Riassunto
Dante, lasciato da Virgilio alla soglia del paradiso terrestre, sì dirige verso il bosco, folto e ricco
di verde, che occupa gran parte dell’Eden. Entrato nella selva, il Poeta si trova la strada interrotta da un ruscello, le cui
acque, benché prive di ogni impurità, appaiono tutte scure sotto l’ombra perpetua della divina foresta. Sulla sponda opposta
appare una figura di straordinaria dolcezza: una donna cammina sulla riva del fiumicello cantando e cogliendo i fiori più
belli. Dante la prega di avvicinarsi di più a lui, affinché gli sia possibile udire le parole del suo canto, e la donna,
muovendosi con la stessa grazia di una figura danzante, ne esaudisce la richiesta. Matelda, questo è il nome (che sarà rivelato
solo nel canto XXXIII, verso 119) della dolce apparizione, dichiara di essere giunta per soddisfare ogni domanda di Dante, il
quale subito le chiede una spiegazione: come possono esserci nel paradiso terrestre l’acqua e il vento, dal momento che al di
sopra della porta del purgatorio non esistono alterazioni atmosferiche? Il monte del purgatorio – incomincia Matelda – fu
scelto da Dio per essere la dimora dell’uomo, il quale ne fu privato dopo il peccato originale; esso fu creato altissimo,
affinché le perturbazioni atmosferiche non nuocessero alla creatura umana, ma la sfera dell’aria, che si muove con il muoversi
dei cieli, colpisce gli alberi della selva facendoli stormire. Questi ultimi impregnano dei loro semi l’aria intorno, la
quale, muovendosi, li sparge dovunque sulla terra. Quanto al ruscello che Dante ha visto, esso non nasce da una sorgente
alimentata dalle piogge, ma da una fonte che riceve direttamente da Dio tanta acqua, quanta ne perde. Infatti due sono i fiumi
del paradiso terrestre: il primo, già incontrato dal Poeta, è il Letè, la cui acqua dona l’oblio dei peccati commessi, il
secondo è l’Eunoè, che fa ricordare solo le opere buone compiute.
Introduzione critica
Lo stacco che si
avverte tra la fine del canto XXVII e il principio del XXVIII esprime il mutamento che si verifica nella vicenda dell’anima
del pellegrino e separa, come un complesso a sé, il gruppo dei canti finali del Purgatorio dalla parte precedente della
cantica. Le parole con cui Virgilio ha dichiarato assolto il proprio compito (canto XXVII, versi 127-142.). riassumevano il
significato dell’intero itinerario del pellegrino nei due primi regni dell’oltretomba. Esse rappresentavano il coronamento
degli sforzi da lui compiuti sotto la guida della ragione per riacquistare la sua libertà e, in quanto tali, avevano un tono di
trionfo, ma non di serenità. Lungi dall’essere smorzato, vibrava in esse, pienamente consapevole, quel sentimento che aveva
caratterizzato l’intero magistero del poeta latino nel corso delle due prime cantiche: un modo di concepire la vita in termini
di rinuncia ad ogni indugio contemplativo – giudicato ozioso – di traduzione immediata di ogni dato elaborato dalla teoria in
prassi morale, in virtù attiva ed impaziente di trascendersi per un più alto grado di perfezione. Giustamente il Sapegno scrive
a proposito di questo ultimo discorso rivolto da Virgilio al suo discepolo: “la nota malinconica e patetica del congedo é
appena accennata, con virile pudicizia. L’accento batte sull’importanza dello sforzo compiuto e sulla grandezza
dell’acquisto, che ne consegue”. L’esordio del canto XXVIII propone invece una condizione dello spirito dalla quale ogni
traccia di sforzo, di difficoltà, é sparita. Restaurata nel pellegrino la natura umana quale fu in Adamo prima del peccato di
origine, il sentimento che lo anima, di fronte allo spettacolo che gli si apre davanti, non é quello del dolore e della sua
necessità, ma quello di un appagamento che nessun cruccio incrina. La divina foresta rappresenta una proiezione sensibile dello
stato di innocenza che fu proprio dell’umana radice prima del peccato. Essa si contrapporre esplicitamente nella definizione
datane dal Poeta non meno che nella funzione simbolica attribuitale nell’economia generale della Commedia – alla selva del
peccato del canto proemiale dell’opera. In entrambe una condizione della presenza umana nel mondo é suggerita in termini i
quali, pur adombrando in sé il sovrannaturale, sono ancora di pertinenza della sola natura. Ma il lussureggiare della
vegetazione ha, nei due casi, un significato diametralmente opposto. Nella selva selvaggia e aspra e forte esso allude ad un
vivere dominata da una pluralità di istinti contrastanti, donde una lacerazione, un conflitto, che oppone l’uomo a se stesso e
dal quale non é data liberazione attraverso mezzi puramente umani, laddove questi medesimi istinti manifestano, nel paradiso
terrestre, la presenza in essi di un principio di armonia, esprimendo in tal modo la pacificazione dell’uomo con se stesso e
il concorrere di tutte le sue facoltà all’adempimento dei compiti assegnatigli da Dio. Nella descrizione della divina foresta
spessa e viva é presente il senso di una felicità che pone le manifestazioni del vivere al di là di ogni interrogativo, di ogni
angoscia o imprevisto: lo scorrere del tempo, sulla sommità del purgatorio, non é apportatore di vecchiaia, non contiene in sé,
implicite, la delusione e la morte. Esso, al contrario, non fa che confermare, nell’attualizzarsi del futuro, un grado di
perfezione inalterabile, un fermo presente, una primavera perpetua. Questa costanza nel dispiegarsi del tempo, là dove il tempo
sta per essere abolito, é resa efficacemente, in quanto elemento di uno spettacolo naturale, dall’aura… sanza mutamento che
percuote le fronde della foresta, senza peraltro piegarle al punto da impedire agli augelletti di manifestare la loro letizia,
ad essa accordando il loro canto. Giova osservare, in proposito, come le due successive limitazioni dei versi 9 e 13-14 (non di
più colpo che soave vento e non però dal loro esser dritto sparte tanto) assolvano al compito di suggerire il perfetto stato di
natura che caratterizza il paradiso terrestre e la condizione dell’uomo in esso: nulla di eccessivo, di esorbitante dai limiti
assegnati ad ogni manifestazione del reale dal volere di Dio, può sussistere là dove la natura é riconciliata con se medesima e
dove l’uomo ha ritrovato quella pienezza di vita e quella densità di significato, di cui il male, il dubbio, lo avevano reso
privo. Ricordiamo in proposito che la classificazione delle pene nel purgatorio é basata, dopo le prime tre cornici, in cui é
punito l’ “amore” per malo obietto, sul principio di un giusto mezzo razionale, che é stato trasgredito, in un senso o
nell’altro, per troppo o per poco di vigore (canto XVII, verso 96). Lo spettacolo offerto agli occhi del protagonista dalla
foresta – di cui il vento incurva i rami senza pregiudizio per la vita che in essa alberga e il fine della quale é una
glorificazione della gioia stessa di essere in vita – esprime appunto in termini sensibili il raggiungimento di questo
equilibrio, la sua restaurazione dopo i disordini che ha introdotti, nella mente e nel volere, il peccato. Il medesimo
equilibrio, la medesima armonia sono manifestati dalla figura di Matelda, alla quale é affidato nel paradiso terrestre il
compito di preparare Dante ad accogliere in sé la verità rivelata. Matelda adempie quindi ad una funzione non dissimile da
quella degli angeli guardiani delle cornici del monte; i suoi atti rivestono un significato liturgico non meno di quelli degli
angeli, ai quali é affidata la progressiva cancellazione delle P dalla fronte di Dante. Ma essa non é alata, non é armata di
spada ed il suo sguardo non é insostenibile. In questa apparizione felice il sovrannaturale si manifesta nel quadro di una
natura che ha raggiunto la propria perfezione, nella quale, cioè, stato di fatto e idea coincidono senza sforzo e senza
lasciare residui di insoluta problematicità.
- 200 e 300
- Riassunto e Critica Purgatorio
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300