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Riassunto

Riassunto su Wittgenstein.

La vita, le opere e la formazione culturale I problemi della matematica e della logica furono essenziali nello sviluppo della filosofia di Ludwig Wittgenstein. Nato a Vienna nel 1889 da una ricca famiglia di industriali, studiò ingegneria a Berlino e, dal 1908, all’università  di Manchester, dove portò avanti ricerche di aeronautica. Qui si risvegliò il suo interesse per la filosofia della matematica, cosicchò nel 1911 andò a Jena da Frege, che gli suggerì di recarsi a Cambridge ed ebbe modo di entrare in contatto con Russell e con Moore. Poco prima della guerra, trascorse alcuni mesi in Norvegia, in solitudine, per intraprendere la stesura di quello che sarebbe poi stato il famosissimo Tractatus logico-philosophicus. Allo scoppio del conflitto, Wittgenstein si arruolò come volontario nell’esercito austriaco e passò alcuni anni sul fronte orientale, ma nel 1918 fu catturato sul fronte italiano e imprigionato a Cassino, presso Frosinone. Nell’agosto del 1919 fu liberato e nel dicembre dello stesso anno si incontrò con Russell, per discutere il manoscritto della sua opera, poi pubblicata in tedesco, nel 1921, in ‘ Annalen der Naturphilosophie ‘ ( ‘Annali di filosofia della natura’ ), diretti da Wilhelm Ostwald, col titolo Logisch-philosophische Abhandlung e, nel 1922, in traduzione inglese col titolo di Tractatus e con prefazione dello stesso Russell. Intanto Wittgenstein, dopo aver lasciato la sua parte di patrimonio ai familiari, si dedicò, dal 1920 al 1926, all’insegnamento elementare in alcuni villaggi austriaci. Nel 1926, dopo un breve periodo in cui svolse attività  di giardiniere in un convento, progettò per una delle sorelle la costruzione di una casa a Vienna. In questi anni entrò anche in contatto con alcuni membri del Circolo di Vienna e assistette ad una conferenza di Brouwer, che gli ridestò l’interesse per i problemi della filosofia della matematica. Nel 1929 tornò dunque a Cambridge, dove conseguì il dottorato di filosofia, e nel 1930 divenne membro del Trinity College. Appunti di lezioni, conversazioni e riflessioni, risalenti agli anni ’30 e stesi da Wittgenstein stesso o raccolti dai suoi ascoltatori, rimasero manoscritti, sebbene circolassero in cerchie ristrette, e solamente dopo la sua morte cominciarono ad essere pubblicati: tra essi le Osservazioni filosofiche, i Quaderni blu e marrone, risalenti agli anni 1933-1935, e le Osservazioni sui fondamenti della matematica, scritte nel 1937, quando Wittgenstein trascorse un anno in Norvegia. Nel 1939 successe a Moore come professore di Filosofia e Logica a Cambridge; poi durante la guerra lavorò come portaferiti in un ospedale di Londra; nel 1947 rinunciò alla cattedra, si ritirò in Irlanda, dove scrisse la seconda parte delle Ricerche filosofiche, iniziate nel 1941 e poi pubblicate postume nel 1953, in tedesco con traduzione inglese a fronte. Dopo un soggiorno negli USA, Wittgenstein, ammalato di cancro, fu colto dalla morte a Cambridge nel 1951. L’opera filosofica di Wittgenstein si distingue da quella dei pensatori a lui contemporanei anche per il suo stile: Wittgenstein non costruisce libri o saggi per sviluppare in maniera graduale e completa uno o più temi, articolando tutti i passaggi ed esplicitando tutte le argomentazioni che sorreggono ogni aspetto della trattazione. Il Tractatus, che è poi l’unico libro da lui pubblicato, è organizzato come un insieme di brevi proposizioni lapidarie, di tipo aforistico alla Nietzsche, enunciate in maniera assertoria, le quali si susseguono l’una all’altra, senza che sia sempre chiaro il nesso che le unisce. Più che di un organismo deduttivo di proposizioni, derivate l’una dall’altra secondo un ordine preciso e graduale di successione, si tratta di una rete, in cui ogni maglia è intrecciata alle altre, ogni pensiero è connesso agli altri, con temi che scompaiono e ricompaiono. Wittgenstein riteneva che il suo libro, che non doveva essere scambiato per un manuale, sarebbe stato compreso solo da pochi destinatari, e precisamente da quelli che in qualche modo già  avessero pensato i pensieri contenuti in esso. Al tempo stesso, egli era convinto, e lo dichiarava nella prefazione, di ‘ aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi ‘, cosicchò la verità  dei pensieri contenuti nel libro gli appariva ‘intangibile e definitiva’. I suoi scritti successivi, rimasti per lo più allo stato di appunti, abbandono invece il tono assertorio e il carattere di enunciazione generale, che è tipico del Tractatus. Essi procedono prevalentemente ad analizzare casi e situazioni particolari, per cercare di estrarne lezioni, che servano a correggere generalizzazioni filosofiche affrettate o infondate. Non di rado, Wittgenstein costruisce per questo motivo situazioni immaginarie o fa riferimento agli usi linguistici correnti, effettuando domande continue a se stesso o a qualche interlocutore fittizio, in una sequenza che riflette specularmente i passaggi e gli sforzi del suo pensiero nel formulare e articolare i problemi. Wittgenstein stesso paragonò ad un album il libro poi pubblicato col titolo Ricerche filosofiche, definendo i pensieri che esso conteneva ‘ una sorta di schizzi paesistici ‘, nati da scorribande in lungo e in largo. Il linguaggio e il mondo Il Tractatus comincia con l’asserzione che il mondo è la totalità  di tutto ciò che accade, ossia dei fatti. I suoi costituenti sono elementi semplici e indefinibili, detti oggetti, le cui combinazioni possibili sono quelle che Wittgenstein definisce stati di cose ( in tedesco Sachverhalte ): un fatto, a sua volta, non è altro che il sussistere di uno stato di cose. Le connessioni tra questi elementi semplici sono determinate dalla forma logica degli oggetti, i quali restano costanti e fissi, ma si presentano solo nella loro connessione entro stati di cose. Come non è possibile pensare un oggetto semplice se non in connessioni possibili con altri oggetti, così i nomi hanno senso solo entro una proposizione. Le proposizioni per Wittgenstein non avrebbero senso se non avessero una forma generale identica a quella degli altri stati di cose, cioò se in esse non si mostrasse questa stessa forma, dove ‘forma’ indica una possibilità  di struttura, cioò di combinazione tra gli oggetti. Ogni proposizione ha, pertanto, un senso chiaro e definito, che consiste nella sua relazione col mondo. Wittgenstein illustra questo punto dicendo che le proposizioni raffigurano stati di cose, cioò combinazioni possibili tra gli oggetti che costituiscono il mondo. Questa raffigurazione non va scambiata per una relazione di somiglianza o riproduzione totale dei particolari: quel che essa esibisce è l’identità  di forma tra quel che raffigura e quel che è raffigurato, come avviene nei modelli o nei plastici, dove la cosa importante, più che la fedeltà  ai minimi particolari, è il rispetto delle relazioni tra le parti dell’originale. Una proposizione però non comunica la sua forma tramite nomi o proposizioni, perchò in tal caso si andrebbe all’infinito: la proposizione invece esibisce tale forma, cioò fa vedere, tramite la combinazione e disposizione dei suoi elementi, che le cose stanno in quei termini. Proposizione elementare o atomica è l’unità  minima fornita di senso, mentre i suoi costituenti isolati non lo sono: a essa corrisponde uno stato di cose elementare. Comprendere una proposizione significa sapere come stanno le cose, quando essa è vera o falsa. D’altronde uno stato di cose è una possibilità  realizzata, cioò un fatto, quando la proposizione che lo raffigura è vera. In questo senso, si può affermare che i fatti sono ciò che rende una proposizione vera o falsa: vera se corrisponde ad essi, falsa se non corrisponde. Per appurare la verità  o falsità  di una proposizione bisogna dunque confrontarla con i fatti: tale procedura è detta da Wittgenstein di verificazione. Le proposizioni molecolari o complesse sono funzioni di verità  delle proposizioni elementari (atomiche), cioò sono costruite a partire da queste tramite operazioni logiche. Queste operazioni sono realizzate con le costanti logiche, le quali connettono le proposizioni elementari in funzione dei loro valori di verità , dando luogo a proposizioni complesse, la cui verità  dipende dal valore delle proposizioni componenti. Così, ad esempio, anzichò la congiunzione tra due proposizioni elementari ‘ P e Q ‘ si può scrivere la tavola dei suoi valori di verità , costruita in base ai valori di verità  delle proposizioni componenti. Da essa risulta che la congiunzione, cioò la proposizione complessa, è vera solo se sono vere ambo le proposizioni elementari. E la stessa cosa la si può fare per l’implicazione ‘ se P, allora Q ‘ o per la disgiunzione ‘ P o Q ‘, che è falsa solo se ambo le proposizioni elementari sono false, come si può evincere dai seguenti esempi, dove V sta per ‘vero’ e F per ‘falso’. Le costanti logiche non raffigurano stati di fatto, sono prive di contenuto oggettivo. Così la costante ‘non’ non si riferisce ad un oggetto, ma è solamente uno strumento che fa parte dell’armamentario di simboli con cui raffiguriamo il modello e indica solo che è stata eseguita l’operazione logica del negare. Le connessioni tra proposizioni, ottenute con le costanti logiche, sono trasformazioni simboliche e quindi non rinviano necessariamente a connessioni oggettive tra fatti. Le proposizioni complesse descrivono stati di cose possibili e hanno un carattere fattuale o sintetico, se, sottoposte ad analisi, risultano scomponibili in proposizioni elementari, le quali raffigurano o no fatti e la cui verità  o falsità  può essere decisa tramite un confronto di esse con i fatti. Accanto a queste proposizioni esistono però altre classi di proposizioni, che sono sempre vere, e altre, che sono sempre false, indipendentemente dal valore di verità  delle proposizioni elementari che le compongono. In questi casi, l’analisi di esse porta rispettivamente o a tutti i fatti o a nessun fatto. Le prime sono da Wittgenstein definite tautologie e le seconde contraddizioni. Una tautologia è vera per qualsiasi combinazione dei valori di verità  dei suoi costituenti. Se esaminiamo la proposizione ‘piove’, essa esprime solo la possibilità  di un fatto e diventa vera, se piove, o falsa, se non piove. Partendo da essa costruiamo, mediante le costanti logiche ‘non’ e ‘o’, la disgiunzione ‘piove o non piove’ (ossia ‘P o non P’). Questa, stando a Wittgenstein, è una tautologia, che esaurisce tutte le possibilità  ed è sempre vera, indipendentemente dalle specifiche situazioni di fatto. Procediamo infatti a costruire la tavola dei suoi valori di verità : in primis, dovremo escludere, in base al principio del terzo escluso, i casi in cui P e non-P sono entrambe vere o entrambe false, perchò, essendo l’una la negazione dell’altra, o l’una o l’altra (e non tutte e due!) deve essere vera. Restano i due casi in cui o è vera P e falsa non-P o è falsa P e vera non-P, ma, come si può facilmente evincere dalla tavola di verità  della disgiunzione prima utilizzata, in ambo questi casi la disgiunzione risulta vera. Quindi, una tautologia è sempre vera. Allo stesso modo si può mostrare che una contraddizione è sempre falsa, per qualsiasi combinazione dei valori di verità  delle sue componenti. Costruiamo a partire dalla proposizione elementare ‘piove’, mediante le costanti logiche ‘non’ ed ‘e’, la congiunzione ‘piove e non piove’ (cioò ‘P e non-P’). Anche qui, per la stessa ragione, vengono esclusi i casi in cui P e non-P sono entrambe vere o entrambe false. Restano gli altri due casi, cioò che una delle due sia vera e l’altra falsa, ma dalla tavola dei valori di verità  della congiunzione si nota che in ambo i casi la congiunzione risulta falsa. Per determinare la verità  e la falsità , rispettivamente, della tautologia e della contraddizione, non bisogna, dunque, confrontarle con il mondo: esse sono ‘senza senso’, dato che raffigurano non il mondo, ma le proprietà  del linguaggio. Questo però non vuol dire che esse siano inutili: esse infatti rientrano nel simbolismo e mettono in mostra la struttura generale della possibilità  e dell’impossibilità  logica. Tutte le proposizione della logica, ad avviso di Wittgenstein, sono tautologie. E tali sono anche le proposizioni della matematica, la cui forma logica è data dalla sostituibilità . Anche le proposizioni matematiche (le equazioni) sono dunque senza senso, perchò anch’esse non raffigurano il mondo, ma non sono insensate, dato che la sostituibilità  di certe espressioni con altre dice qualcosa sulla struttura logica del mondo. Questo non implica che la matematica debba ricevere il suo fondamento dalla logica, come pensavano Frege e Russell, dato che l’ aritmetica non è una teoria, ma un insieme di operazioni e il calcolo sa badare a se stesso. In conclusione, per Wittgenstein le proposizioni autentiche o hanno un carattere fattuale e descrivono stati di cose, oppure, come le tautologie, mostrano l’impalcatura logica del mondo. In particolare, le teorie scientifiche sono considerate da Wittgenstein, che a proposito riprende una concezione elaborata dal fisico H. Hertz, come reti proiettate sui fatti, le quali descrivono il mondo come una carta geografica raffigura un territorio, cioò attraverso coordinate scelte secondo la rappresentazione che si vuole ottenere. Il mondo dei fatti, di cui si occupa la fisica, è caratterizzato per Wittgenstein da un’assoluta contingenza, cosicchò, come già  diceva lo scozzese Hume, non è mai possibile essere certi che l’indomani sorgerà  il sole. La necessità  e l’impossibilità , che si esprimono nelle tautologie e nelle contraddizioni, esistono solo nello spazio della logica, non nel mondo dei fatti. Fuori dalla logica, per Wittgenstein, tutto è caso, cosicchò la fede nel nesso causale tra fatti ‘ è solo superstizione ‘. All’ambito di quel che propriamente può essere detto, cioò all’ambito delle proposizioni fattuali proprie delle scienze empiriche o a quello delle tautologie, di pertinenza della logica e della matematica, non appartengono tutte le combinazioni di segni che hanno solo apparenza di proposizioni. Tali sono gli enunciati della filosofia, cioò della metafisica, dell’etica e dell’estetica, che nascono dal tentativo di varcare i limiti del linguaggio, cioò del mondo. Le proposizioni del linguaggio mettono in mostra, rivelano la forma generale dei fatti, ma nessuna proposizione può raffigurare ciò che essa ha in comune con il mondo, cioò che cosa fa di essa una descrizione accurata del mondo. Per poterlo fare bisognerebbe poter comparare dall’esterno il mondo e la raffigurazione di esso, che si ha nel linguaggio, ma questo è impossibile, perchò equivarrebbe ad uscire dal mondo e dal linguaggio, immaginando di poter dire quel che è oltre il mondo e il linguaggio, cioò quel che appunto non si può dire. Il sentire il mondo come un tutto che ha limiti è quel che Wittgenstein definisce il mistico: esso coinvolge il problema del senso della vita e tutto l’ambito dei valori, inesprimibili in proposizioni che raffigurino fatti o possibilità  di fatti. Sotto questo profilo la filosofia abbandona la pretesa di costruire teorie generali della realtà  e di poter dire qualcosa sul mondo e indossa la veste di un’attività  di chiarificazione di quel che si può dire o non dire. Nello svolgere questa attività , anch’essa crea proposizioni prive di senso, che però servono, come una scala che serve a salire, ma poi viene abbandonata una volta che si sia arrivati a delimitare l’ambito del dicibile e dell’indicibile. Giochi linguistici e forme di vita Dopo la composizione del Tractatus, Wittgenstein, certo di aver risolto nell’essenziale tutti i problemi, abbandonò la filosofia, ma nel maggio 1928 udì a Vienna una conferenza di Brouwer sui fondamenti dell’aritmetica, in cui di dimostrava che la matematica non è un corpo di leggi eterne, ma un complesso di operazioni, fondate sull’intuizione originaria della serie numerica. In Wittgenstein tornò a ridestarsi l’interesse assopitosi per la filosofia della matematica; egli andò convincendosi che l’intrusione della logica nella matematica, perseguita da Frege e Russell, aveva effetti perniciosi, perchò creava l’illusione di un linguaggio ideale perfetto. La sua esperienza di maestro gli dava la conferma che il modo in cui si fa matematica nelle scuole elementari è rigoroso ed esatto e non ha per niente bisogno di correzioni tramite gli strumenti della logica. Il calcolo si giustifica da sò come un gioco che si giustifica in base alle proprie regole; ma che cosa vuol dire seguire una regola? Le tracce della riflessione di Wittgenstein su questi argomenti sono documentate già  a partire dal 1933, negli appunti raccolti nei Quaderni blu e marrone e poi nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, tra il 1937 e il 1944. La matematica è un insieme molteplice di tecniche, che esibiscono la struttura che è propria di un gioco. Un calcolo infatti è un complesso di operazioni compiute in conformità  a certe regole, le quali, come le regole di un gioco, prescrivono o proibiscono determinate mosse. A differenza di altri giochi, però, come per esempio gli scacchi, la matematica può entrare a far parte anche di altri giochi: essa serve anche a contare, a misurare, a fare inferenze e così via. Se cambiassero o scomparissero le regole degli scacchi, la nostra vita quotidiana non ne sarebbe gravemente modificata; ma se cambiassero le regole della matematica, sarebbe ancora possibile la maggior parte dei giochi della vita quotidiana e, in generale, comunicare? Si tratta allora di indagare su che cosa voglia dire in matematica seguire una regola per compiere inferenze e dimostrazioni, chiedendosi anche che cosa succederebbe se non si seguisse quella regola, per esempio se non si effettuassero le inferenze in quel determinato modo che di fatto è impiegato. La prova o dimostrazione matematica è una successione finita di passi, che possono essere seguiti e, nella loro configurazione grafica, abbracciati con lo sguardo. Ma essa è anche riproducibile e, per questo aspetto, può essere considerata un modello, che costituisce la regola di un procedimento. In quanto modello, la regola non ha bisogno di essere giustificata, proprio come avviene nelle regole della grammatica: la regola (ad esempio, che l’articolo debba precedere il sostantivo) è applicata concretamente e nel suo uso consiste la sua stessa giustificazione. In questo senso, regole e modelli sono convenzioni e non devono essere intese come leggi logiche, inscritte in un mondo esterno ed immutabile, come pretendevano Frege e Russell e come Wittgenstein stesso aveva creduto nel Tractatus. Se si pone il quesito ‘ Perchò a certe proposizioni o a certi numeri ne seguono determinati altri? ‘, si è portati a rispondere che ciò è dipendente dal fatto che tra numeri o proposizioni esistono relazioni in sò, dotate di intrinseca necessità . Ma questo quesito, per Wittgenstein, è mal formulato; il quesito formulato bene è ‘Perchò a determinate proposizioni o numeri ne facciamo sempre seguire certi altri? ‘. In quest’ultimo caso allora la risposta diventa ‘Perchò ci hanno insegnato a inferire o a contare così e così facciamo nella vita di ogni giorno’. Queste riflessioni di Wittgenstein sulla matematica si accompagnano all’abbandono dell’idea che sia possibile e abbia un senso trovare la forma generale della proposizione, cioò un linguaggio ideale con un’unica struttura portante. Egli acquista sempre più consapevolezza dell’esistenza di una pluralità  di giochi linguistici, i quali non sono dati una volta per tutte, ma nascono e scompaiono. Nessuno di essi riveste una posizione di primato, nemanco un gioco linguistico fatto di proposizioni che descrivono direttamente i dati dell’esperienza sensibile, come pretendevano i neopositivisti. Riprendendo una tesi di Ernst Mach, Wittgenstein sostiene che il parlare è un’attività  naturale, come respirare o dissetarsi o camminare. In questo senso, i vari modi in cui si manifesta il parlare, dal raccontare al comandare, all’interrogare, al chiacchierare e via dicendo, fanno parte della storia naturale degli uomini e appartengono alle forme di vita, in cui essa si articola. I molteplici giochi linguistici sono tutti detti giochi non perchò abbiano un’unica essenza comune, ma perchò tra essi intercorre una ‘somiglianza di famiglia’, analoga a quella che intercorre tra i vari membri di una famiglia, che sono tra loro simili per certi aspetti e non per altri. Wittgenstein rifiuta ogni forma di essenzialismo o platonismo che postuli l’esistenza di entità  universali corrispondenti a quel che hanno in comune le entità  chiamate con uno stesso termine generale. I legami che intercorrono tra i vari giochi linguistici non rinviano dunque ad un’essenza unica del linguaggio: all’indagine della loro struttura sono dedicate soprattutto le Ricerche filosofiche. Le parole per Wittgenstein non possono essere considerate come entità  isolate che rimandano direttamente agli oggetti da esse designate. L’esistenza di un linguaggio, in cui ad ogni parola corrisponde uno ed un solo oggetto, cioò l’esistenza di un significato unico per ciascuna parola è per Wittgenstein un mito. Viene così a franare l’idea del Tractatus secondo cui sarebbe possibile analizzare completamente le proposizioni del linguaggio, scomponendole in proposizioni atomiche elementari in relazione immediata di corrispondenza con stati di cose. Apparentemente, sembrerebbe che il modo in cui si insegna a parlare ai bambini, mostrando loro oggetti e pronunciando il nome di essi, cioò formulando quelle che sono dette definizioni ostensive, si fondi su una corrispondenza immediata tra nomi e oggetti. In realtà  per Wittgenstein anche questo gioco linguistico può funzionare solo in un contesto in cui siano già  note le modalità  e gli scopi perseguiti nel formulare definizioni ostensive e siano accettate determinate consuetudini circa il modo di indicare e così via. In altre parole, per comprendere una parola bisogna carpire come è usata in un certo luogo, entro certi contesti e in determinate istituzioni, incorporate entro una più generale forma di vita, propria di comunità . La pluralità  dei giochi linguistici, che sono intrecci di parole e azioni, è dunque strettamente correlata ai fini a cui serve ciascuno di essi. Wittgenstein può così formulare la celeberrima tesi che il significato di una parola o di un’espressione è nell’ uso che si fa di essa. Gli uomini apprendono il linguaggio non tramite spiegazioni, ma addestrandosi al suo uso nella vita. Dato che, come ha messo in evidenza nel caso della matematica, non esistono regole eterne e definitive, sono gli usi impiegati da una comunità  entro una certa forma di vita a determinare in che cosa consista il seguire le regole proprie dei singoli giochi linguistici. In questo senso, ogni regola è costitutivamente pubblica e non ha senso alcuno dire che è possibile seguire una regola in via esclusivamente privata: infatti, asserisce Wittgenstein, credere di seguire una regola è diverso dal seguire una regola, che non è un’attività  meramente soggettiva, arbitraria e inaccessibile ad altre persone. Ogni linguaggio impiega nomi ed espressioni sempre in accordo a regole implicite o esplicite, riconosciute di fatto da una comunità , cosicchò non è concepibile l’idea di un linguaggio privato. Capire un’espressione linguistica è una questione di uso e di abitudine, non è un processo mentale privato. Anche per capire le espressioni che descriverebbero un presunto evento privato, per esempio ‘provo dolore’, bisogna prendere in considerazione il gioco linguistico entro il quale sono pronunciate queste espressioni. Non si deve presupporre che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo e con l’unico scopo di trasmettere pensieri o descrivere stati interni: così l’espressione ‘provo dolore’ non è la descrizione di uno stato che solo io posso conoscere, ma può equivalere ad un grido o essere una maniera per richiamare l’attenzione degli altri sulla propria persona. Di fatto, dice Wittgenstein, la parola ‘dolore’ è stata appresa col linguaggio e dunque appartiene ad un gioco linguistico, che non ha carattere privato. Crollato il mito dell’unità  del linguaggio e del privilegiamento delle proposizioni suscettibili di essere vere o false, la filosofia non può più avere la funzione di correggere le ambiguità  del linguaggio comune, riportandolo ad u ordine superiore di concetti. Compito della filosofia è allora la descrizione degli usi effettivi del linguaggio nella vita di ogni giorno, non la modificazione di essi, per esempio tramite la costruzione di linguaggi ideali puramente formali: ogni proposizione del nostro linguaggio è in ordine così come è. I giochi linguistici però non sono solo oggetto di analisi, ma possono anche essere mezzi di analisi: infatti si possono immaginare situazioni linguistiche artificiali e per questa via mettere in evidenza aspetti inavvertiti del linguaggio o biasimare determinate teorie linguistiche. In questo senso, Wittgenstein ritiene che l’attività  filosofica possa assolvere ad una funzione di terapia linguistica, ma esercitata nei confronti del linguaggio della stessa tradizione filosofica, non del linguaggio ordinario, che non soffre di malattie. E’ nella metafisica che il linguaggio è malato e gira a vuoto: i problemi filosofici sono illusioni che nascono fraintendimenti compiuti nei confronti degli usi linguistici comuni. Essi sono paragonati dal pensatore austriaco a crampi linguistici o a bernoccoli che ci si procura battendo contro i limiti del linguaggio. In questa situazione, la filosofia può provare ad insegnare alla mosca ad uscire dalla bottiglia, cioò dalla trappola in cui il linguaggio è finito nei suoi usi metafisici, e questo può avvenire tramite una terapia che riporti le parole ‘sgrammaticate’ della metafisica agli usi linguistici terra a terra della vita di ogni giorno; ridotti alla loro forma grammaticale, i problemi filosofici tradizionali si rivelano per quello che sono, sfilze di parole scevre di senso, ‘edifici di cartapesta’, che è bene distruggere, perchò così facendo i problemi filosofici scompaiono: e d’altronde Wittgenstein diceva che ‘ la vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio ‘.

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