Riassunto
Il secondo canto dedicato agli invidiosi si apre con un dialogo fra le anime di due nobili romagnoli, vissuti nel
secolo XIII, Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Il primo, avendo notato che Dante è ancora vivo, lo prega di rivelargli la
patria e il nome: il Poeta, per mezzo di una lunga perifrasi, spiega che la sua città di nascita è situata lungo le rive di un
fiumicel che per mezza Toscana si spazia, ma tace il suo nome che non è ancora sufficientemente conosciuto. Guido del Duca
pronuncia contro gli abitanti delle località (il Casentino e le città di Arezzo, Firenze e Pisa) percorse dall’Arno una dura
requisitoria, accusandoli di avere abbandonato ogni virtù e, di avere trasformato la valle del fiume in un covo di malizia. Per
sottolineare la gravità della degenerazione dilagante in questi luoghi, il romagnolo inizia una fosca predizione intorno al
nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, che tiranneggerà la città di Firenze spargendovi il terrore. Dopo aver confessato il
proprio peccato e dopo aver rivolto una breve apostrofe all’umanità che si lascia traviare dall’invidia, Guido, nell’ultima
parte del suo discorso, ricordata la corruzione presente della Romagna, rievoca con nostalgia e rimpianto il tempo passato, nel
quale le virtù, il valore e la cortesia guidavano la vita di ciascuno. Quando i pellegrini riprendono il viaggio, voci
misteriose ricordano due esempi di invidia punita.
Introduzione critica
Nell’Inferno la polemica
politica – anche se, nello stesso momento in cui veniva posta, si allargava in una prospettiva morale, ergendosi a condanna del
male diffuso nel mondo, perché ad una costante preoccupazione etica Dante é condotto dalla sua naturale predisposizione e dalla
decisa influenza del suo tempo, che tutto sottoponeva al vaglio della morale – si risolveva nel duro giudizio contro il
peccatore, nell’inflessibile condanna del vizio, nella situazione drammatica che, attraverso l’orrore della pena, reintegrava
la giustizia, quasi che l’animo del Poeta, in continua, recisa antitesi con il suo mondo, in nome di un superiore ideale di
virtù e di giustizia, venisse appagato dalla “vendetta” con la quale, trasformando il suo giudizio nel giudizio divino, dannava
ai tormenti dell’inferno i responsabili delle lotte e delle discordie civili. Nella seconda cantica, allorché la mutata
situazione spirituale schiude l’anima al divino, allontanandola dall’urgenza del peccato, la possibilità di un giudizio sul
mondo e di un confronto, doloroso, fra il mondo reale e il mondo ideale, si propongono con ben più vasta ampiezza di
prospettiva. “Nel Purgatorio – rileva con acutezza il Grana – il necessario atto giudicativo (insopprimibile affermazione di
coscienza del poeta-giudice) supera la dura deliberazione di una condanna delle anime e non incide più inflessibilmente sui –
singoli affrancati da una sentenza di espiazione salvifica, di gioia-dolore ansiosa di bene e di vita eterna; ma allora si
riversa sui viventi, e però si risolve in una visuale più larga e se si vuole più astratta, nel giudizio morale sulle genti,
sull’umanità peccatrice perciò la condanna del mondo nel Purgatorio infierisce sempre (e sempre assai grave sarà anche nel
Paradiso), ma anziché essere «-attuata » nella pena eterna, come nei cerchi del baratro infernale, è pronunciata e conclamata
dai giudici-testitnóni (le guide, il pellegrino) e dai personaggi stessi…” L’esemplificazione di queste parole, da cercarsi
nel discorso di Guido del Duca, che ben presto supera i limitati confini della Toscana e della Romagna, trascendendoli in una
inflessibile sentenza morale, spaziando dovunque virtù.. per nimica si fuga, risolvendo il contenuto aspro e mordente della sua
invettiva in una tonalità elegiaca che chiede le sue note più vere al rimpianto e alla rievocazione di un mondo ormai
trasfigurato in un clima di epopea e di mito (versi 109-111). Una lettura in chiave contenutistica del canto si presenterebbe
ricchissima di risultati, poiché nel breve arco di 95 versi é possibile evidenziare tutta una concezione politico-storica densa
di problematicîtà (il grande sogno medievale di una palingenesi che, attraverso la purificazione degli animi, dovrebbe
riportare nel mondo la felicità, l’urto insanabile fra un presente -corrotto è un- passato pieno, di virtù, fa possibilità di
redenzione solo attraverso un ritorno, ai nobili ideali di un tempo), ché si riproporrà in termini ancora più fermi nella
meditazione di Marco Lombardo e, nel Paradiso, nei tre canti dedicati a Cacciaguida. Tale lettura, però, trasformerebbe in una
pagina di meditazione e di oratoria quella che è soprattutto una creazione di poesia, nella quale la politica diventa, “affetto
di tutta l’anima” (Croce). Attraverso, una calcolatissima tripartizione di motivi e di stili, l’invettiva esamina il triplice
ritmo del tempo, distendendosi dallo sdegno e dal sarcasmo iniziali, che elaborano un linguaggio simbolico denso di passione
morale (versi 294) per flagellare il presente, alla visione apocalittica della parte centrale (versi 55-66), che svolge
attraverso un registro profetico la predizione del futuro, alla elegia finale, che conferisce una forma epico-drammatica al
vagheggiamento del passato (versi 88-123). Il motivo centrale, l’ispirazione profonda dell’apostrofe – l’invidia
configurantesi come superbia e cupidigia fomentatrici di odi e violenze – sorregge la costante tensione emotiva nella quale
questa diversità di temi e di cadenze sentimentali trova unitaria disposizione, risolvendo in efficace integrazione i due poli
lirici di questi versi: il dolore con il quale il Poeta guarda alla realtà storica del suo tempo e l’amore attraverso il quale
vorrebbe redimerla, i due sentimenti che giustificano l’intransigenza del moralista (nella misera valle dell’Arno la virtù
per nimica si fuga da tutti come biscia, il paese tra ‘I Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno é tutto ripieno di venenosi
sterpi) e il pessimismo dell’indagatore che giunge a negare la continuità stessa della vita (ben fa Bagnacaval, che non
rifiglia). Soprattutto giustificano i modi della satira e del sirventese – che percorrono, sia pure son modulazioni più
attenuate, anche la parte dedicata al rimpianto del passato “cortese” – riportandoci al gusto realistico della tradizione
letteraria europea del tempo, all’uso della metafora vigorosa e concreta che fa pensare al Dante delle Rime petrose o
realistiche, che dichiara di volere parlare aspro per esprimere uno stato d’animo iracondo, duro, a volte esasperato. Allorché
il pianto spezza le parole di Guido del Duca, chiudendo la sua figura in un virile ed eroico silenzio, la linea drammatica
caverà del canto, la sua solennità contenutistica ed espressiva, continua nelle voci degli esempi di invidia punita, che
prorompono improvvise con la violenza di un tuono. Contenuti ciascuno in un breve e veloce verso, i due esempi hanno una
drammatica concisione epigrafica, “si scoscendono procellosamente per l’aria” (Momigliano), lasciando nel pellegrino un’eco
paurosa, finché il commento sentenzioso e il monito di Virgilio, nella ricomposta serenità della scena, in una solitudine
circondata di silenzio (già era l’aura d’ogne parte queta), perfezioneranno “il motivo religioso, sollevando il tono
passionale e terrestre del cauto, oltre il suo culmine tempestoso, in una sfera di astrazione contemplativa e di ascetica
severità, con un richiamo dalla terra alle bellezze dell’universo creato” (Grana).
- 200 e 300
- Riassunto e Critica Purgatorio
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300