Riassunto
Sordello, dopo il primo momento
di commozione nell’udire il nome della patria, vuole notizie precise sui due pellegrini: Virgilio risponde rivelando la
propria identità al poeta mantovano, che si rivolge allora a lui chiamandolo gloria de’ Latin. Dopo aver spiegato che il loro
viaggio è permesso da Dio e che egli proviene dal limbo, Virgilio chiede la strada più breve per giungere al vero purgatorio,
ma Sordello ricorda che la legge del mondo della penitenza vieta di salire il monte durante la notte. Occorrerà cercare un
luogo dove attendere l’alba. I tre poeti si avviano verso la “valletta fiorita”, dove si trovano i principi negligenti; coloro
che, troppo presi dalle cure mondane, si pentirono solo alla fine della vîta. Circondati da una natura splendente di fiori e di
profumi, essi cantano l’inno “Salve, Regina”, mentre Sordello, rimanendo sull’orlo della valle, indica ai due pellegrini i
personaggi più noti: l’imperatore Rodolfo d’Asburgo, al quale Dante rivolge l’accusa di avere trascurato la situazione
politica italiana, Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona con il figlio
Pietro, Carlo I d’Angiò, Arrigo III d’Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato. Sottolinea infine la degenerazione dei loro
discendenti, perché raramente la virtù si tramanda di padre in figlio, volendo Dio che tutti capiscano che essa non si riceve
per eredità, ma proviene direttamente dal cielo.
Introduzione critca
Nell’invettiva all’Italia
l’interna armonia delle venticinque terzine – che si frangono di continuo in immagini e in quadri che mutano rapidamente con
una sottile gradazione di tempi e di tensione emotiva – è acquisita attraverso l’eliminazione di ogni sosta narrativa e di
ogni tessuto ragionativo, mediante una sorta di impulso drammatico, che nasce non più da un attaccamento doloroso e polemico
alle proprie vicende terrene, allontanate anzi nell’ansia di rinnovamento spirituale, ma dalla coscienza di una investitura
conferita dalla fede e perciò di origine straordinaria. Ed è questo impulso drammatico, spogliato delle sue forme più agitate e
dure, e venato di una profondissima malinconia, che sorregge nel canto settimo la rassegna dei principi. La domanda
apparentemente blasfema dal Poeta rivolta a Dio (son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?) aveva denunciato, accanto
all’indignazione, una stanchezza estrema di fronte al dilagare del male, un confidente abbandono non nelle risorse umane per
una, sia pure lontana, rinascita, ma nella invocazione del soccorso divino, anch’esso però proiettato in un momento lontano
nel tempo: o è preparazion… per alcun bene? Non la fede vacilla in lui, ma la speranza di vedere realizzato, di fronte alla
violenza di quel male, il sogno di un’Italia giardin dello ‘mperio, di una Roma non più vedova e sola, di una Firenze
veramente ricca… con pace… con senno. L’inno liturgico del canto settimo, « Salve, Regina », invocante l’intervento
divino per la debolezza umana, conclude questo momento di meditazione politica, perché l’animo, raggiunta una sfera tutta
ideale e sicuro ormai nella presenza di un provvidenziale soccorso, si accinge a contemplare l’ordine in un mondo più vero e
più alto, trovando, nel gruppo dei potenti della terra, non il motivo per una nuova, dura protesta dinanzi a ciò che
l’intelletto umano non sopporta, perché lo ritiene assurdo, ma la disposizione ad una mitezza di giudizio di fronte a chi la
giustizia divina ha già reso consapevole del male compiuto. L’animo del Poeta, che sembrava essersi allontanato non dallo
slancio di purificazione e di ascesa che lo guida nella seconda cantica – e che gli ha dettato il movimento polemico e
l’urgenza irrequieta dell’apostrofe – ma dalla intonazione elegiaca con la quale viene costruendo le caratteristiche del
secondo regno, gravita di nuovo verso la preghiera. Recupera attraverso la pietà liturgica della « Salve, Regina », la
coscienza di appartenere a quella società che aveva respinto da sé in un momento di ribellione, e, attraverso la malinconia
della sera e il divieto di salire lungo il monte senza la luce, il senso della instabilità umana che colpisce Dante e le anime
penitenti nella certezza di un esilio dalla vera patria. Il colloquio fra Virgilio e Sordello, la descrizione della “valletta”,
il momento liturgico, la rappresentazione dei principi non sono episodi distinti, capaci di spezzare l’unità del canto, anche
se spesso l’indagine dei critici ha voluto farlo – rivelando come punto chiave ora l’esaltazione di Virgilio da parte del
trovatore mantovano ora la continuazione del tema politico del canto precedente come vagheggiamento di un’ideale concordia fra
i signori sotto la guida dell’imperatore (colui che più siede alto) – laddove i motivi si svolgono gli uni dagli altri con
perfetta dipendenza. L’immagine di Sordello, esaurito il suo motivo poetico vitale – surse ver lui del loco ove pria stava
sfuma nel contrappunto alla figura di Virgilio, la cui dolente rievocazione dello stato spirituale del limbo imposta un pacato
discorrere che gradua il passaggio dallo stile dell’invettiva a quello della rassegna. Ed è ancora il poeta latino con le sue
domande che porta Sordello, nello spiegare la legge del purgatorio intorno alla salita, a una vera e propria metafisica della
luce e della tenebra, che si giustifica non solo come motivo didascalico, ma anche come anticipazione, nel crepuscolo della
sera, del miracolo di luce e di colore della “valletta”. Ma è soprattutto il tono della poesia virgiliana, il ricordo della
commossa rassegna del canto sesto dell’Eneide che serve da mediazione tra l’invettiva e il catalogo dei principi esemplato
sul Compianto di Sordello, ma privo della violenza di parole e di giudizio di quello. Infatti “in questa atmosfera, in questa
luce, nel canto che invoca salvezza e dice speranza, anche il catalogo storico dei principi negligenti non può esser tracciato
che con serenità, con pacatezza di giudizio: l’invettiva sarebbe fuor di luogo di fronte al canto della «Salve, Regina » ; ed
ecco la violenza, lo sdegno e l’ironia del pianto di Sordello collocarsi, ambientarsi in un tono più piano” (Seroni).
Tuttavia, se d’accordo col Vossler occorre rilevare la delicatezza di rappresentazione “nelle stanche posizioni; nei gesti dei
principi, nell’ombra serale che s’avvicina, nei misteriosi bagliori e profumi dei fiori, nel pio canto corale di voci
maschili, nei pensieri che riescono a commuovere i due pellegrini che guardano da lontano”, questa presenza non deve disperdere
in un’atmosfera vagamente romantica l’attenzione di chi legge, essendo chiaro il proposito del Poeta di costruire una storia
per ritratti, “ch’è quasi una iconografia a tinte popolari, in cui le caratteristiche fisiche e i tratti morali tipici
concordano a formar le immagini di una storia contemporanea, di una storia viva” (Seroni), anche se nella considerazione della
degenerazione del potere temporale, della vicenda delle dinastie, del decadere, per li rami, delle virtù, nasce spontanea in
Dante la riflessione intorno al « perché » di questi avvenimenti. Il Poeta, osserva il Seroni, risponde naturalmente alla luce
della sua dottrina, e, pur restando il giudizio sulle colpe degli uomini, non può non intervenire una considerazione
sistematica, dottrinaria: senza la volontà divina tanta degenerazione non è possibile. È una visione teologica della storia,
dalla quale nasce appunto la pacata sicurezza del tono della rassegna dei principi.
- 200 e 300
- Riassunto e Critica Purgatorio
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300