Purgatorio: Riassunto e Critica VIII Canto - Studentville

Purgatorio: Riassunto e Critica VIII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Mentre scende il crepuscolo una delle anime

della “valletta fiorita” intona l’inno «Te lucis ante terminum», subito seguita da tutte le altre, che volgono i loro occhi

verso il cielo. Dante, seguendo la direzione di quello sguardo, scorge due angeli splendenti che si dirigono verso l’orlo

della valle, ciascuno con una spada fiammeggiante e priva della punta. Sordello, dopo avere spiegato ai due pellegrini che essi

provengono dal cielo per difendere quel gruppo di penitenti dall’assalto del demonio che fra poco li tenterà, invita Dante e

Virgilio a scendere in mezzo ai principi. Un’anima osserva fissamente il Poeta: è il pisano Nino Visconti, al quale egli fu

legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando l’attonito stupore di tutte le anime,

mentre Nino invita uno dei principi ad avvicinarsi ai due pellegrini, per osservare da vicino quel prodigio; poi, rivolto

all’amico, lo prega di ricordarlo alla figlia Giovanna, dal momento che troppo presto la moglie si è dimenticata di lui,

passando a seconde nozze. Ad un certo momento Sordello indica a Virgilio il serpente tentatore che avanza nella valle, ma i due

angeli, calando come sparvieri, lo mettono in fuga. Parla poi l’ombra che Nino aveva chiamato accanto a sé. È Corrado

Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua famiglia, offrendo a Dante l’occasione di esaltarne la

liberalità e la prodezza. Il canto si chiude con la solenne profezia dell’esilio del Poeta fatta dal Malaspina.

Introduzione critca

La molteplicità di sentimenti e di immagini, di cui è ricco il canto, appare spontaneamente

orientarsi verso un motivo centrale, con un processo di chiarificazione nel quale quei sentimenti e quelle immagini acquistano

una loro organica e vivente unità, perché alla soglia del purgatorio vero e proprio l’anima si abbandona a una trepida e

delicata rievocazione della vita passata, unita ad una rinascente e profonda gioia di vita spirituale, scandita

dall’intervento delle potenze celesti. Queste, aiutando il generoso sforzo delle anime penitenti, iniziano un preludio

circondato di mistero che introduce al mistero della visione e del sogno del canto seguente. Il motivo della vita umana come

peregrinatio, che aveva avuto non uno sviluppo marginalmente didascalico o episodicamente lirico, ma una sicura e vivida

tensione fin dai primi canti (cfr. in particolare il richiamo di Catone nel canto II, versi 120 sgg.), si arricchisce

particolarmente, nel canto VIII, del sentimento dell’«esilio » dalla vera patria – il cielo – sentimento colto e descritto non

nella sua immediatezza più inquieta e più tormentosa, ma attraverso la lucida proiezione nelle anime dell’antipurgatorio. Il

desiderio di ritrovare sulla vetta del monte l’innocenza di un tempo, l’ansia di rigenerazione spirituale che anticipa

l’ardore di carità dei beati, il concetto di speranza che informa tutti i gironi del purgatorio costituiscono, infatti, lo

specchio della disposizione interiore di Dante, nel ‘quale l’idea di questo esilio celeste si fonde con quello dalla sua

patria terrena, in una rispondenza sentimentale che aderisce perfettamente al continuo alternarsi di attaccamento e di distacco

dalla vita, che è uno dei motivi propulsori della seconda cantica. La similitudine iniziale, la preghiera dei principi, il

sopraggiungere degli angeli e del serpente, l’incontro con Nino Visconti e Corrado Malaspina sono momenti sagacemente

costruiti dal Poeta. Il suo occhio è fisso sulla bellezza letteraria dell’espressione e la sua mente si prepara ad alimentarsi

delle sublimi conoscenze del purgatorio, senza abbandonare le care immagini della vita passata, senza respingere le esperienze

di un tempo, distendendo anzi i suoi ricordi nella concretezza dell’esistenza terrena, ma accrescendoli e ampliandoli in una

tonalità nuova, che nasce da quel particolare sentimento del tempo nel quale, secondo il Sanguineti, si cela e si esprime,

insieme, il respiro stesso della poesia della Commedia. Nel marinaio e nel viandante, nei quali il passato e il presente si

sovrappongono in una spirituale vibrazione, nell’anima che da sempre pare ripetere “d’altro non calme”, nel canto liturgico

che da secoli la Chiesa innalza, nella lotta fra le potenze del bene e la forza del male che riassume in un breve episodio il

dramma continuo dell’umanità, il tempo sensibile si trasforma in tempo morale, in una misura cioè che non segna più il

trascorrere degli anni, il susseguirsi delle generazioni, l’alternarsi della vita e della morte, ma definisce il ritmo di

stati d’animo, di verità assolute che si manifestano nella realtà temporale per rimandare costantemente a quella eterna. Un

canto dunque “il cui fascino più segreto e profondo è, forse, questo: una irreale sospensione fra la terra e il cielo, l’una

ancor « presente e viva » e l’altro, già imminente, ma solo intravveduto e non ancora attinto. Un momento inesprimibile, in

cui l’anima sta come tra due età: quella da cui si è distaccata e quella verso cui si muove; così che del mondo da cui si è

dipartita reca ancora il ricordo; e forse il rimpianto; e del mondo al quale si avvia non ha che il presentimento dolce e,

oserei dire, l’ineffabile sgomento. Un attimo, trepido e supremo, in cui le cose terrene stanno per venir meno per sempre e di

quelle divine c’è solo nell’aria il misterioso preannuncio” (Sacchetto). L’accostamento e l’accordo dei diversi momenti del

canto sono realizzati più con una combinazione di motivi musicali e figurativi che con un commento sentenzioso o moralistico,

perché anche la profezia dell’esilio, rivelata attraverso l’ampia visione del sol che non si ricorca sette volte nel letto

che ‘l Montone con tutti e quattro i piè cuopre ed inforca, allontana ogni motivo più terreno e urgente – la visione del capo

reo che porta il mondo verso il mal cammin – in una sfera di contemplativa e ascetica severità, dove la realtà delle debolezze

umane e l’ostinato chinarsi dell’uomo verso il suo avversano rivelano la povera meschinità di una terra che ha come termine

di confronto l’orizzonte del cielo con l’armonia delle sue rotazioni. Alcuni critici, pur rilevando l’estrema varietà di

motivi di questo canto, tendono a considerarlo staccato dai due che lo precedono, perché la meditazione politica è dimenticata,

mentre le quattro stelle, simbolo delle virtù cardinali, lasciano il posto alle tre facelle, emblema di quelle teologali,

invitando il Poeta “a salire dal mondo della rettitudine naturale e delle virtù morali a quello presieduto dalla Grazia”

(Fallani). Così il Croce afferma che “fresca risorge la poesia del cuore, quando Dante, rendendo vano l’udire di cose

politiche, distornandosi dai discorsi di Sordello, s’immerge nella scena che gli si forma attorno e assiste a un mistero

dell’anima, dell’anima che trepida e prega e invoca da Dio l’aiuto nelle tentazioni del male”. In realtà si attua –

attraverso il tono accorato della rassegna di Sordello – non un rovesciamento di contenuto, ma un passaggio ad un motivo di più

scoperto colore sentimentale, dal mondo della violenza, della discordia, dell’errore alla pensosa figura dell’esule che quel

mondo giudica e supera, perché si è ormai identificato nell’anima che giunse e levò ambo le palme… come dicesse a Dio:

“D’altro non calme”: “tra le modulazioni più intense, i toni acerbi e mordenti della rampogna trovano un correttivo e

corrispettivo specialmente nell’elegia, nel rimpianto e compianto, in note di pathos niente affatto retorico, di nostalgica

rammemorazione” (Grana).

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  • Dante
  • Letteratura Italiana - 200 e 300

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