Purgatorio: Riassunto e Critica XXII Canto - Studentville

Purgatorio: Riassunto e Critica XXII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Virgilio interroga Stazio mentre, in compagnia

di Dante, stanno salendo verso il sesto girone. Vuole sapere il motivo per il quale un’anima di grande nobiltà, come la sua,

può essersi macchiata della colpa dell’avarizia. In realtà l’autore della Tebaide e dell’Achilleide è rimasto più di

cinquecento anni nel quinto girone per essere caduto nel vizio contrario, in quello della prodigalità: infatti – chiarisce

Stazio – nel purgatorio vengono puniti nello stesso luogo i due tipi opposti di peccato. La seconda spiegazione richiesta da

Virgilio riguarda il modo nel quale avvenne la conversione di Stazio dal paganesimo al cristianesimo. Un passo delle Bucoliche

virgiliane, che accennava al rinnovamento del mondo, coincideva con il messaggio della nuova fede che veniva diffusa dovunque

proprio in quel tempo; questo fatto spinse Stazio ad avvicinare i predicatori cristiani, che, con la santità della loro vita,

lo convinsero ad abbandonare ogni altra posizione religiosa o filosofica per diventare cristiano attraverso il battesimo.

Tuttavia, per timore delle persecuzioni, tenne sempre nascosta la sua conversione: per questo motivo dovette rimanere più di

quattrocento anni nel girone degli accidiosi. Infine è Stazio che interroga Virgilio, per sapere in quale cerchio dell’inferno

si trovano alcuni poeti latini. Il cammino dei tre viandanti continua finché essi incontrano, posto in mezzo alla strada, un

albero carico di frutti odorosi, dalle cui fronde una voce ignota grida alcuni esempi di temperanza.

Introduzione

critica

Il momento di maggiore accensione poetica del canto XXI era coinciso con l’appassionata rievocazione del

magistero formale ed estetico dell’Eneide. Stazio, nel prorompere di una incontenibile gratitudine, aveva definito il poema

virgiliano in primo luogo attraverso un riferimento al mondo della natura, rischiarato tuttavia già da un barlume del

sovrannaturale. Divina fiamma gli si mostra nel ricordo l’epopea dell’eroe predestinato a porre in Italia, dopo innumeri

peregrinazioni, le fondamenta della gloria romana, e, con ciò, a condurre a termine una fase essenziale del disegno

provvidenziale da Dio fissato per il cammino dell’umanità. L’Eneide divampò nel suo animo con la furia barbara di un grande

incendio, ma, umanizzandosi, questo incendio non tardò a manifestarsi non devastatore, bensì educatore, maternamente benefico:

le sue faville lo scaldar, non diversamente da come una madre scalda, stringendoselo al petto, il suo bambino; e infatti

l’Eneide, configurata in un primo momento come vorace fuoco immesso per volontà divina nel mondo, assume, immediatamente dopo,

caratteri più affettuosi e umani, nella ripresa chiastica mamma fummi e fummi nutrice (canto XXI, versi 97-98). La portata

sovrannaturale dell’insegnamento di Virgilio viene tuttavia esplicitata, in tutte le modalità del suo manifestarsi, nel canto

XXII, in cui l’episodio di Stazio trova la sua alta legittimazione nel quadro delle prospettive etico-religiose che hanno

presieduto alla composizione del poema. L’aggettivo divina, qualificante l’Eneide in quanto prodotto non del solo operare

umano, ma quasi espressione in terra della volontà che presiede – al di là delle singole volontà degli uomini – al maestoso,

imperscrutabile decorso della storia, sottintendeva un germe provvidenziale nella creazione di quest’opera. Virgilio, infatti,

nella celebrazione che Stazio ne fa nel canto XXII, appare non più quale maestro di sublime poetare, ma, in riferimento ad un

passo del terzo libro dell’Eneide, portavoce di una esigenza morale, e infine, con riferimento alla IV Egloga, nelle vesti

quasi di un novello Battista, pagano inconsapevole dello splendore della Rivelazione che la sua parola seminerà, germoglio di

vita incorrotta, nel declinante, ineluttabile crepuscolo degli dei falsi e bugiardi. La sua opera pertanto non é più

presentata, in questa seconda parte dell’episodio di Stazio, in termini anzitutto naturali ed umani – quali erano quelli

proposti dallo sviluppo metaforico che traduceva il rogo rigeneratore della parola poetica (la divina fiamma) nell’emozione

trepida e calda di una maternità e di una educazione dolcissime – ma in termini che si riallacciano direttamente alle metafore

della letteratura cristiana. La divina fiamma del canto XXI si trasforma, nel XXII, in pura luce priva di furore, nel lume

(versi 67-69) casto e discreto della fede, quello che rischiarò nelle tenebre pagane gli ancor timidi passi dei primi

cristiani, che li portò a riunirsi nell’umiltà sepolcrale ed intima delle catacombe. Nella terzina 82-84, infatti, la serie

radiosa dei martiri si configura come l’elemento decisivo che indusse Stazio, attraverso il lavacro battesimale, a rinascere a

nuova vita – il tema del battesimo ripropone qui, sul piano di una meditazione dei significati più intimi di questo sacramento,

quello della risurrezione (canto XXI, versi 7-9) anticipante, nell’esordio, il senso dell’episodio medesimo nel suo insieme –

completando in tal modo, attraverso la sacralità di un rito, quella lenta, graduale conversione al cristianesimo, iniziatasi

nelle sue prime, timide fasi nel segreto di una contrastata coscienza, a seguito della illuminante penetrazione della IV

Egloga. Tale lume più nulla possiede del tempestoso agitarsi di una fiamma: é incendio calmo e consolatore, che l’imperitura

gloria degli umili – quella che splenderà sul capo dei poveri di spirito nel regno dei Cieli – di continuo alimenta e protegge.

Il lume che indirizzò, sulle orme del cieco Virgilio, i passi di un’anima ancora esitante verso la vera fede, é un evangelo di

pace, non conduce – a differenza della divina fiamma del canto precedente – a fastigi di fama tra gli uomini, ad incoronazioni

effimere in terra. Esso infatti non fu volto a far partecipi del proprio fuoco i pochi eletti che le Muse nutrirono di cibi

privilegiati, ma illumina il cammino della umanità in ciò che questa possiede di più intimo, di più autentico e, oltre ogni

altezza di ingegno o di opere, di imperituro: il dolore, non già quello sublimato nelle linee ritmate di un’opera d’arte, ma

l’umile, improbo dolore quotidiano, non riconosciuto né dagli uomini ricompensato. È questo dolore che, nella seconda cantica,

trova la propria espressione – trascendendo lo stesso splendore dell’immagine poetica – nel ricorrente e melodico rituale

della preghiera, espressione tradizionale e modesta se concepita nelle sue linee generali, ma di una ricchezza inesausta di

significati, di limpidi rimandi al futuro, al tempo che concluderà i tempi, se messa in rapporto al soggetto. Questi la

assimila a una fede elementare e saldissima, a quel bisogno di certezza circa l’infinito che appare ineliminabile in noi e

pone domande non già all’esistenza oggettiva delle cose, al causale susseguirsi degli eventi, ma alla nostra sorte ultima, al

mistero del nostro inarrestabile fluire nel tempo, verso il punto che, arrestandoci, dovrà collocarci per sempre in quella che

l’Auerbach con felice espressione ha chiamato – in rapporto al suo definirsi nell’ambito della Commedia – la “dignità del

giudizio divino”.

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  • Letteratura Italiana - 200 e 300

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