Purgatorio Canto 1: riassunto e significato

Purgatorio: Riassunto e Critica I Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la natural burella, si trovano sulla spiaggia di un’isola situata nell’emisfero antartico, nella quale si innalza la montagna del purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell’oltretomba, durante il quale argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso: necessaria è perciò la protezione delle Muse, che egli invoca prima che la sua poesia affronti il tema dell’ascesa alla beatitudine eterna. L’alba è prossima e i due pellegrini procedono in un’atmosfera ormai limpida e serena; dove brillano le luci delle quattro stelle che furono viste solo da Adamo ed Eva prima che fossero cacciati dal paradiso terrestre, situato per Dante sulla vetta del monte del purgatorio.

Volgendo lo sguardo verso il polo artico Dante scorge accanto a sé la figura maestosa di un vecchio: è Catone Uticense, che Dio scelse a custode del purgatorio. Poiché egli li crede due dannati fuggiti dall’inferno, Virgilio spiega la loro condizione e prega che venga loro concesso di entrare nel purgatorio, promettendo a Catone di ricordarlo alla moglie Marzia, che si trova con Virgilio nel limbo. Ma, risponde il veglio, una legge divina separa definitivamente le anime dell’inferno da quelle ormai salve; del resto non è necessaria nessuna lusinga, dal momento che il viaggio è voluto da una donna del ciel. Infine ordina a Virgilio di cingere Dante con un giunco (simbolo d’umiltà) e di detergergli il volto da ogni bruttura infernale. I due pellegrini si avviano verso la spiaggia del mare per compiere i due riti prescritti da Catone.

Introduzione critica

La lettura del primo canto del Purgatorio segue, lungo l’arco della critica dantesca, un’oscillazione tra due poli: il polo della ricerca che il Croce avrebbe definito strutturale, attenta ad una esposizione problematica di tutte le implicanze storiche, mitiche e teologiche e il polo dell’esegesi attenta a definire il significato ritualistico e l’intelaiatura liturgica che sorregge tutto il canto. E due sono stati i motivi attorno a cui la critica ha sovrapposto strati di ricerche e di interpretazioni: il personaggio di Catone, osservato in rapporto al concetto di libertà e al concetto di salvezza e il rito finale della purificazione, celebrato in sul lito diserto.

Questa analisi ci porta ad accostare ancora una volta il problema dell’allegoria in Dante e in un canto la cui struttura è tutta emblematica e che, sotto questo punto di vista, si offre efficace paradigma di tutta la seconda cantica. È stato giustamente osservato che anche gli interpreti più convinti della non poeticità dell’allegoria ammettono che nel primo canto “il simbolo è del tutto disciolto nella rappresentazione” (Bigi): la figura di Catone esprime la riconquista della libertà dopo l’esperienza del male, ogni gesto di Virgilio è un’officiatura liturgica nella riconsacrazione del suo discepolo al bene, il personaggio Dante appare nello stato del catecumeno che comincia il suo ciclo di iniziazione – purificatrice.

Su questi tre perni poggia la vicenda dell’anima nel momento in cui si avvia verso la penitenza e la redenzione, attraverso – secondo la distinzione del Bigi – “tre fasi successive: quella in cui l’anima si abbandona con immediato senso di benessere alla sua nuova condizione; il sopraggiungere della consapevolezza delle responsabilità e dei doveri che tale condizione comporta; e infine, raggiunta questa consapevolezza, l’inizio, ansioso e raccolto, della penitenza”. È un momento ancora drammatico, a torto dimenticato da molti critici che, sottolineando troppo l’atmosfera dolce e serena della spiaggia del purgatorio – atmosfera del resto necessaria perché il senso del divino si distenda “con un’intima potenza affinante e pacificatrice” (Malagoli) – dimenticano che “questo aprirsi dell’anima è strettamente avvinto al sentimento infernale: là è la sua humus” (Malagoli), non avvertendosi affatto “una diminuzione di tensione rispetto all’Inferno, quanto piuttosto una diversa tensione, meno disperata e convulsa e più controllata e solenne, ma pure anch’essa potentemente drammatica” (Bigi).

Noi andavam per lo solingo piano non indica, come vorrebbero alcuni critici, il tranquillo procedere dei due pellegrini, ma la fuga da un incubo, (per l’Apollonio anzi questo motivo continua in tutta la seconda cantica: “se l’Inferno è l’ipostasi della città degli uomini, il Purgatorio è il viaggio da quella città, l’esilio alla ricerca di una più vera patria, la fuga, anche da una minaccia bestiale e paurosa… di non so che malvagio uccello”) che si compone infine in due gesti semplici e armoniosi, che sembrano seguire il ritmo prestabilito di una cerimonia liturgica. Per il cristiano e per l’uomo medievale in particolare, erede diretto di tutta la letteratura patristica, che faceva della liturgia la sua matrice – rientrare nella Grazia significa rientrare nella vita liturgica – che della Grazia è l’espressione sensibile – cioè nella vita comunitaria della Chiesa: e non è fuori luogo ricordare che nel Purgatorio l’esistenza, delle anime e delle cose, è corale e concorde.

La recente lettura di Ezio Raimondi, perseguita con solidità di impianto critico e con finezza di proposte interpretative, segue, lungo tutto il canto, l’intreccio tra rito e storia alla ricerca d’una convergenza di significati, di ricordi, di miti, di simboli vitali in ciascuna delle immagini del canto, da quella della navicella alla descrizione dell’umile pianta, di cui Dante é cinto da Virgilio. Dopo l’esordio, che segue le leggi retoriche delle artes dictandi, il tema sembra essere quello stesso di tutta la cantica, cioè l’antitesi morte-risurrezione, male – libertà, peccato – ritorno a Dio. Attorno a questo fulcro dimostrativo si raccolgono immagini ricche di risonanze classiche, bibliche, liturgiche e patristiche, ma tutte inscritte in una tensione verso il ritorno all’innocenza perduta, verso la purificazione totale. I

n effetti si può affermare, col Raimondi, che “con quel gioco multiplo di suggerimenti e di registri che fa del simbolismo dantesco una invenzione geniale, il discorso del Poeta corre su due piani, l’uno retorico e l’altro, se si passa il termine, esistenziale”. Ancora una volta “l’interpretazione allegorica con cui la spiritualità medievale intende i fatti della cultura e gli aspetti del mondo e le vicende della vita, é un modo di pensare e di sentire: non si frappone tra l’intelletto e le cose, tra l’anima e i suoi movimenti, ma, anzi, ne agevola il contatto e la comprensione, ne suggerisce le vie per il possesso e l’unità” (Battaglia).

La poetica del trascendente, intesa come ricerca e conquista dei supremi valori spirituali, ha avuto inizio e Dante vi si consacra separando per un attimo il poeta (l’invocazione alle Muse), smarrito di fronte alla difficoltà della a “visione”, dall’uomo-personaggio, smarrito di fronte alla difficoltà dell’ascesa, ma legando inscindibilmente i due momenti, perché dal tema iniziale del “resurgere” (ma qui la morta poesì resurga) al rito lustrale della fine, il motivo unitario é la riconquistata libertà attraverso l’umiltà e in virtù della purificazione.

E sono proprio Catone, l’eroe mitizzato perché magnanimo, e Virgilio, il poeta vate e guida, a fare da ministri al rito : segno d’una rottura, attraverso la Grazia, del rapporto tra gloria ed umiltà: “l’umiltà non contraddice più, ora, alla magnanimità” (Raimondi). L’umile pianta, divelta per cingere il Poeta, rinasce preludio alla totale rinascita spirituale che Dante avvertirà alla fine del purgatorio, quando si sentirà rifatto si come piante novelle rinnovellate di novella fronda.

 

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