieria e munizioni, le forze italiane al comando del generale Luigi Cadorna proseguirono gli inutili sforzi di sfondare le linee austriache sul fiume Isonzo e di conquistare Trieste. Attaccando sulla parte alta dell’Isonzo, tedeschi e austriaci riuscirono a rompere le linee italiane, costrette a ripiegare disordinatamente sul fiume Piave. Nella disastrosa battaglia di Caporetto, oltre alle vittime gli italiani contarono 300.000 prigionieri e quasi altrettanti disertori e quella che doveva essere una ritirata assunse l’aspetto di una autentica rotta. In novembre truppe inglesi e francesi giunsero di rinforzo, mentre Cadorna, gettando le colpe sui suoi stessi soldati (quando in realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei suoi comandi poiché l’efficacia della manovra tedesca era divenuta irreparabile), venne sostituito dal generale Armando Diaz.
1918: la fine del conflitto
Il 3 marzo 1918 la Russia, come detto poc’anzi, firmò il trattato di Brest-Litovsk, che poneva ufficialmente fine alla guerra con le potenze centrali in termini decisamente favorevoli a queste ultime; il 7 maggio fu la Romania a sottoscrivere la pace, firmando il trattato di Bucarest che cedeva la Dobrugia alla Bulgaria, i passi sui Monti Carpazi all’Austria-Ungheria, e garantendo alla Germania concessioni a lungo termine sui pozzi di petrolio rumeni.
Ultimi attacchi tedeschi
All’inizio del 1918, rendendosi conto della necessità di portare a conclusione il confronto sul fronte occidentale prima che gli americani potessero stabilirvisi, i tedeschi decisero un attacco finale che avrebbe dovuto portarli a Parigi. Ma le due offensive lanciate in marzo e in giugno furono bloccate.
L’Intesa al contrattacco e il crollo degli Imperi centrali
Alla fine di luglio le forze dell’Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi, passarono al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente fino a Cambrai, mentre fra le loro truppe si facevano più evidenti i segni di stanchezza. I generali tedeschi capirono allora di aver perso la guerra. Il compito ingrato di aprire le trattative toccò ad un nuovo governo di coalizione democratica formatosi ai primi di ottobre. Si sperava che un governo realmente rappresentativo potesse costruire un interlocutore più credibile per l’Intesa.
Ma era troppo tardi. Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano dall’interno. La prima a cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’Impero Turco. Sempre alla fine di ottobre si consumò la crisi finale dell’Austria-Ungheria ormai minata dai movimenti indipendentisti. Quando, il 24 ottobre, gli Italiani lanciarono un’offensiva sul fronte del Piave, l’Impero era ormai in piena crisi. Sul fronte italo-austriaco gli italiani ottennero quindi la vittoria decisiva, mettendo in fuga gli austro-ungarici nella battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre-4 novembre). Il 3 novembre Trieste cadde in mano italiana, così come Fiume il giorno 5.
La sconfitta fece precipitare la situazione interna dell’impero asburgico: cechi, slovacchi e slavi del sud proclamarono la loro indipendenza; a nove giorni dalla firma dell’armistizio con gli Alleati (3 novembre) a Villa Giusti, presso Padova, che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, 4 novembre, l’imperatore Carlo I abdicò, e il giorno seguente un moto rivoluzionario popolare proclamò la repubblica austriaca, mentre gli ungheresi istituivano un governo indipendente.
Ai primi di novembre, poiché la sconfitta era evidente, i marinai di Kiel, dov’era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino ed in Baviera e l’11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco (il Kaiser Guglielmo II fu costretto a fuggire in Olanda e Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo il 9 novembre) firmavano l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes.
Bilancio della guerra e nuovo disegno geo-politico europeo
La guerra era durata 4 anni, 3 mesi e 14 giorni di combattimenti. Le vittime nelle forze di terra furono più di 37 milioni (vedi la tabella “Vittime della prima guerra mondiale”); in aggiunta, la guerra produsse indirettamente quasi 10 milioni di morti tra la popolazione civile. Nonostante la speranza che gli accordi raggiunti alla fine della guerra potessero ristabilire una pace duratura, la prima guerra mondiale pose al contrario le premesse di un conflitto ancor più devastante.
Le potenze centrali dichiararono la loro accettazione dei “quattordici punti” del presidente Wilson come base per l’armistizio, aspettandosi che i loro princìpi ispiratori avrebbero costituito il fondamento dei trattati di pace. Al contrario, gli alleati europei si presentarono alla conferenza di Versailles e a quelle successive determinati a esigere dalle potenze centrali riparazioni equivalenti all’intero costo della guerra, nonché a spartirsi tra loro i territori e i possedimenti delle nazioni sconfitte, secondo gli impegni presi in accordi segreti stabiliti tra il 1915 e il 1917, prima dunque dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. I trattati di pace prodotti dalle conferenze di Versailles, Saint-Germain, Trianon, Neuilly e Sèvres risultarono così squilibrati da divenire fattori di instabilità nel futuro dell’Europa.
La soluzione diplomatica che prevalse al termine della guerra disegnò un quadro politico dell’Europa completamente differente da quello del 1914. Tale quadro politico venne designato nel 1919 nella reggia di Versailles e vi presero parte i capi di governo delle principali potenze vincitrici: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, l’inglese Lloyd George, e l’italiano Orlando (il quale svolse però un ruolo marginale). Il contrasto fra una pace democratica e l’obiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. Il trattato, che fu firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu una vera e propria imposizione (diktat). Dal punto di vista territoriale il trattato prevedeva, oltre alla restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: in particolare il corridoio polacco che permetteva alla Polonia di affacciarsi sul Baltico e di avere accesso al porto di Danzica. La Germania perse anche le sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori i danni subiti in conseguenza del conflitto (l’entità delle “riparazioni” sarebbe stata fissata solo in seguito). Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100000 uomini e a lasciare “smilitarizzata”, priva cioè di reparti armati e di fortificazioni, l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe.
Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente la Germania nel suo orgoglio nazionale, oltre che nei suoi interessi. Ma erano anche, agli occhi dei francesi, l’unico mezzo per impedire alla Germania, che restava pur sempre lo stato più popoloso, più industrializzato e potenzialmente più ricco dell’Europa continentale, di riprendere la posizione di grande potenza che naturalmente le competeva. Per quando riguarda l’Impero asburgico esso subì una profonda dissoluzione: infatti il crollo dell’Impero asburgico determinò la nascita della nuova Polonia, della Repubblica di Cecoslovacchia, del regno di Jugoslavia, che univa alla Serbia gli sloveni e i croati già soggetti alla monarchia austro-ungarica.
L’Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati sorti dalle rovine dei vecchi imperi. Ad essi si sarebbe poi aggiunto lo Stato libero d’Irlanda, cui la Gran Bretagna concesse una semi-indipendenza.
Il nuovo disegno geo-politico dell’Europa (prima e dopo la guerra):
Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle Nazioni, proposta nei quattordici punti di Wilson, che fu accettata sotto la pressione degli Stati Uniti da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles. Il nuovo organismo prevedeva, in un suo punto, la rinuncia da parte degli stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti; ma nasceva sin dall’inizio minata per l’esclusione degli stati sconfitti e della Russia. Il Senato degli Usa respinse l’adesione alla società, infliggendole così un colpo durissimo. La società finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in seguito in grado di attuare nessun punto del suo statuto.
La prima guerra mondiale segnò infine il declino dell’Europa, che dopo tre secoli di espansione vedeva il suo ruolo emarginato da nuove grandi potenze, quali gli Stati Uniti e il Giappone.
Trattato di Versailles
Nel 1919, dopo la sconfitta subita dalla Germania nella prima guerra mondiale, i rappresentanti degli stati vincenti si riunirono a Versailles per stabilire le condizioni di pace. Parteciparono ai negoziati (da sinistra a destra) Lloyd George, primo ministro britannico, Giorgio Sidney Sonnino, ministro degli Esteri italiano, Georges Clemenceau, primo ministro francese, e il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson.
Conseguenze economiche
Ancor più grave fu il dissesto finanziario i cui effetti negativi si aggiunsero ai problemi derivanti non solo dalla riconversione delle industrie dalla produzione militare a quella civile, ma più in generale dal riassetto di un intero sistema economico. La guerra per oltre quattro anni aveva finalizzato la produzione, gli scambi, la gestione monetaria, la macchina burocratica degli stati, realizzando la mobilitazione totale delle risorse umane e materiali. Ne erano state sconvolte le regole precedenti.
Per quanto concerne l’aspetto finanziario, la guerra aveva generato un enorme disavanzo nei bilanci statali, sollecitati alla spesa dalle esigenze militari. Nelle transazioni monetarie l’instabilità dei cambi aveva prodotto inflazione e svalutazione a livelli incontrollati. In queste condizioni rimettere sotto controllo le finanze statali si presentava come un problema arduo, dai complessi risvolti sociali e politici, prima che tecnici. Anche la situazione industriale apparve di difficile gestione nel momento in cui vennero a mancare le commesse statali, che in tempo di guerra avevano trainato interi settori, quali il meccanico, il tessile, il chimico. Insorsero gravi problemi legati alla riconversione dell’industria bellica. Inoltre bisognava trovare un lavoro per i milioni di reduci dal fronte.
Conflitti sociali
La guerra aveva innescato profondi e ampi sommovimenti in tutte le società coinvolte e aveva depositato nella coscienza di milioni di uomini il ricordo brutale della violenza. Dal rifiuto morale che molti soldati e ufficiali elaborarono in risposta ai massacri, scaturì un odio profondo verso la guerra che si tramutò in un impulso di riscatto. Sentimenti simili furono all’origine della rivoluzione russa del 1917, ma anche delle lotte operaie e contadine che si manifestarono in Germania, in Francia, in Italia tra il 1917 e il 1922. Al contrario, nei soldati che non avevano avvertito un’opposizione morale alla guerra, l’esperienza sotto le armi aveva lasciato impressioni di forza bruta, abitudini all’uso della violenza, attitudine alla prevaricazione fisica, tutte componenti queste che prepararono il clima psicologico delle forze reazionarie attive in Europa già dal 1919.
La crisi del dopoguerra infine, se travolse operai e contadini, agrari e industriali, turbò ancora di più i ceti medi, esposti ai contraccolpi dell’inflazione e alla perdita di reddito e di prestigio, predisponendoli a favorire soluzioni autoritarie con le quali liquidare i conflitti ideologici e gli squilibri sociali.
Fisica: la fisica dall’800 al 900
Mentre la fisica dell’Ottocento si presta ad una schematizzazione abbastanza semplice, la fisica del Novecento non può essere oggetto di valutazioni chiare, poiché la ricerca attuale non segue una via di sviluppo lineare.
Tuttavia la ricerca, finora, è stata caratterizzata da un fondamentale dualismo di programmi. Il primo si è sviluppato nei primi decenni del secolo, a partire dalla crisi della meccanica nel suo impatto con l’elettromagnetismo e attorno alla teoria della relatività di Einstein. Il secondo, sviluppatosi alla fine dell’Ottocento, è quello quantistico che studia i fenomeni di interazione tra materia e radiazioni. I due programmi, pur convergendo, in sostanza si riferiscono a due livelli ben diversi di osservazione: entrambe le teorie ammettono la fisica classica entro i limiti dell’esperienza quotidiana; la quantistica, però, diventa necessaria per fenomeni a livelli microscopici, come fenomeni atomici e nucleari, mentre la relatività è necessaria per studiare la velocità o le lunghezze molto grandi, come la scala astronomica. Di conseguenza, i due programmi vanno considerati distintamente poiché un’unificazione tra di essi non pare ancora vicina.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento sono stati fatti diversi tentativi per ricomporre il contrasto tra le teorie di Maxwell, che aveva esposto la teoria del campo elettromagnetico, secondo la quale le variazioni del campo magnetico inducono un campo elettrico e, viceversa, le variazioni di flusso del campo elettrico inducono un campo magnetico, e quelle di Newton, che aveva formulato la legge della gravitazione universale, in base alla quale due corpi si attraggono con forza direttamente proporzionale alla quantità di materia e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. L’ultimo tentativo è stato effettuato da Poincarè, che accetta il principio di relatività classica, secondo il quale i fenomeni fisici devono rispettare le stesse leggi se osservati da sistemi di riferimento che si muovono l’uno rispetto all’altro con moto rettilineo e uniforme.
La svolta decisiva viene però nel 1905 quando Einstein pubblica la sua “Teoria della relatività”. Il nucleo centrale della sua teoria è che i fenomeni dell’elettrodinamica, così come della meccanica, non possiedono proprietà corrispondenti all’idea di quiete assoluta. Essi suggeriscono piuttosto che le stesse leggi dell’elettrodinamica e dell’ottica siano valide per tutti i sistemi di riferimento per cui valgono le equazioni della meccanica. Inoltre Einstein sostiene che la luce si propaga sempre nello spazio vuoto con una velocità che è indipendente dallo stato di moto del corpo che la emette.
La teoria di Einstein comporta una riformulazione dei tradizionali concetti di spazio e tempo: la durata di in fenomeno su un corpo in movimento è maggiore di quella dello stesso su un corpo in quiete; due fenomeni simultanei rispetto ad un osservatore possono non esserlo rispetto ad un altro; la massa di un corpo aumenta con la sua velocità. Importantissima rimane la famosa legge che sta alla base di tanti fenomeni nucleari, secondo la quale la massa equivale ad una quantità d’energia data dalla formula E=mc2 (E è l’energia, m è la massa, c è la velocità della luce).
Il passaggio dalla meccanica classica alla relatività è stato considerato da Kuhn come uno dei migliori esempi di rivoluzione scientifica.
La relatività si è affermata in breve tempo, superando ostacoli e opposizioni. Undici anni dopo, Einstein propone una nuova teoria che supera la precedente. Egli afferma che le leggi della fisica sono le stesse se osservate da qualunque sistema di riferimento, purché si tenga conto anche degli effetti del campo gravitazionale: è il nucleo della teoria della relatività generale. Per giungere a tale risultato, Einstein parte dalla constatazione che la massa di un corpo è la stessa sia se misurata secondo la legge di gravitazione universale, sia secondo la legge della dinamica (la massa inerziale è uguale alla massa gravitazionale): da ciò consegue la possibilità di riferire ogni effetto acceleratorio ad opportuni campi gravitazionali. Ogni problema fisico, quindi, va risolto mediante lo studio delle proprietà geometriche dello spazio.
Un’altra diversa via di ricerca nasce dallo studio dei fenomeni di interazione tra la materia e le radiazioni. “Quanto” è il termine coniato da Planck per la soluzione di un problema di emissione elettromagnetica: il problema del “corpo nero”. Un corpo nero è un corpo capace di assorbire tutte le radiazioni che lo colpiscono. Si riteneva che la radiazione emessa da un corpo nero avesse una distribuzione di intensità valutabile per mezzo della teoria maxwelliana delle onde elettromagnetiche.
Durante l’ultimo decennio dell’Ottocento alcuni fisici, tra cui Planck, tentarono di trovare la forma matematica della legge di radiazione del corpo nero. Nel 1900, grazie all’affinarsi delle tecniche di misura in laboratorio, Planck riuscì a trovare una formula per il corpo nero che consentiva un buon accordo con i dati sperimentali. Questa formula comportava l’introduzione di una nuova costante universale (la famosa costante h di Planck) e l’ipotesi secondo cui l’energia, anziché variare con continuità, variava secondo i multipli interi di una certa quantità elementare e indivisibile alla quale si diede il nome di “Quantum”. Ogni radiazione, quindi, può essere quantizzata. La teoria dei quanti si fuse presto con lo studio della struttura dell’atomo, iniziato con Thomson nel 1897 con la scoperta dell’elettrone, la cui carica è stata determinata da Millikan.
Ben presto vengono proposti per l’atomo due diversi modelli: secondo Perrin esso è formato da un nucleo centrale attorno al quale ruotano gli elettroni; secondo Kelvin in esso vi è una distribuzione uniforme di carica positiva all’interno della quale si trovano gli elettroni in condizioni di equilibrio. Nasceva allora il problema di quale fosse la situazione degli elettroni attorno al nucleo. La prima risposta venne da Bohr.
Egli ipotizzò che gli elettroni ruotassero secondo orbite circolari ben precise, calcolabili secondo le leggi della quantizzazione energetica, e che gli atomi assorbissero ed emettessero energia mediante salti degli elettroni da un’orbita ad un’altra. Dalla constatazione che non è possibile rinunciare nello studio dei fenomeni meccanici ed elettromagnetici né al modello corpuscolare, né a quello ondulatorio Bohr enunciò il principio di complementarità secondo il quale ogni fenomeno presenta in realtà due aspetti, uno corpuscolare, l’altro ondulatorio, entrambi veri e reciprocamente complementari ed escludentisi. Il principio di complemetarietà sta alla base del principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo principio stabilisce che non è possibile determinare contemporaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella, con una precisione al di sotto di un certo limite, fissato dalla costante h di Planck. Una delle conseguenze più notevoli di questo principio è che, nel trattare un sistema fisico, il ruolo dell’osservazione e della misura è decisivo sul risultato che si ottiene. Con la scoperta di Heisenberg si è giunti a un profondo sconvolgimento non solo della concezione tradizionale dell’universo, ma anche e soprattutto del rapporto tra osservatore e osservato, ossia dello schema fondamentale di ogni ricerca scientifica sperimentale. Le leggi naturali non esprimono relazioni fisse della natura, ma possono soltanto dare una formulazione statistica dei fenomeni osservati e del loro esito probabile; questo non per un difetto degli strumenti di osservazione, ma per la struttura stessa del materiale osservato e per le inevitabili modificazioni e perturbazioni apportate dal processo di osservazione.
Dopo la scoperta dell’elettrone e della struttura nucleare dell’atomo l’attenzione dei fisici si è concentrata su quest’ultimo. Nel 1925 Pauli formula il principio d’esclusione che consente di collocare gli elettroni attorno al nucleo, in modo coerente con le scoperte della chimica. È Bohr a chiamare protoni le particelle cariche positivamente, presenti nel nucleo. L’esistenza dei neutroni, particelle pesanti ed elettricamente neutre, viene dimostrata sperimentalmente da Chadwick.
Il quadro si è ulteriormente complicato con la scoperta di un gran numero di nuove particelle elementari, tra cui il neutrino. La scoperta del neutrone e quella del neutrino hanno comportato l’introduzione di altre due forze oltre a quella gravitazionale e a quella elettromagnetica: l’interazione forte e l’interazione debole. Mentre il tentativo di unificare le teorie delle quattro forze fondamentali della natura non ha ottenuto risultati decisivi, è invece più avanzato il processo di semplificazione dei componenti elementari della natura. In questo campo si è pervenuti alla formulazione delle “quarks”, particelle sub-elementari, che sono ancora oggetto di studio. Rapida è stata, invece, l’acquisizione degli studi nucleari alle applicazioni tecniche.
Dalle ricerche di Enrico Fermi viene scoperto che un atomo di uranio colpito da protoni può rompersi in due parti, liberando alcuni neutroni e un’enorme quantità di energia (fissione nucleare), e che i neutroni liberati, in determinare condizioni, possono spaccare altri nuclei di uranio in successione continua (reazione a catena). Queste due scoperte condurranno Fermi alla pila atomica ed altri studiosi alla bomba atomica. La teoria per le due diverse applicazioni è la stessa: nel primo caso la reazione a catena viene rallentata frapponendo particolari sostanze tra i vari blocchi di uranio, mentre nel secondo caso la reazione avviene con velocità enorme, sviluppando energia in pochissimo tempo. La prima è alla base del funzionamento delle centrali elettro-nucleari, la seconda, invece, dei micidiali ordigni bellici.
I mutamenti introdotti nella fisica dopo il 1900 hanno evidenziato che la conoscenza del mondo si può conseguire solo a patto di potenziare continuamente sia la tecnica di misura, sia il linguaggio matematico. La crescita della fisica, pertanto, porta a forme di conoscenza che si allontanano sempre più dalle capacità espressive dei nostri linguaggi quotidiani.
Il ruolo della fisica è oggi al centro di vivaci dibattiti. Se da un lato la fisica ha apportato notevoli contributi alla conoscenza del mondo naturale, consentendo l’utilizzo delle sue scoperte a vantaggio dell’uomo, dall’altro è forte il timore di un uso improprio degli stessi strumenti fisici. Lo spettro della bomba atomica è sempre presente: l’uomo deve prenderne coscienza e adoperarsi in ogni modo per scongiurare tale pericolo. Le conseguenze, in caso contrario, sarebbero apocalittiche: ciò che è in gioco è l’esistenza dell’umanità, di quella stessa umanità che ha nelle sue mani il proprio destino.
- Tesine