Riassunto
Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano
Dante a distogliere il suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a muoversi
in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano intorno a un albero altissimo e
spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di
foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si
risveglia, Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l’albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro seniori,
il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. La seconda parte del canto è occupata dalla rappresentazione
delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive allegorie. Dante ricorda – con la figura dell’aquila – le
persecuzioni portate contro i primi cristiani e con l’immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo
l’aquila – simbolo dell’Impero – ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di
cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall’imperatore Costantino a papa Silvestro. Poi un drago, che
rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di
soddisfazione. L’immagine della Chiesa si trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di
lei siede una sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna subito dopo che
questa ha volto il suo sguardo verso Dante. Il canto termina mostrando il gigante che stacca dall’albero il carro della Chiesa
per trascinarlo nella selva.
Introduzione critica
Il discorso esegetico intorno al canto XXXII potrebbe
allargarsi indefinitamente, perché esso si trova di fronte, ancora una volta, al problema dei rapporti fra allegoria e storia –
entrambe presenti in modo preponderante in questo canto – e a quello della loro trasformazione in termini poetici. La vastità e
la complessità di una simile indagine possono, tuttavia, spiegare i risultati diversi, per non dire opposti, ai quali é
pervenuta la critica. É evidente, infatti, che la sola analisi estetica, di ascendenza romantica, non possa trovare che brevi
momenti di « poeticità », considerando il resto del canto una confusa e macchinosa costruzione. D’altra parte risponde ad un
saggio criterio di lettura evitare una eccessiva storicizzazione del carro XXXII, giudicandolo solo una manifestazione
dell’ansia di rinnovamento – in campo ecclesiastico e politico – assai diffusa ai tempi di Dante o, peggio, confinandolo al
rango di una delle tante pagine visionarie delle quali il Medioevo si é mostrato fecondo. Quanto si compie nell’alta selva
vota ripropone l’atmosfera gravida di tensione della selva oscura del I canto dell’Inferno, perché vi riecheggia lo stesso
stimolo ad una azione vigorosa contro il peccato, lo stesso senso di attesa di fatti futuri destinati a sconvolgere il corso
degli eventi, le stesse immagini di male (alla lupa che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza e molte genti fe’ già
viver grame si contrappone la volpe che «si avventa» e che d’ogni pasto buon parea digiuna), ma soprattutto perché vi si
ribadisce la missione profetica dal Poeta assunta in pro del mondo che mal vive fin dalle prime battute della Commedia. In esse
Dante prendeva coscienza della colpa che gli aveva meritatala morte spirituale, ma la misericordia di Dio provocava un
capovolgimento nella situazione: “il peccatore – nota il Montanari – sarà salvato e proprio perché è stato peccatore, già
condannato a morte, sarà fatto strumento di salvezza per tutti gli altri uomini …. Sarà un nuovo Paolo fermato sulla via di
Damasco e fatto profeta della verità che lui perseguitava”, perché il profeta non é mai “scelto per i meriti suoi, ma anzi
viene scelto nonostante il suo peccato o almeno nonostante i suoi gravi difetti…” Coerentemente alla mentalità medievale –
per la quale la relazione fra salvezza eterna e salvezza terrena é sostanziale, non potendo l’uomo tendere alla prima senza
avere realizzato la seconda, attraverso l’efficiente azione dell’Impero – la missione profetica di Dante si impone e sul
piano spirituale e sul piano temporale. Per questo non é possibile sostenere uno stacco netto fra i canti XXX-XXXI, dominati
dal colloquio fra il Poeta e Beatrice, in qualità rispettivamente di penitente e di giudice, e il canto XXXII, occupato dalla
presentazione delle vicende principali dei rapporti fra Chiesa e Impero: anzi essi indicano chiaramente come l’opera di Dante
sia il frutto di una sintesi, poetica e sistematica nello stesso tempo, di tutta la realtà universale. Per lui, giunto sulla
vetta del purgatorio, il tema storico-politico può vivere solo come interpretazione della volontà di Dio, avendo Dio
manifestato la sua volontà proprio attraverso la storia e le sue vicende: si tratta solo di trovare il criterio esatto per
spiegare gli avvenimenti terreni presi come espressione della provvidenza divina, e per trovare in essi, attraverso gli
sconvolgimenti causati dalle azioni peccaminose degli uomini, il principio razionale che li guida alla meta ultima. “Dante non
fu il primo a presentare la sua interpretazione come autentica, essendo l’appello all’autorità divina il modo naturale e
normale nella civiltà medievale come ai tempi della profezia ebraica, di esprimere forti convinzioni politiche. Certo,
pochissimi fra i predecessori di Dante si erano spinti fino a pretendere che una rivelazione speciale era stata loro largita, e
mai prima di lui una tale pretesa era stata manifestata con altrettanta unità enciclopedica di visione e con altrettanta forza
d’espressione poetica.” (Auerbach) A partire dal verso 37 e fino alla fine del canto si riversa su ogni allegoria e su ogni
metamorfosi la presenza del sovrannaturale, che non può non esserci allorché una storia di secoli viene contratta in pochi
attimi e vissuta in movimenti simbolici che colgono il valore spirituale, il significato etico-religioso degli eventi, che
presentano i fatti come già sottoposti al giudizio finale di Dio e quindi già collocati nel luogo che a loro compete
nell’ordine divino, che distinguono nelle azioni umane i disegni segreti che preparano l’adempimento di una giustizia
riparatrice. Dante ha sentito con appassionata intensità questo “dramma sacro” e lo ha risolto in un “dramma figurato”, che non
a torto molti critici hanno accostato alle sacre rappresentazioni medievali. La trama del canto XXXII, infatti, non può non
richiamare tutta la letteratura allegorica, profetica, apocalittica che fu propria del Medioevo e che trovò la sua espressione
più famosa negli scritti di Gioacchino da Fiore, soprattutto nel momento in cui, di fronte alla dilagante corruzione morale
della Chiesa, al venir meno di ogni ordine civile e alla mancanza di una salda guida politica, da ogni parte si invocava un
rinnovamento dei costumi ecclesiastici e una rinascita del potere imperiale. Dante, dalla ricchissima simbologia del suo tempo,
che investiva non solo la letteratura ortodossa e riformatrice, ma anche le figurazioni artistiche, ha scelto forse gli
archetipi più rappresentativi, dai quali deriva il “carattere, oltre che drammatico, anche spiccatamente « visivo » e
descrittivo di questa poesia, con cui si accorda l’idea e l’efficacia figurale, pittorica e plastica della parola, quella
disposizione a fissare immagini, linee e colori, in movimento, che in questo canto XXXII s’intensifica in virtù animatrice, in
vicenda di drammaticità allucinante, in rapida magia di azioni sceniche” (Grana).
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