Riassunto
Più di tre ore sono trascorse dall’apparizione
dell’angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all’indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita
lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo.
Durante l’ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora lungo la spiaggia, dell’altezza e
dell’asperità del monte del purgatorio: ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a
raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel
purgatorio provengono da sinistra, mentre nell’emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua
destra. Ma Dante teme l’altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l’ascesa è difficile solo all’inizio, quando si è ancora
sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di
parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande
roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all’estremo della vita e che,
per questo, devono restare nell’antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante
conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino
Introduzione critca
Le distinzioni psicologiche che aprono il canto, le successive designazioni
astronomiche, il senso di fatica dell’ascesa, l’ironia familiare che circola nell’incontro con Belacqua, essendo momenti
sovrapposti in ritmi e tempi diversi, parrebbero negare la possibilità d’una lettura unitaria del canto, limitando
l’interesse alle singole parti. Invece esso si dispone nella linea di quei canti la cui validità è da cercarsi nel rapporto
dei momenti informativi e dottrinali con gli episodi umani e più chiaramente poetici, e nell’analisi dei precisi scopi che
attraverso questo canto Dante si propone di raggiungere. Anzitutto la figura del Poeta si impone come protagonista, spostando
il polo di interesse dalla pensosa immagine di Virgilio e dalla regale apparizione di Manfredi, che occupano tutto il canto
IlI, su se stesso: parla più che ascoltare, interroga più che tacere, agisce più che smarrirsi, nella raggiunta certezza della
purificazione, laddove nell’Inferno essa gli pareva quasi impedita dalla continua visione del peccato nelle sue forme più
aberranti. Pur faticosamente, in lui si fa luce uno stato d’animo nuovo, quello dell’uomo che si prepara a godere della sua
conquista spirituale, che riprende coraggio nei suoi mezzi umani, che riaccosta con fiducia i misteri dell’anima e del mondo.
Il dottrinalismo che occupa tanta parte del canto, ben lungi dall’opporsi alla poesia, nasce dalla stessa radice, cioè dal
bisogno di accostarsi al sovrannaturale, contemporaneamente studiando e sistemando il cosmo nel quale il sovrannaturale vive e
si esprime: il canto IV, nel quale è diffusa quest’ansia di conoscere e questa ricerca di saggezza e di virtù nel cerchio
della redenzione, costituisce l’esplicita risposta del mondo cristiano-medievale di Dante all’ammonimento del pagano
Virgilio, state contenti, umana gente, al quia, e all’amara conclusione finale, disiar vedeste sanza frutto. Il Fergusson,
commentando i canti dell’antipurgatorio, afferma che essi costituiscono il prologo al dramma della crescita spirituale che
inizia a questo punto e culminerà alla fine del terzo giorno nella visione di Dio, prologo nel quale Dante desidera che il
lettore senta la forza di un’aspirazione che non si può ancora realizzare, presentando anime che, fuori del vero mondo del
purgatorio, devono tuttora scoprire come cominciare la loro crescita spirituale. Tuttavia il critico americano non sembra
rilevare l’importanza di questo canto posto proprio al centro degli otto dedicati all’antipurgatorio, poiché il Poeta, resosi
conto dell’orgoglio che si era insinuato nella sua scienza e nella sua baldanza, trova nella calma lentezza di Belacqua un
“provvido invito all’umiltà per il pellegrino mortale, ansioso quasi di anticipare all’anima sua le gioie di un processo
purificatore stabilito dall’eterno consiglio, e dal quale consiglio l’anima non può che accettare rassegnatamente e perciò
serenamente, il ritmo esterno, il rituale della purificazione” (Romagnoli). L’equilibrio raggiunto – difficile ma non precario
– non frena il “volo” del pellegrino, ma lo inserisce in quella zona di attesa propria di tutte le anime penitenti, aiutandolo
nello stesso tempo ad allontanare man mano le vicende e i ricordi della vita in una penombra che vela l’asprezza delle forme
ma non la chiarezza dei contorni. Secondo il Fergusson Dante si trova ora nella condizione psicologica di un bambino: le sue
conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, teologiche dopo la visione del mondo dannato servono a ben poco; egli deve
ricominciare e “nel suo candore, nell’obbedienza all’impressione immediata, nella libertà del sentimento è come un bambino…
Ciò che il pellegrino vede, guardando fuori di sé, è il mondo naturale come l’occhio dell’innocenza lo percepisce”. In realtà
questa interpretazione appare troppo semplice, o meglio, si oppone ad un’attenta lettura del canto IV, perché se Dante scopre
con gioia, attraverso le parole di Virgilio, la legge del corso del sole nel purgatorio, non si limita ad accettare, come è
sempre avvenuto finora, la verità propostagli, ma vuole completare egli stesso e concludere la spiegazione del maestro (versi
76-84): non l’accoglimento passivo, ma la fattiva penetrazione sostenuta da una profonda saldezza intellettuale – per spiegare
la quale è insufficiente l’immagine del fanciullo. Se il canto è impegnativo da un punto di vista dottrinale e si presenta
estremamente importante dal punto di vista psicologico, da alcuni critici è stato però considerato privo di quel movimento
drammatico che, dopo aver contraddistinto il canto di Manfredi, ritorna con la stessa intensa commozione nel quinto: una pausa
narrativa che culmina nel gioco scherzoso di battute dell’episodio di Belacqua. Il giudizio è esatto solo in parte, potendosi
definire pausa il fatto che Dante sembra raccogliersi in se stesso dopo il primo lungo incontro con un’anima del purgatorio,
quasi volesse esaminare le proprie reazioni, e studiare la sua nuova dimensione spirituale dopo l’affannoso susseguirsi di
fatti in sul lito diserto. Ma tale esame non avviene attraverso una lenta e distesa esposizione, bensi attraverso l’angustia e
l’asprezza di una salita che impegna all’estremo i due pellegrini in una rappresentazione che ha tutto il vigore della
realtà, vigore che non si disperde nello scherzo di due battute finali, ma da esse prende forza nuova. Perché, infatti, il
valore dell’episodio di Belacqua è sì nel richiamo all’umiltà e all’ubbidienza paziente delle leggi del purgatorio e nella
funzione di antitesi, affinché dall’immagine della pigrizia meglio venga esaltato lo sforzo morale del Poeta, ma anche nella
tonalità indulgente, nella bonarietà affettuosa del dialogo, nella voce del ricordo associata a luoghi e tempi passati. Occorre
perciò non vedere l’episodio solo in una visuale allegorica, ma cogliere in esso un altro momento autobiografico di Dante,
dopo quello di Casella, fatto di consuetudine di affetti e di conversazioni.
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- Letteratura Italiana - 200 e 300