Mentre io
ficcavo gli occhi tra le fronde verdi dell’albero (per scoprire donde provenisse la voce: cfr. canto XXII. 140 sgg.), come
suole fare il cacciatore che perde tutto il suo tempo dietro gli uccelletti,
Virgilio, premuroso più che un padre, mi
diceva: « Figliolo, ora vieni, perché bisogna distribuire in modo più utile il tempo che ci è assegnato (per visitare il
monte)».
Io volsi gli occhi, e non meno in fretta il passo, verso i due poeti, i quali tenevano discorsi così interessanti,
che camminare con loro non mi costava alcuna fatica.
Ed ecco si udì piangere e cantare « Signore, (aprirai) le mie labbra»
in modo tale, che suscitò diletto per il canto e dolore per il pianto.
Io allora cominciai a dire: « Dolce padre, che
significa questo canto che io odo? » Ed egli mi rispose: « Forse sono anime che vanno sciogliendo il vincolo del loro debito
con Dio ».
Così come fanno i pellegrini assorti nei loro pensieri, quando per via raggiungono persone sconosciute, e le
guardano senza fermarsi,
alla stessa maniera ci osservava con stupore una turba silenziosa e devota di anime che veniva
dietro di noi, ma con passo più spedito, e ci oltrepassava.
Ogni anima aveva gli occhi spenti e incavati, la faccia pallida,
e la persona tanto magra, che la pelle prendeva la forma delle ossa.
Non ritengo che Eresitone per il digiuno fosse così
ridotto alla sola pelle, quando temette maggiormente di dover restare digiuno (e giunse ad addentare le proprie
carni).
Pensavo e dicevo tra me stesso: « Così dovettero ridursi gli Ebrei (la gente) che perdettero Gerusalemme, quando
(durante l’assedio dell’imperatore Tito) Maria di Eleazaro divorò (dié di becco) il proprio figlioletto! »
Le occhiaie
parevano castoni di anelli senza gemme: chi nel volto umano afferma potersi leggere la parola “orno”, su quei volti avrebbe
distinto molto bene la emme.
Chi, ignorando (non sappiendo) in che modo ciò avvenga (como: dal latino quomodo), potrebbe
credere che il profumo di un frutto e quello di un’acqua, generando brama (di mangiare e di bere), potessero ridurre in tale
stato (sì governasse) quelle anime?
Ero tutto intento a considerare che cosa le rendesse tanto affamate, non essendomi
ancora nota la causa della loro consunzione, e della loro pelle disseccata e squamosa,
quand’ecco un’ombra dal fondo delle
occhiaie incavate nella testa rivolse a me gli occhi e mi guardò fissamente; poi gridò ad alta voce: « Che grazia singolare è
mai questa per me?»
Io non l’avrei mai riconosciuto solo guardandolo; ma nella sua voce mi si rivelò la persona che
l’aspetto esteriore aveva distrutto.
La voce fu la scintilla che ravvivò in me la piena conoscenza di quella fisionomia
mutata, e così potei riconoscere la faccia di Forese Donati.
Pregandomi mi diceva: « Deh, non badare all’arida scabbia che
mi scolora la pelle, né alla mancanza di carne che denoto,
ma dimmi la verità riguardo a te (che mi sembri ancor vivo), e
dimmi chi sono quelle due anime là che ti guidano: non ti astenere dal parlarmi ! »
Gli risposi: « Il tuo viso, che io già
piansi quando moristi, mi causa ora un dolore non meno intenso (di quello di allora), tale da farmi piangere, vedendolo così
deformato.
Perciò (però) dimmi, per amore di Dio, che cosa vi consuma in tal modo: non farmi parlare finché sono in preda
allo stupore perché chi è dominato da un altro desiderio con difficoltà può parlare ».
Ed egli a me: « Per disposizione
divina scende nell’acqua e nella pianta rimasta dietro di noi un potere per cui io dimagrisco in questo modo.
Tutta questa
gente che canta e piange per aver assecondato la gola oltre misura, qui soffrendo la fame e la sete ritorna pura.
A noi
accende il desiderio di bere e di mangiare il profumo che emana dal frutto di quell’albero e dallo spruzzo d’acqua che si
irradia sopra le sue foglie verdi.
E non una sola volta si rinnova la nostra pena, mentre giriamo il ripiano di questa
cornice: ho detto pena, e dovrei dire gioia,
perché ci conduce agli alberi (il primo all’ingresso del girone, canto XXII,
131 sgg., l’altro all’uscita, canto XXIV, 103 sgg.) quella stessa volontà che condusse Cristo lieto sulla croce a dire “Dio
mio”, quando ci redense col suo sangue ».
E io gli dissi: « Forese, dal giorno in cui passasti dalla vita terrena a
un’esistenza migliore fino ad oggi non sono ancora trascorsi cinque anni.
Se in te venne meno la possibilità di peccare
ulteriormente prima che sopraggiungesse l’ora del sincero pentimento che ci riconcilia con Dio (cioè: se ti pentisti solo nel
momento estremo della vita, allorché non è più possibile peccare),
come sei di già venuto quassù? Io pensavo di trovarti
laggiù nell’antipurgatorio, dove il tempo perduto (senza pentirsi) si compensa con altrettanto tempo di attesa (prima
dell’espiazione)».
Perciò mi rispose: « Mi ha condotto così presto quassù a bere il dolce assenzio delle pene la mia Nella
con le sue calde lagrime.
Di Nella o Giovanna Donati sappiamo soltanto quello che qui ne dice Forese. Dante, nel primo
sonetto della citata Tenzone, la rappresenta crucciata contro il marito, perché da questo trascurata: qui fa ammenda di quella
sua prima malevola presentazione.
Con le sue preghiere devote e con i sospiri mi ha tratto dall’antipurgatorio, e mi ha
liberato dai gironi precedenti.
La mia vedovella, che io ho intensamente amato, è tanto più cara e diletta a Dio, quanto più
è sola nel fare il bene,
perché la Barbagia di Sardegna nel costume delle sue donne è assai più pudica di Firenze, la
Barbagia dove io la lasciai morendo.
O dolce fratello, che altro vuoi ti dica di peggio? Mi è già davanti agli occhi un
tempo futuro, rispetto al quale quest’ora presente non è molto lontana,
in cui dal pulpito sarà solennemente proibito alle
sfacciate donne di Firenze di andare in giro mostrando il petto con le mammelle scoperte.
Quali donne barbare ci furono mai,
quali donne saracene, cui fossero necessarie sanzioni religiose o civili per farle andare coperte?
Ma se quelle svergognate
venissero a sapere quello che il cielo a breve scadenza prepara per loro, avrebbero già la bocca aperta per urlare di
spavento,
perché, se qui non m’inganna la mia preveggenza, esse saranno dolenti prima che il bambino il quale ora si
acquieta col canto della ninna nanna, diventi adulto.
Deh, fratello, cerca ora di non celarmi oltre ciò che ti ho chiesto!
vedi come non solo io, ma tutta questa gente guarda con stupore il luogo dove con la tua ombra veli il sole».
Perciò io mi
rivolsi a lui dicendo: « Se richiami alla memoria la vita che conducesti con me, ed io con te, il ricordarla ora (il memorar
presente) sarà ancora spiacevole.
Mi distolse da quella vita viziosa solo pochi giorni fa costui che mi guida, quando si
mostrava a voi piena la luna, la sorella di quello »:
e gl’indicai il sole. « Costui m’ha condotto attraverso la notte
profonda dei veri morti (perché dannati) dell’inferno, mentre io portavo con me questo mio corpo reale che lo segue.
Di li
i suoi incoraggiamenti mi hanno aiutato a salire e a girare ripetutamente i balzi di questo monte, il quale raddrizza voi che
il mondo aveva storpiato.
Ed egli promette che mi accompagnerà, finché non sarò giunto là dove sarà Beatrice: colà è
necessario che io resti privo di lui.
Questi, che mi fa tali promesse, è Virgilio » e glielo additai; « e quest’altro è
Stazio, quell’anima per la quale poco fa scosse tutte le sue pendici
il monte del purgatorio, che lo allontana da sé
».
- 200 e 300
- Parafrasi Purgatorio
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300