Riassunto - Studentville

Riassunto

Riassunto sui filosofi.

Marx ed Engels sono passati alla storia come coppia indisgiungibile, come rivoluzionari di professione inseparabili; eppure ebbero una formazione molto differente, quasi antitetica. Infatti, Engels, nato a Barmen nel 1820, era figlio di un industriale bigotto e reazionario della classe capitalista ed ò proprio in virtù di questa sua collocazione sociale che ha modo di venire a contatto con la classe operaia. Infatti, inviato dal padre in Inghilterra per affari, può osservare con particolare attenzione la condizione del proletariato inglese e trarne spunto per riflessioni che segneranno decisivamente la sua filosofia; in quest’occasione Engels scrive Le condizioni della classe operaia in Inghilterra (1845), una sorta di diario di bordo in cui raccoglie dati e annotazioni di rilievo. Al contrario, Marx, nato a Treviri nel 1818, ha una formazione più classicamente filosofica e muove i suoi primi passi nel contesto della Sinistra hegeliana, pubblicando articoli sulle varie testate politiche. I due futuri filosofi e compagni si incontrano a Parigi e stringono un’amicizia imperitura, a tal punto che anche quando Marx si troverà  in difficilissime condizioni economiche (tanto da dover impegnare i propri vestiti), Engels lo aiuterà  mantenendolo. Frutto della loro collaborazione ò, ad esempio, il celebre Manifesto del partito comunista, redatto alla vigilia del rivoluzionario 1848 su richiesta di una piccola organizzazione operaia che aveva loro richiesto la stesura di un programma politico; e proprio per far sì che sia comprensibile a tutti gli operai, Marx ed Engels danno al Manifesto un taglio semplice e leggero. I due compagni negli anni Sessanta e Settanta vivono l’indimenticabile esperienza della Prima internazionale: tra gli organizzatori vi ò Marx stesso, che polemizza aspramente sia contro la Sinistra borghese (di cui critica il rifiuto della lotta di classe) sia contro l’anarchismo alla Bakunin (a cui rimprovera il fatto di voler passare troppo bruscamente dallo Stato all’anarchia). Marx termina la propria esistenza nel 1883, ed Engels gli sopravvive fino al 1895, portando avanti l’attività  filosofica e politica: già  nel 1875 era nata la Socialdemocrazia Tedesca (SPD) dalla fusione di due partiti, uno di ispirazione marxiana, l’altro di ascendenza lassalliana. Dalla fusione, però, avvenuta con il congresso di Gotha, affiorarono problematiche apparentemente irrisolvibili: infatti, se Marx prospettava l’abbattimento del regime capitalistico attraverso la rivoluzione, Lasalle, dal canto suo, vedeva nel socialismo uno strumento riformista, in grado di ottenere pacificamente dei riconoscimenti a favore degli operai senza imboccare la via rivoluzionaria, ed ò per questo che Lasalle tentò anche il dialogo con Bismarck, l’antidemocratico cancelliere tedesco. Ora, una volta nata la Socialdemocrazia sorgeva anche il problema riguardante quale prassi adottare (quella marxista della rivoluzione o quella lasalliana della riforma? ), problema che resterà  irrisolto per parecchio tempo fino alla scissione tra socialisti, favorevoli al riformismo, e comunisti, sostenitori della rivoluzione. Certo ò che Marx non rimase soddisfatto del congresso di Gotha, poichò aveva già  fiutato il rischio di una svolta riformistica che poteva far passare in secondo piano la rivoluzione e pertanto compose la Critica al Programma di Gotha (1875). Come accennavamo, Engels sopravvive a Marx e diventa una sorta di padre spirituale della SPD e della Seconda internazionale e le modifiche che egli apporta al marxismo prefigurano quella svolta riformista e democratica della SPD che esploderà  in tutta la sua violenza nel celebre “dibattito sul riformismo”, con cui i comunisti rivoluzionari si distaccheranno dal partito. Tornando alla vita dei due filosofi, Marx, dopo aver frequentato il Liceo-ginnasio della sua città  natale (Treviri), si era iscritto all’università  laureandosi con la tesi Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro (1839-41): quest’opera mette in luce come Marx, ancora giovanissimo, nutrisse già  particolare interesse per il materialismo (rappresentato dalle filosofie di Democrito e Epicuro), interesse che non abbandonerà  mai e che anzi lo porterà  a dar vita ad una filosofia passata alla storia sotto il nome di “materialismo storico”; curioso ò il fatto che Marx per primo soffermi insistentemente la propria attenzione sulla teoria epicurea del clinamen, ovvero della deviazione che gli atomi subiscono nella loro caduta e che permette ad Epicuro di lasciare un margine di libertà  all’agire umano. Al giovane Marx interessa ogni forma di materialismo, da quello greco di Democrito ed Epicuro a quello tedesco allora in auge di Feuerbach; nello stesso tempo, però, com’egli stesso afferma, non riesce a passare indenne dalle ammalianti sirene dell’hegelismo. E la sfera materialistica convive in Marx con quella idealistica, tant’ò che egli si propone come sintesi delle due tradizioni: dalla concezione materialistica desume la convinzione che l’elemento di base della realtà  sia la materia, da quella idealistica, invece, mutua il procedimento dialettico elaborato da Hegel. Marx nota infatti, con straordinaria acutezza, come il limite di ogni materialismo sia sempre stata la scarsa attenzione rivolta alla storia, attenzione che invece ò centrale nella filosofia hegeliana: ed ò per questo che il pensatore di Treviri intende prendere il meglio dal materialismo e dall’hegelismo, scartando invece quegli aspetti ritenuti inadeguati. E mettendo insieme le due teorie, così diverse tra loro, nasce un ibrido esplosivo: un materialismo letto in chiave storica e dialettica, con il quale Marx dà  una giusta sistemazione alla dialettica hegeliana, facendola poggiare dove ò giusto che poggi. Hegel ha infatti avuto il merito di elaborare il celebre procedimento dialettico, ma la dialettica da lui intesa ò una dialettica capovolta, che poggia sulla testa, ovvero sulle idee: e Marx, mantenendola invariata ma basandola sulla materia, la fa poggiare sui piedi, ponendo fine al suo stare a testa in giù. Al di là  dell’influenza hegeliana sulla concezione filosofica, si può anche notare come le fonti a cui Marx si ò ispirato coinvolgono anche sfere extra-filosofiche: Lenin, fervente marxista oltre che eroe della Rivoluzione russa, ha infatti notato che il marxismo si articola in tre ambiti (filosofia, politica ed economia) e per l’elaborazione di ciascuno di essi Marx ha tratto ispirazione da pensatori diversi. Per quel che riguarda la sfera filosofica, egli si ò apertamente ispirato alla filosofia classica tedesca, quella cioò che da Kant giunge fino alla Sinistra hegeliana; per quel che invece concerne l’economia, ha preso spunto dall’ “economia classica inglese”, la quale trova il suo eroe in Adam Smith, acceso sostenitore del liberismo più sfrenato; oltre a Smith, Marx guarda anche a Davide Ricardo, che nei primi anni dell’Ottocento aveva sfatato il mito smithiano del capitalismo senza regole, facendo notare che gli interessi dei vari gruppi sociali sono inevitabilmente contrastanti tra loro e che, pertanto, non esiste quella mano invisibile ipotizzata da Smith che dovrebbe, dietro agli interessi personali perseguiti da ciascuno, aiutare in ultima istanza tutti. Per quel che riguarda la sfera politica, infine, Marx si ispira al socialismo francese, da lui bollato sarcasticamente come “utopistico” poichò si limita a tratteggiare società  ideali sulla scia di quanto aveva fatto Platone. In questa lucida analisi condotta da Lenin si tende a mettere in evidenza la completezza del discorso marxista, nel senso che esso coinvolge tre diverse sfere fondamentali (filosofia, economia, politica) e attinge da tre diverse nazioni centrali nella cultura europea (la Germania per la filosofia, l’Inghilterra per l’economia, la Francia per la politica): infatti, la Francia aveva realizzato la sua rivoluzione politica, elaborando il socialismo e gettando le basi per ogni futura rivoluzione; l’Inghilterra si era avventurata, sul piano economico, nella rivoluzione industriale e, infine, la Germania aveva attuato con Kant una vera e propria rivoluzione filosofica. Queste tre rivoluzioni, così lontane tra loro, trovano in Marx la loro sintesi, spiega Lenin come corollario dell’intera sua riflessione. E può essere curioso rintracciare il primo tentativo di Marx di applicare la filosofia hegeliana all’economia e, in ultima istanza, alla politica: Marx ci prova per la prima volta nel 1844, in quel cospicuo gruppo di scritti pubblicati postumi con il titolo di Manoscritti economico-filosofici del 1844, detti appunto “economico-filosofici” per via del tentativo di applicare le categorie della filosofia hegeliana all’economia. Marx ò stato uno scrittore molto prolifico, che si ò scatenato nella stesura di tantissimi libri, di cui meritano di essere menzionati le Tesi su Feuerbach (pubblicate nel 1888 da Engels), con cui Marx lancia il suo programma di materialismo storico, concependo la filosofia come un qualcosa volto a cambiare la realtà ; in Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico (1844) tuona contro la religione, in Critica dell’economia politica classica e in Per la critica dell’economia politica (1859) critica le concezioni di Smith e di Ricardo; in La guerra civile in Francia disserta dell’esperienza della Comune di Parigi, primo governo socialista: la frase conclusiva dell’opera ò esemplare: ” Parigi operaia, con la sua Comune, sarà  celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società . I suoi martiri sterminatori, la storia li ha già  inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti. ” In Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte analizza il colpo di stato del 2 dicembre 1851, vedendolo come una banale ripetizione del 18 Brumaio di Napoleone I e precisando ironicamente che ” Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. ” Un posto a parte in questa rapida carrellata di opere marxiane merita Il Capitale (1867), la grande opera di economia di Marx, un’opera che curiosamente verte non sulla società  comunista, ma sul capitale, l’acerrimo nemico del marxismo. E del resto lo stesso Manifesto ò in gran parte un’opera volta all’analisi del sistema capitalistico e non della futura società  comunistica. Tutto ciò dimostra come Marx non voglia fare il profeta e sbizzarrirsi in fantasmagoriche previsioni del futuro, delineando società  perfette, sulle orme dei socialisti utopisti. In questo egli resta fedele ad Hegel: la ragione può riflettere su se stessa solo in quelle realtà  in cui ò presente e tali realtà  sono il passato e il presente. Ecco perchò Marx analizza la situazione passata e, soprattutto, presente per coglierne le contraddizioni di fondo e per far vedere dall’analisi di esse come il sistema in atto debba essere dialetticamente superato. In termini hegeliani, il futuro altro non ò se non negazione del presente: l’attuale sistema capitalistico ò destinato a “saltare” e a capovolgersi dialetticamente nel suo contrario, ovvero nel socialismo, in cui scompariranno le lotte di classe, lo stato e la proprietà  privata. Marx non ci dice dunque che cosa sarà  il socialismo, proprio perchò la ragione non può indagare su ciò che non si ò ancora attuato; ma può dirci cosa non sarà , e visto che sarà  la negazione dialettica del capitalismo, avrà  tutte le caratteristiche ad esso opposte. In un certo senso, Marx si discosta da Hegel e apre qualche spiraglio verso il futuro, potendo dire ciò che in definitiva esso non sarà , ma non per questo egli arriva ai livelli dei socialisti utopisti, che con le loro aberrazioni mentali illustravano minuziosamente la società  futura in tutti i suoi particolari (Fourier arrivando perfino a dire quanti individui ci sarebbero stati nelle costruzioni abitative). L’atteggiamento assunto da Marx ò critico in ogni istante, prende e supera le tradizioni precedenti con il modello dialettico: e così, sul piano politico, accetta la critica al capitalismo ma ne critica il carattere utopistico che finora l’ha contraddistinta, precisando che dal socialismo utopistico si deve passare al socialismo scientifico, ovvero il socialismo va inteso non come delineamento mentale di una società  ideale, bensì come necessaria conseguenza del tramonto imminente del capitalismo. Studiando in modo approfondito il capitalismo, infatti, ò impossibile non vedere come esso si ribalterà , prima o poi, nel suo opposto: ò un’analisi scientifica, una constatazione che si basa su dati di fatto e che porta a prevedere ciò che necessariamente sarà . La stessa considerazione di natura scientifica vale sul versante filosofico: l’hegelismo e il materialismo vengono dialetticamente superati dal materialismo storico; qualcosa di molto simile si può, infine, affermare anche per quel che riguarda l’economia: Marx riconosce che l’analisi dell’economia condotta da Smith e Ricardo ò corretta, ma non accetta l’idea, da loro propugnata, che le leggi del capitalismo siano le leggi dell’economia in generale. Se lasciamo andare naturalmente l’economia, senza manipolarla, essa non potrà  che comportarsi secondo le leggi dell’economia capitalistica, dicono Smith e Ricardo; Marx non ò d’accordo e dà  un’interpretazione più dinamica: quelle individuate giustamente da Smith e Ricardo sono sì le leggi del capitalismo, ma sono leggi storicamente determinate, ovvero in altre epoche le leggi dell’economia sono state e saranno altre, nettamente distinte da quelle del capitalismo. Il che vuol dire, in altri termini, che le stesse leggi che fanno funzionare il capitalismo lo porteranno anche al tramonto e al superamento: e Marx (ma soprattutto Lenin) ha in mente la concorrenza, su cui fa leva il capitalismo; se si lascia libera concorrenza, il capitalismo procede nel migliore dei modi, poichò si tende a vendere al prezzo più basso, ma presto nasce la concorrenza sfrenata che fa sì che si creino l’oligopolio e il monopolio e, in ultima istanza, l’eliminazione della concorrenza, causata paradossalmente dalla stessa concorrenza. Dunque, se per Smith e Ricardo le leggi dell’economia sono leggi eterne alla stregua delle leggi fisiche, per Marx, invece, cambiano, anzi sono esse stesse che si cambiano, con la conseguenza che il capitalismo porterà  se stesso alla fine con un capovolgimento dialettico. In questo senso, Marx può presentare la sua teoria come scientifica, in antitesi alle teorie borghesi, da lui qualificate come “ideologie” in quanto cercano di dimostrare che le cose vanno bene così come sono: il caso più eclatante di ideologia, ò senz’altro quello di Smith e della sua “mano invisibile”, con cui provava a dimostrare come le leggi del capitalismo, essendo leggi di natura, sono eterne e quindi giuste. Marx ritiene riprovevole questo atteggiamento, questa “falsa coscienza” con cui si tenta in tutti i modi di giustificare le posizioni dei ceti dominanti. Tuttavia, il dibattito storiografico e filosofico si ò domandato fino a che punto il marxismo sia una scienza. A negare radicalmente ogni validità  scientifica al marxismo ò stato il filosofo liberale novecentesco Karl Popper, che in La società  aperta e i suoi nemici presenta la società  liberale, pluralista e dinamica culturalmente, e i suoi nemici: oltre a Platone (per via della sua “società  ideale”) e ad Hegel (per via dello “stato etico”), Popper inserisce nelle sue “liste di proscrizione” anche Marx. Per Popper una teoria ò scientifica non quando ò verificabile, ovvero quando può appellarsi a dati di fatto che la avvalorino, poichò altrimenti anche la teoria secondo la quale Dio esiste potrebbe essere scientifica, in quanto provata da molteplici dati di fatto (le cose vanno bene perchò c’ò un Dio, le cose vanno male perchò Dio vuole mettermi alla prova, ecc). Viceversa, una teoria può dirsi scientifica, prosegue Popper, se ò falsicabile, ovvero se vi sono dati di fatto che possono smentirla: la teoria galileiana della caduta dei gravi ò scientifica perchò sarebbe potuta essere smentita dai dati di fatto; al contrario, “Dio esiste” ò una teoria priva di validità  scientifica, poichò non c’ò alcun dato di fatto che falsifichi la teoria: se anche tutto va storto, si può sempre dire che ò nei progetti di Dio e perciò l’esistenza di Dio non sarà  mai negabile. Allo stesso modo la teoria di Hegel non ò scientifica, poichò non c’ò dato empirico alcuno che possa smentirla; e lo stesso vale, secondo Popper, per il marxismo: esso non ò scientifico poichò non può essere smentito da dati di fatto, tant’ò che quando non si sono realizzate le previsioni di Marx secondo le quali la società  si sarebbe sempre più polarizzata, i marxisti son riusciti in qualche modo ad aggiustare le loro teorie, spiegando ad esempio che il divario tra padrone e servo ò comunque accresciuto o che le previsioni di Marx si sono avverate nei Paesi più poveri. Secondo molti altri pensatori di ispirazione marxista, invece, il marxismo ò una dottrina scientifica, a tal punto che nella storia vi sono stati pensatori che hanno letto Marx in chiave più filosofica e altri che ne hanno dato invece una lettura più scientifica. Secondo questi ultimi (Althusser e Geymonat in primis), Marx sarebbe partito da confuse concezioni hegeliane per poi approdare, con Il Capitale, ad una vera e propria scienza del capitalismo, quasi come se nel Marx giovane prevalesse la filosofia e nel Marx anziano la scienza. C’ò ovviamente anche stato chi ha letto Marx in termini più unitari, facendo notare come in realtà  Marx non abbandoni mai del tutto la filosofia, tant’ò che Il Capitale affonda le sue radici nel pensiero hegeliano, visto che Marx in esso fa vedere come siano le stesse leggi che governano il capitalismo a farlo tramontare. In molti hanno poi avanzato un’altra obiezione al marxismo: in Marx si sovrappongono, suo malgrado, due dimensioni eterogenee e apparentemente inconciliabili. Da un lato, egli diagnostica, con il piglio di uno scienziato, che il socialismo dovrà  necessariamente esserci a seguito del crollo del capitalismo; dall’altro lato, poi, egli si spoglia della veste scientifica e si lascia trasportare dalla passione politica e dall’afflato morale, farcendo i suoi scritti di affermazioni moraleggianti, inneggiando alla rivoluzione e proclamando ingiusta, e pertanto da superare, la società  capitalistica, ponendosi così in contrasto con la futura tesi di Weber secondo cui la scienza deve essere ” avalutativa “. La sfera scientifica (il capitalismo cade necessariamente) si sovrappone bruscamente a quella morale (il capitalismo ò ingiusto e va abbattuto), quasi come se in Marx vi fosse una certa confusione della parola “dovere” nella duplice accezione di dovere morale e dovere come necessità  fisica: ò come se Marx dicesse che il capitalismo crollerà  necessariamente ed ò giusto moralmente che crolli. Questa contraddizione che serpeggia nella filosofia marxiana affiora anche quando egli dice che il capitalismo deve necessariamente crollare e poi invita ad organizzare il proletariato perchò si adoperi per abbattere il capitalismo: se il capitalismo deve necessariamente cadere, perchò allora bisogna lavorare per farlo cadere? Una spiegazione a ciò ò possibile: dare agli operai la convinzione che il capitalismo crollerà  necessariamente equivale a dar loro la certezza di lottare per una giusta causa, di stare dalla parte della storia, infondendo loro fiducia. E’ come dire che ò giusto lottare per l’abbattimento del capitalismo perchò la storia stessa spinge in quella direzione; allo stesso modo, del resto, i Crociati combattevano gli “infedeli” con grande impeto poichò convinti di aver Dio dalla loro. Ritornando alla formazione di Marx, egli muove i suoi primi passi nel contesto della Sinistra hegeliana, costituita da quei sostenitori di Hegel che del suo pensiero privilegiavano il “tutto ciò che ò razionale ò reale”, convinti cioò che fosse opportuno realizzare anche in modo rivoluzionario ciò che si configurava come giusto e frutto di una certa razionalità . Ed ò per questo che il giovane Marx, durante la sua provvisoria adesione alla Sinistra hegeliana, vede nell’hegelismo uno sforzo per cambiare la realtà  verso un ampliamento dei diritti politici in senso democratico-borghese. Ma anche in questa fase giovanile affiorano delle novità  contrastanti con il pensiero hegeliano e destinate a portare Marx a prenderne le distanze: nell’analisi che egli conduce hegelianamente sul rapporto tra Stato e società  civile accentua radicalmente la contrapposizione tra i due “momenti”, mettendo in evidenza che lo Stato così come si configura nei regimi liberali ò caratterizzato dall’uguaglianza giuridica e, tutt’al più, politica. Ed ò sempre da quest’analisi che si possono evincere le differenze inconciliabili tra Marx e il socialismo in generale di stampo riformista: quest’ultimo, infatti, intendeva il socialismo come tappa ulteriore sulla strada che parte dal liberalismo e passa dalla democrazia, quasi come se con l’Inghilterra del Seicento si fosse giunti al liberalismo e all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e con la Francia rivoluzionaria si fosse aggiunta la democrazia, ovvero l’uguaglianza dei diritti politici; si trattava ora, per i socialisti riformisti, di passare alla tappa successiva, il socialismo, ovvero l’uguaglianza dei diritti socio-economici, nella convinzione che una differenziazione sul livello socio- economico mettesse in crisi anche l’uguaglianza giuridica (se uno ò più ricco può permettersi avvocati migliori) e quella politica (se uno ò più ricco può comprare i voti corrompendo i più poveri). Il socialismo così inteso altro non ò se non quella tappa che aggiunge all’uguaglianza giuridica (liberalismo) e politica (democrazia) quella socio-economica, con l’inevitabile conseguenza che liberalismo e democrazia non vanno abbattute ma integrate con il socialismo e anzi sono beni necessari poichò senza di essi non si potrebbe mai giungere al socialismo; tanto più che il socialismo, mirando agli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini, può vincere attraverso il sistema democratico, dove ha la meglio chi prende più voti. La posizione di Marx ò agli antipodi rispetto a quella appena illustrata: certo, anch’egli accetta l’idea di una democrazia socialista, pur restando sempre molto vago sul futuro del socialismo, ma comunque sui regimi liberal-democratici ha un’idea molto chiara, di netta ispirazione dialettica. Il processo evolutivo non ò lineare, non si passa cioò dal liberalismo alla democrazia e, infine, al socialismo; al contrario, si tratta di un vero e proprio processo, in cui vi ò una tesi, un’antitesi e una sintesi, sicchò il socialismo non può essere concepito come una tranquilla trasformazione del liberalismo e della democrazia, ma come drastico e violento capovolgimento di essi. Ne consegue che se per un socialista riformista malgrado ci sia la democrazia il socialismo, come tappa successiva, non c’ò ancora, per Marx invece il socialismo non c’ò proprio grazie al fatto che c’ò il regime liberal-democratico, condizione politica dell’esistenza del capitalismo: fin tanto che ci saranno la democrazia e il liberalismo non potrà  esserci il socialismo, dice Marx, il quale arriverà  solo in seguito all’abbattimento di entrambi; il regime liberal-democratico, infatti, ò la negazione stessa di ogni socialismo e anzi, in quanto condizione di esistenza del capitalismo, rappresenta una delle svariate forme in cui si ò manifestato nel corso della storia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La storia stessa, dice Marx nel Manifesto del partito comunista, ” ò stata finora la storia di lotte di classe “, anche se tale lotta si ò presentata sempre sotto forme diverse pur mantenendo la caratteristica di essere una rottura netta con il comunismo primitivo in cui tutto era di tutti. E quando Marx dice che la storia ò lotta di classe intende dire che vi ò sempre stata lotta tra chi detiene i mezzi di produzione (terre, fabbriche, ecc) e chi non li possiede; come dicevamo, nella storia tale lotta si ò nascosta dietro maschere diverse ma ciononostante ” oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta “. Se nelle società  precapitalistiche questa differenza economica, legata al fatto che qualcuno possiede i mezzi di produzione e qualcun altro no, ò stata mascherata da forme di dominio extra-economiche: ad esempio, nell’antichità  alla differenza economica di fondo si sovrapponeva, e anzi la offuscava, la differenza giuridica che faceva sì che per legge vi fossero padroni e schiavi, sicchò la differenza vera (ovvero il possesso dei mezzi di produzione) era nascosta; con il capitalismo moderno, invece, non vi sono più sovrapposizioni extra- economiche: con il liberalismo ò invalsa l’uguaglianza di fronte alla legge e pertanto il capitalista in tribunale vale quanto l’operaio; con la democrazia ò subentrata l’uguaglianza politica che fa sì che il voto del capitalista valga quanto quello dell’operaio. Ed ò in questo contesto che emerge in tutta la sua tragicità  e nella sua purezza la vera distinzione economica tra padrone e servo: tale distinzione, affiorata nella storia sotto diverse maschere che ne offuscavano la vera natura, può ora scaturire nella sua nudità , come meramente economica. Con la Rivoluzione francese ò stata sancita l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge e nelle decisioni politiche: ed essendo i cittadini tutti uguali, ora le differenze perdono la loro giustificazione giuridica e si presentano nella loro realtà  più profonda, ovvero come differenze economiche, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi, sprovvisto di essi, non può far altro che vendere la propria forza-lavoro a chi li possiede. Proprio per questo lo studio della società  capitalistica, come già  aveva notato Hegel, ò il metodo migliore per studiare anche tutte le altre società  precedenti: infatti ò in essa che si manifesta nella sua purezza quello scontro tra le classi sociali che nelle società  precedenti era offuscato da differenze di altro genere; infatti, in un regime liberal-democratico che garantisce l’uguaglianza giuridica e politica si ò, per dirla con Hegel, uguali nello Stato ma diversi nella società  civile: si ò cioò formalmente uguali (giuridicamente e politicamente), ma sostanzialmente diversi. Proprio per questo motivo il capitalista come citoyen ha gli stessi diritti dell’operaio, ma come bourgeois vale molto di più. E il regime liberal-democratico, in cui le differenze si estrinsecano nella loro purezza economica, ò la condizione d’esistenza dello sfruttamento, poichò non ò più, com’era nelle società  antiche, che un uomo, essendo giuridicamente schiavo, ò obbligato dalla legge a servire il padrone, ma al contrario si ò tutti liberi ed ò perciò la situazione in cui i rapporti di lavoro sono determinati da contratti: il capitalista ha i mezzi e l’operaio ha la forza-lavoro da vendere e si accordano in piena libertà  giuridica. Il che significa che l’uguaglianza di diritti ò per Marx la condizione formale per lo sviluppo dei meccanismi di sfruttamento tipici del capitalismo, vale a dire che se non ci fosse la libertà  della repubblica borghese non potrebbe nemmeno svilupparsi il libero contratto tra capitalista e operaio. E’ come se il capitalismo si desse la repubblica borghese come forma politica in cui potersi sviluppare, per cui lo sfruttamento capitalistico non esiste malgrado l’uguaglianza sociale e politica, ma anzi esiste in virtù di esse, che permettono che il capitalista possa sfruttare l’operaio liberamente. Ne consegue che la repubblica borghese, nella prospettiva marxiana, non ò un primo passo verso il socialismo, ma ò, al contrario, l’habitat naturale dello sfruttamento capitalistico e proprio per questo non si tratta di aggiungere all’uguaglianza giuridica e politica quella economica riformando la repubblica borghese in direzione dell’equità  sociale; viceversa, per Marx la repubblica borghese non va cambiata, va abbattuta. Ecco dunque che si delineano le differenze insormontabili tra la Sinistra hegeliana, pronta a far diventare reale ciò che ò razionale, e Marx, convinto che si debba mutare la realtà  per far sì che mutino anche le idee: la dialettica non deve poggiare sulle idee (come credeva invece Hegel), ma sui fatti materiali ed ò proprio in questo che consiste il capovolgimento marxiano della dialettica hegeliana; non si tratta cioò di mutare idee per cambiare la realtà  ma si tratta di mutare la realtà  per cambiare idee: ” Il comunismo, per noi, non ò uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà  debba conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti [… ] Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già  in atto, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi “. Le divergenze che andavano acuendosi tra il pensiero marxiano e quello della Sinistra storica vengono a galla anche in uno scritto del 1844 Sulla questione ebraica: in quegli anni in cui divampavano i moti rivoluzionari del dopo restaurazione, sorge il problema dell’emancipazione degli Ebrei, fino ad allora privi di diritti pari agli altri cittadini. Se la Sinistra hegeliana si era scatenata in scritti a favore dell’emancipazione ebraica, Marx, interessato direttamente in quanto ebreo, interviene in modo piuttosto originale, sostenendo che il vero problema da porsi ò la trasformazione radicale e rivoluzionaria della realtà  in modo tale che perda di significato ogni differenza basata sulla religione, tanto odiata da Feuerbach. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciavano con quelle politiche in quanto egli sottolineava il carattere pericolosamente conservatore della religione, poichò in essa l’uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un’entità  superiore, e uno schiavo incatenato nel “mondo delle idee” diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà  materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la liberazione politica dell’uomo dovrà  per Feuerbach passare per l’eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione l’uomo cesserà  di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta ò la concezione di Marx, ateo dichiarato, secondo la quale ” la religione ò l’oppio del popolo “: secondo Marx, infatti, l’uomo ricorre alla religione perchò materialmente insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga (“oppio”), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non ò la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece credeva Feuerbach), ma, al contrario, ò lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l’uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l’oppressione materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata l’oppressione, crollerà  anche la religione, poichò l’uomo non avrà  più bisogno di “drogarsi” per far fronte ad una situazione materiale invivibile. Con queste considerazioni sullo sfondo, Marx si distacca irreversibilmente dalla Sinistra hegeliana, la quale aveva dato una lettura progressista di Hegel ed era convinta che si potesse mirare al progresso attraverso una critica ideologica della religione e della società ; Marx, invece, ipotizza un vero e proprio capovolgimento dialettico, poichò ò convinto che con una semplice trasformazione dialettica di idee non si possa cambiare la realtà  (come invece credeva la Sinistra), ma al contrario ò cambiando dialetticamente la realtà , ovvero passando dalle ” armi della critica ” alla ” critica delle armi “, che cambiano anche le idee ed ò proprio questo il succo del materialismo marxiano: ” per sopprimere il pensiero della proprietà  privata ò del tutto sufficiente il comunismo pensato; per sopprimere la proprietà  privata effettiva, reale, occorre una effettiva, reale azione comunista. ” Ma, come abbiamo già  detto, ” le idee non cascano dal cielo ” (come dirà  Antonio Labriola): ” ci vuole forse una particolare perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola anche la loro coscienza? Che cos’altro dimostra la storia delle idee, se non il fatto che la produzione spirituale si trasforma insieme a quella materiale? (Manifesto del partito comunista). Come già  accennato, si tratta di un materialismo storico, ovvero di una sintesi tra il materialismo di Feuerbach e la storicità  di Hegel. Ciò implica che per Marx la realtà  fondamentale sia quella materiale, rispetto alla quale tutte le altre sono derivate: le idee esistono, ma sono derivate dalla materia. Di grande importanza nella formazione culturale di Marx sono anche i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (pubblicati postumi): come recita il titolo, si tratta di manoscritti precedenti al Manifesto rimasti inediti e la coppia di aggettivi economico- filosofico rende bene l’idea dell’argomento che in essi si tratta. Con questi scritti, infatti, Marx analizza alcune questioni economiche avvalendosi, in modo molto originale, delle categorie della dialettica hegeliana: centrale ò il concetto di alienazione, desunto da Hegel ma già  presente nella filosofia politica del Seicento. Ripercorrendo a grandi linee il significato di tale termine, si può notare come da un significato prettamente giuridico, in cui “alienazione” era il cedere qualcosa a qualcuno, sia passato ad un significato più ampio nel Seicento, quando per “alienazione” si ò inteso il cedere i propri diritti fondamentali al sovrano per poter così costituire la società  civile. Infine, con Hegel il termine si era colorato di nuovi significati fino ad allora sconosciuti: “alienazione” ò quella tappa in cui la coscienza si smarrisce nella materialità , quando cioò perde se stessa; ed Hegel ha soprattutto in mente il lavoro, con il quale lo spirito dell’uomo rimane catturato dalla materia e pertanto ne consegue che il lavoro ò di per sò alienante. In altri termini, “alienazione” per Hegel vuol dire cedere parte della propria essenza, quasi come se il lavoro facesse smarrire nella materia una parte della spiritualità  dell’uomo. Ecco perchò per Hegel il lavoro ò intrinsecamente alienante e significa porre spiritualità  nella materia; per Marx, invece, il lavoro non ò alienante intrinsecamente, anzi, in una prospettiva in cui a contare per davvero ò la materia, esso ò considerato come la massima realizzazione dell’uomo, una sorta di umanizzazione della natura in cui si supera la distinzione tra soggetto e oggetto coi fatti e non con le idee: trasformare la natura col lavoro vuol dire, infatti, ricondurla al soggetto, antropizzarla. L’uomo, secondo Hegel, ò per natura homo sapiens e dunque il lavoro ò alienante perchò gli provoca la perdita di spiritualità ; per Marx, invece, l’uomo ò homo faber e pertanto il lavoro si colora di positivo, ed ò anzi il miglior modo che l’uomo ha per realizzarsi. Ma il lavoro diventa alienante quando ò sfruttamento, quando cioò il suo frutto ò strappato al lavoratore tramite i rapporti di sfruttamento della produzione capitalistica, come se l’elemento di umanità  posto nella materia venisse brutalmente strappato via. Il lavoro ò oggettivazione dell’uomo rispetto alla natura sia per Hegel sia per Marx, ma per Hegel lo ò intrinsecamente (l’oggettivazione stessa ò alienazione) mentre per Marx lo ò nella misura in cui si configura come sfruttamento. Dunque per Marx il lavoro di per sò non ò alienato, ma lo ò in determinate condizioni, ovvero nel caso dello sfruttamento tipico delle società  divise in classi e, soprattutto, nella società  capitalistica. Ed ò con Marx che il significato del termine “alienazione” termina il suo percorso, dal momento che accanto al significato filosofico convive quello giuridico: il motivo per cui il lavoro ò alienato dipende dal fatto che il prodotto del lavoro degli operai viene espropriato, vale a dire che l’operaio produce ma il frutto del suo lavoro gli viene brutalmente strappato cosicchò egli ” non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito “. Dunque Marx si pone in antitesi con la tradizione ebraico-cristiana, secondo cui il lavoro ò una condanna inflitta da Dio agli uomini in seguito al peccato originale; al contrario, per il filosofo di Treviri esso ò la massima realizzazione dell’uomo, in quanto lavorare significa cambiare la natura, imporle il proprio suggello, estendere ad essa il proprio dominio, quasi come se lavorando, per dirla con Locke, la natura diventasse un’estensione del nostro corpo. Marx procede nella sua analisi mettendo in luce come l’alienazione investa molti altri aspetti dell’uomo: se in prima analisi l’uomo ò alienato rispetto al prodotto del suo lavoro, ò anche vero che egli si aliena anche dalla propria essenza. Infatti, in una realtà  non alienata l’uomo dovrebbe trovare la propria essenza più compiuta nel lavoro e solo a margine dovrebbe adempiere alle sue funzioni più propriamente animali (il bere, il cibarsi, il riprodursi, ecc); ma quando il lavoro ò alienato succede invece che l’operaio, non potendo più trovare soddisfazione nel lavoro, in quanto gli viene strappato via dal capitalista, allora ripiega esclusivamente sulle soddisfazioni extra-lavorative, ovvero su quelle più propriamente animali, sicchò nel proprio tempo libero si sfoga in piaceri meramente materiali (l’alcol e la prostituzione, ad esempio), trovando in essi gli unici momenti di libertà . E così, con un tipico capovolgimento hegeliano, Marx spiega come l’uomo diventi animale, in quanto perde completamente la propria essenza (che risiederebbe in quel lavoro, se non fosse alienato) e la ritrova solamente in quei piaceri ferini di cui abbiam detto: ecco dunque che l’operaio ” si sente libero ormai solo nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corporale, ecc. e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. ” Ed ò questo il contesto in cui matura l’astio fra gli uomini, ovvero quella che Marx definisce “lotta di classe”, in cui l’uomo vede i suoi simili come nemici. Il lavoro alienato, ricapitolando, ” aliena all’uomo la natura; aliena all’uomo se stesso ” e aliena all’uomo i suoi simili. Si può poi notare, come aveva fatto Adam Smith, che con la meccanizzazione del lavoro scaturita dalla rivoluzione industriale scompare anche l’elemento di creatività  insito nell’attività  degli operai, che si ritrovano così a dover compiere sempre e solo, come automi, le stesse operazioni. E’ bene ora entrare nel merito di uno dei capisaldi della dottrina marxiana, ovvero il materialismo storico, che abbiamo prima definito come materializzazione della dialettica hegeliana. Il presupposto di tale dottrina consiste nel fatto che la storia sia governata essenzialmente da fattori materiali e che questi fattori siano di carattere economico, cosicchò la storia ò basata sull’economia, mentre tutto il resto (rapporti politici, giuridici, arte, religione, ecc) costituisce elementi sovrastrutturali. La struttura della realtà , pertanto, ò la materialità  economico-sociale e tutto il resto ò una sovrastruttura ideologica: a tal proposito Marx può affermare, in opposizione alle idee di Hegel e della Sinistra, che ” non ò la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza “; non sono cioò le idee a cambiare la realtà , ma ò la realtà  stessa a cambiare le idee. In questa prospettiva occorre affrontare il problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura: alcuni interpreti del marxismo hanno letto, forzando un pò il pensiero marxiano, tale rapporto come meccanico, per cui la struttura dovrebbe determinare in modo meccanico e deterministico la sovrastruttura; ne consegue l’inevitabilità  di ciò che avviene e questo servì a molti marxisti (tra cui Engels) per dilazionare nel tempo il momento dello scoppio della rivoluzione, come a dire che il capitalismo dovrà  inevitabilmente cadere prima o poi perchò le condizioni economico-materiali portano inevitabilmente in quella direzione e pertanto non bisogna scendere in piazza a fare la rivoluzione. Questa interpretazione, che, propugnando un rigido meccanicismo, nega ogni forma di libertà  all’uomo, fu adottata soprattutto dalla II Internazionale, ma in realtà  ò molto sganciata dal pensiero di Marx: infatti, egli ò convinto che, accanto al rapporto fondamentale struttura- sovrastruttura, vi sia anche un effetto di rimbalzo per cui se ò vero che la vita determina le idee ò anche vero che le idee non sono stagnanti, ma, al contrario, possono trasformarsi in prassi ( ” la forza materiale deve essere abbattuta per mezzo della forza materiale, ma la teoria diventa, essa pure, una forza materiale, quando si impadronisce delle masse “, Tesi su Feuerbach). In altre parole, il fatto che il proletariato maturi una coscienza di classe ò sì dato dalle condizioni materiali in cui vive, ma ò poi necessario per far sì che esso scenda in piazza a fare la rivoluzione: ò necessario che il proletariato diventi in sò e per sò, ovvero oltre a costituire un movimento (in sò) deve anche avere coscienza di costituirlo (per sò). Il fatto di esserlo ò un elemento strutturale, ma il fatto di sapere di esserlo ò sovrastrutturale, ossia ideologico: se lo fosse senza sapere di esserlo (ovvero se ci fosse la struttura senza la sovrastruttura) non potrebbe mai fare la rivoluzione. Dunque, ò senz’altro vero e scientificamente provato, dice Marx, che il capitalismo crollerà , ma ò altrettanto vero che non ci si deve limitare ad attendere inerti quel momento, bensì bisogna maturare una coscienza di classe che porti il movimento proletario a decidere di abbattere il capitalismo. Come per Hegel, anche per Marx la storia ò un processo dialettico, ma si tratta di una dialettica materiale: nel suo complesso, la storia si articola in tre grandi tappe; 1) comunismo primitivo; 2)lotta di classe; 3) comunismo maturo. All’inizio della storia esisteva un comunismo primitivo (come già  ipotizzava l’antropologia contemporanea a Marx) dovuto al fatto che non vi era ancora la divisione del lavoro e la lotta di classe che da essa scaturisce. La negazione di questo comunismo primitivo ò data dalla nascita della divisione del lavoro, prima tra tutte quella paleolitica in cui al maschio spettava la caccia e alla donna la raccolta. La divisione del lavoro nasce perchò i bisogni umani tendono a non essere naturali: infatti, sebbene molti di essi si configurino come assolutamente biologici (bere e mangiare, ad esempio), tra uomo e natura si instaura un rapporto molto complesso, tant’ che, dice Marx, la natura che conosciamo ò solo formalmente allo stato puro; essa, infatti, ò sempre modificata dall’uomo e dalle sue realizzazioni. Ne consegue che l’uomo e la natura sono indissolubilmente congiunti fra loro e tendono a modificarsi reciprocamente: pertanto, sbaglia il materialismo di Feuerbach a trascurare la dimensione umana e sbaglia lo “spiritualismo” di Hegel a trascurare quella materiale; ecco perchò il materialismo storico di Marx si presenta come sintesi dei due, poichò egli ò convinto che l’uomo abbia sì una sua base materiale per cui egli ” ò ciò che mangia ” ma che allo stesso tempo anche il mondo sia il risultato delle realizzazioni e dei cambiamenti attuati dall’uomo stesso. In altri termini, l’uomo ò ciò che mangia, ma egli non si accontenta di mangiare esclusivamente ciò che gli offre la natura e così la modifica per mangiare ciò che egli stesso produce. Ecco perchò man mano che si procede nella storia, per via del crescere della cultura, i bisogni umani diventano sempre più complessi e per poterli soddisfare occorre un lavoro sempre più complesso, che può essere attuato solo attraverso la divisione del lavoro. Essa genera ricchezza e progresso ma nello stesso tempo provoca divisioni di classe e disuguaglianze, suddivide gli uomini in sfruttati e sfruttatori, il lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale. La divisione del lavoro ò, in prima analisi, dannosa, poichò fa nascere lo sfruttamento: ma, molto hegelianamente, ” il negativo ò sempre insieme anche positivo “; infatti, se ò un male perchò ha generato disuguaglianza, ò comunque un bene che ci sia stata perchò così può essere dialetticamente superata con la rivoluzione. Ecco dunque che la storia si prospetta come lotta di classe e il suo obiettivo ò il ritorno al comunismo, ma non al comunismo rozzo e primitivo in cui regnava la povertà , bensì al comunismo della ricchezza, sintesi del comunismo originario e della divisione in classi: si tratterà  infatti di un comunismo che manterrà  l’apparato produttivo delle fabbriche, ma non sfrutterà  nessuno. Quello appena tratteggiato ò lo schema generale, ma, entrando nel dettaglio, a far muovere la storia ò, come abbiamo ribadito, un procedimento dialettico di tipo economico-materiale e, in modo specifico, si tratta di ravvisare le contraddizioni che fanno scattare quel superamento che permette il passaggio da una tappa all’altra. A questo punto Marx introduce i concetti di forze produttive e rapporti di produzione: ogni società  ò caratterizzata da un insieme di capacità  umane (conoscenze, abilità , ecc) con le quali può sfruttare la natura e tali capacità  vanno appunto sotto il nome di forze produttive. Le forze produttive, aggiunge Marx, si sviluppano sempre nell’ambito di rapporti di produzione, ovvero in determinati rapporti sociali (nell’ambito dei quali rientrano anche le ideologie e, più in generale, le sovrastrutture): vi sono così state età  in cui le forze produttive si sono sviluppate nell’ambito dello schiavismo e del servilismo, fino a giungere all’era capitalistica. E i rapporti di produzione vengono determinati dalla forza di produzione caratteristica di quello specifico momento storico: nell’antichità  regnava lo schiavismo perchò in quel momento tale rapporto di produzione era il migliore che ci potesse essere per sfruttare in modo ottimale le forze produttive. Ogni forza produttiva, dunque, si dà  il suo rapporto di produzione, sicchò questi ultimi rispecchiano e sono sempre funzionali alle forze produttive. Tuttavia, può succedere che all’interno di questo schema generale lo sviluppo vada avanti con eccessiva rapidità  e ci si trovi in una condizione in cui i livelli di rapporti produttivi si trovano indietro rispetto alle nuove forze produttive emerse a tal punto da rivelarsi inadeguati: come se le forze produttive si trovassero ingabbiate in rapporti produttivi che impediscono loro di svilupparsi al meglio. Infatti, le forze produttive, proprio perchò hanno generarato esse stesse i rapporti produttivi per potersi sviluppare al meglio, funzionano fin troppo bene e progrediscono con gran rapidità  mentre i rapporti restano immutati e si rivelano pertanto inadatti per il giusto sviluppo delle nuove forze sviluppatesi. Un’immagine che può chiarire cosa intendesse Marx può essere quella, di forte sapore hegeliano, del guscio: ò quasi come se i rapporti produttivi fossero il guscio sociale dentro al quale si sviluppano le forze produttive; quando però si sono sviluppate, arriva il momento di spaccare il guscio e di prorompere all’esterno e per far ciò occorre la rivoluzione, intesa come capovolgimento dialettico in chiave materialistica. Quando i rapporti produttivi si rivelano ormai inadeguati alle nuove forze produttive, giunge il momento di far saltare tali rapporti con la rivoluzione: ed ò quel che ò accaduto in Francia, quando la borghesia, che si sentiva ingabbiata da rapporti sociali e ideologici che ne frenavano lo sviluppo, ò scesa in piazza a fare la rivoluzione. Di rivoluzioni nella storia ce ne sono state tante: più precisamente, ve ne sono state ogni qual volta si ò aperta la forbice forze produttive- rapporti produttivi; e ogni volta che vi ò stata una rivoluzione, la classe dominante che traeva maggior vantaggio dai rapporti di produzione presenti ò stata spodestata da una nuova classe dominante. Infatti, da quando la società  si ò frantumata in classi, la storia ò sempre stata storia di lotte di classe e ciascuna rivoluzione attuatasi non ha abolito tale frantumazione, ma ha semplicemente cambiato la classe dominante: così con la Rivoluzione francese ò stata spodestata l’aristocrazia ed ò salita al potere la borghesia, dando vita a nuove lotte di classi, in particolare a quella tipica del mondo moderno, tra borghesi e proletari. Marx fa notare che tutte le rivoluzioni della storia sono sempre state rivoluzioni di una minoranza in favore di una minoranza: la borghesia della Rivoluzione francese, ad esempio, era in netta minoranza e ha tutelato esclusivamente i propri interessi, tant’ò che anche il decreto apparentemente più socialista (i decreti di Ventoso), che prevedeva la spartizione delle terre, rientrava comunque in un’ottica pienamente borghese, che confermava la sacralità  della proprietà  privata. Le cose cambieranno del tutto nel momento in cui ci sarà  la rivoluzione comunista, terza tappa della storia: essa sarà  attuata dalla stragrande maggioranza degli uomini in favore della stragrande maggioranza degli uomini e anch’essa nascerà  in modo ineluttabile dalle contraddizioni della situazione precedente (ovvero il capitalismo). E Marx di contraddizioni nel capitalismo ne riscontra a bizzeffe e, per il momento, possiamo notare quella forse più lampante: il capitalismo più va avanti e più la forma del lavoro tende ad essere cooperativistica, produrre qualcosa cioò vuol sempre più dire lavorare insieme agli altri; tuttavia, se le forze produttive tendono sempre più ad essere cooperativistiche, i rapporti di produzione spingono in direzione opposta, dal momento che la ricchezza prodotta dal lavoro compiuto in cooperazione tende sempre più ad accentrarsi nelle mani di pochi. In altre parole, la contraddizione insormontabile del capitalismo ò che più tutti lavorano insieme e più il frutto del lavoro va in mano a pochi. Il capitalismo ò destinato a saltare inevitabilmente per via di questa contraddizione e di molte altre e non perchò ò un sistema iniquo, come invece credevano ingenuamente i socialisti utopisti: sono le contraddizioni stesse che lo erodono dall’interno che lo faranno, prima o poi, crollare, con la stessa inellutabilità  con cui un grave lasciato cade al suolo. La questione dei socialisti utopisti merita attenzione: Marx, nel Manifesto, si sofferma accuratamente a smontarne le tesi e suddivide il socialismo che non ò scientifico (come invece ò il suo) in conservatore, reazionario e utopistico. Classico esempio di socialismo reazionario ò quello di Lasalle, convinto che i proletari, nella loro battaglia contro i borghesi, debbano schierarsi al fianco di tutti coloro che avversano la borghesia, aristocratici compresi, tant’ò che Lasalle tentò un rapporto privilegiato con Bismarck; Marx ò però del parere che non si possa creare il progresso alleandosi con i reazionari. La storia, infatti, insegna che, con la Rivoluzione francese, borghesi e proletari, coalizzatisi, sono riusciti a cacciare il nemico comune, ovvero l’aristocrazia; con tale impresa, hanno aperto il campo allo scontro di classe moderno, tra borghesi e proletari, per cui allearsi con l’aristocrazia per vincere i borghesi vorrebbe dire tornare indietro nella storia, ai foschi anni del feudalesimo. Non a caso, nel Manifesto campeggia una vera e propria esaltazione della borghesia, di cui Marx tesse le lodi e che presenta come classe sociale rivoluzionaria che, con la Rivoluzione francese, ha saputo cambiare il mondo; ma ora essa va abbattuta perchò, preso il potere, ha perso le sue istanze rivoluzionarie e si ò impantanata nel conservatorismo più totale, cercando esclusivamente di mantenere la realtà  così com’ò. Altrettanto aspramente, Marx critica anche il socialismo conservatore di Proudhon, personaggio per il quale nutriva una cordiale antipatia personale e al quale indirizzerà  Miseria della filosofia (1847) in cui trapela un’ acredine personale per quest’uomo tale da lasciare sgomento il lettore e nella cui impietosa premessa bolla l’autore francese in quanto dilettante sia di filosofia sia di economia. L’idea centrale nella filosofia di Proudhon era quella di realizzare una società  basata sulla cooperazione tra i piccoli produttori, con la scomparsa sia dei capitalisti sia dei proletari; e, pur essendo la proprietà  privata per Proudhon un furto, essa starebbe alla base di tale cooperazione. Marx tuona contro questa prospettiva: una delle tante altre contraddizioni del capitalismo, infatti, ò la polarizzazione della società , causata dal meccanismo capitalistico della concorrenza. Essa fa sì che ciascuno cerchi di produrre sempre di più e a costi sempre più bassi per non soccombere alla concorrenza, con la conseguenza che scompaiono gli elementi deboli e la concorrenza tende a negare se stessa portando all’oligopolismo e, in ultima analisi, al monopolismo. Il paradosso, dunque, consiste nel fatto che ò la stessa logica del capitalismo a negarlo, in quanto un capitalismo senza concorrenza non ò un capitalismo; la conseguenza di ciò, sul piano sociale, ò che chi resta tagliato fuori dalla concorrenza finisce nei ranghi del proletariato, cosicchò i capitalisti sono sempre in meno, i proletari sono sempre in più e i borghesi sono pochissimi: la società  assume così la forma di una piramide al cui vertice vi sono pochi ricchi e alla cui base vi sono caterve di masse diseredate. E una teoria come quella di Proudhon, che mira ad una società  di piccoli produttori senza ricchi e poveri, ò una società  ideale sganciata dalla realtà  e dalla scientificità  (non c’ò nessun dato di fatto che spinga in quella direzione): non si tratta di attenuare le contraddizioni del capitalismo, ma, al contrario, di far leva su di esse per farlo saltare; la proposta di Proudhon, del resto, vorrebbe trasformare tutti in borghesi, mentre Marx ha in mente una situazione in cui la borghesia sparisce e, con essa, anche il proletariato, poichò la ricchezza della borghesia si fonda sullo sfruttamento del proletariato. La società  comunista si caratterizzerà , pertanto, per l’essere priva di classi, anche se, appena fatta la rivoluzione, per un certo periodo si dovrà  instaurare una dittatura del proletariato; quando essa sarà  terminata, si estinguerà  lo Stato, in quanto altro non ò se non lo strumento con cui una classe domina le altre. Ma in un contesto in cui non vi son più classi, lo Stato perde ogni significato e si sgretola, aprendo le porte all’anarchia (il grande errore dell’Unione Sovietica può essere letto nel fatto che non si ò mai riusciti a superare la fase di dittatura del proletariato e, con essa, lo Stato). La proposta di Proudhon, conclude Marx, va respinta perchò va in direzione opposta alla realtà  (che tende ad eliminare sempre più, con la concorrenza, i piccoli produttori) e perchò vorrebbe dire trasformare tutti in borghesi. Infine, l’ultima forma di socialismo che Marx analizza e critica ò quello francese “utopistico”, di Saint Simon e di Fourier, socialismo nei confronti del quale si rivela più generoso e benigno rispetto agli altri due: a questi pensatori spetta il merito di aver denunciato le contraddizioni e la brutalità  del sistema capitalistico, anche se, invece di costruire su queste considerazioni una dottrina scientifica, si sono messi a tavolino, come Platone, a delineare fantasmagoriche società  ideali, per di più appellandosi non agli operai perchò imbracciassero i fucili per far la rivoluzione, ma ai capitalisti, affinchò umanamente accettasero di attuare le società  giuste da loro tratteggiate. Ma Marx, pur criticandone questo aspetto, riconosce che i limiti degli “utopisti” sono giustificabili dal fatto che ai loro tempi il proletariato non aveva ancora acquisito coscienza di sò e dunque non ci si poteva rivolgere ad esso; ò solo ai tempi di Marx che ” lo spettro del comunismo ” si aggira per l’Europa e ha piena coscienza di sò. Con il senno di poi, si può essere indotti a pensare che l’analisi marxiana, secondo la quale la società  sarebbe andata sempre più polarizzandosi, non si sia avverata: infatti, dopo la morte di Marx, si ò affermata una sempre più variegata composizione sociale, tant’ò che la società  si ò dimostrata rappresentabile non già  a forma piramidale (come credeva Marx), ma a forma romboidale. Non ò vero, cioò, che ci sono pochissimi ricchi al vertice, pochi borghesi nel mezzo e una miriade di poveracci alla base; al contrario, vi sono pochi ricchi al vertice, pochi poveri al fondo, e una caterva di borghesi nel mezzo. La teoria marxiana sembra dunque aver clamorosamente fallito, ma in realtà , i marxisti più ferventi, sono riusciti a correre ai ripari, cercando di sostenere che la polarizzazione, contrariamente a quel che sembrerebbe, c’ò stata. Si fa infatti notare che gli operai di oggi vivono senz’altro meglio rispetto a quelli di duecento anni fa, ma ciononostante il reddito medio dell’operaio di oggi ò di gran lunga più distante da quello del capitalista rispetto a quanto non fosse per gli operai del passato. In altri termini, l’operaio oggi sta meglio di duecento anni fa, ma in sostanza il divario con il capitalista si ò accentuato. E bisogna poi tenere in considerazione il fatto che, nell’ottica marxiana, il capitalismo ò un fenomeno mondiale, che con l’età  dell’imperialismo si spinge ad invadere l’intero pianeta. Dunque, se ragioniamo sul piano mondiale, la distanza tra ricchi e poveri ò cresciuta, come aveva previsto Marx; semmai, si può notare che ò cambiato il fronte della lotta di classe, ovvero il confine tra sfruttati e sfruttatori non ò più tra operai e capitalisti dell’evoluta società  europea, ma fra abitanti dei Paesi ricchi (operai compresi) e abitanti dei Paesi poveri, il che significa che oggi anche l’operaio europeo sta dalla parte di coloro che sfruttano il terzo mondo, giacchò acquista e vive grazie al benessere acquisito sulle spalle dei Paesi poveri. Ne consegue un progressivo depotenziamento della spinta rivoluzionaria del proletariato europeo, in quanto anch’esso siede al tavolo degli sfruttatori del “mondo civile”, pur accontentandosi delle sole briciole. Dunque la carica rivoluzionaria in ambito europeo si ò attenuata nella misura in cui i proletari prendono parte alla spartizione dei beni del terzo mondo, sentendosi appagati e dimenticandosi della rivoluzione. Naturalmente questo tentativo di difendere il marxismo dall’accusa che, almeno in apparenza, la polarizzazione profetizzata da Marx non c’ò stata, spiegando che in realtà  c’ò stata ma in modo diverso dal previsto, poteva costituire per Popper un fulgido esempio di teoria non scientifica perchò non falsificabile. Infatti, la teoria della polarizzazione ò il classico esempio di teoria non falsificabile, poichò si può sempre trovare il modo di rispondere a qualsiasi obiezione le venga mossa. Marx sembra dunque, entro certi limiti, aver sbagliato, anche se egli sapeva benissimo che la società  tende sempre a generare nuovi ceti medi: tuttavia, era convinto che il processo ai suoi tempi in atto creasse sì nuovi ceti medi, ma ne smantellasse, in misura notevolmente maggiore, di vecchi, sicchò sarebbero stati più i ceti medi a sparire che non a nascere. E Marx aveva soprattutto in mente i contadini e gli operai, che, di fronte alla tecnologia pulsante delle fabbriche, erano costretti a soccombere e a finire nelle compagini del proletariato. E qui si può effettivamente sostenere che le convinzioni marxiane fossero sbagliate: il ceto medio ò cresciuto esponenzialmente; certo, i vecchi ceti medi sono, per lo più, spariti, ma quelli nuovi sono cresciuti in modo ragguardevole, contro ogni aspettativa marxiana. L’errore di Marx nasce dal fatto che egli, nella foga del suo materialismo storico, ha finito per dare troppo peso all’economia (che infatti spingeva verso la scomparsa dei piccoli borghesi) e non ha preventivato che la politica potesse frenare l’inarrestabile crisi dei ceti medi: e infatti nel Novecento, soprattutto negli anni successivi alla grande crisi del ’29, saranno sempre più frequenti le scelte politiche che tenderanno ad evitare il decadimento dei ceti medi; il fascismo e il nazismo, ad esempio, faranno di tutto per salvarli, proprio perchè ne erano espressione politica. La politica prevalente negli anni ’30 del Novecento sarà  dunque, in generale, volta a mantenere in vita i ceti medi perchè essi costituivano un irrinunciabile serbatoio di consensi. Detto questo, passiamo ad esaminare il metodo di indagine marxiano della realtà : ridotto all’osso, esso consiste nel partire dal concreto e, passando per l’astratto, tornare al concreto; vale a dire che le categorie interpretative da applicare alla realtà  devono essere desunte dalla realtà  stessa, rifiutando in tal modo l’elaborazione di categorie astratte entro le quali ingabbiare la realtà . Si parte dunque dal concreto della realtà , se ne desumono le categorie astratte di interpretazione e ci si reimmerge nella realtà  concreta per interpretarla tramite quelle categorie. Ed ò seguendo questa logica che Marx si addentra nello studio della realtà  economica, studio che trova la sua massima espressione in Il capitale. In tale opera, l’economia viene sapientemente coniugata con la dialettica hegeliana, tant’ò che Lenin potò affermare che ” non si può comprendere perfettamente il Capitale se non si ò compresa e studiata attentamente tutta la logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo nessun marxista ha compreso Marx “. Sullo sfondo delle riflessioni marxiane troviamo il pensiero degli economisti politici classici, in primis Simith. E Marx si avvale dei concetti elaborati dall’economia politica classica in modo originale, servendosi della dialettica hegeliana: gli economisti inglesi hanno magistralmente ravvisato le leggi di funzionamento del capitalismo, convinti che il capitalismo sia la forma naturale (e dunque giusta) di economia: come a dire che l’economia, lasciata a sò stessa, segue necessariamente le leggi capitalistiche; tale forma naturale di economia, dicevano gli economisti, ò stata tenuta a freno, nel corso della storia, da fenomeni giuridici e solo oggi, nella società  liberale, può emergere liberamente nella sua purezza. Ma Marx fa, hegelianamente, notare che tali leggi, oltre a far funzionare il capitalismo, fanno anche sì che esso venga superato dialetticamente, in quanto ne fanno emergere le contraddizioni insanabili (prima tra tutti quella della concorrenza). Perchè, allora, gli economisti inglesi non sono arrivati a capire ciò che Marx ha colto, ovvero che il capitalismo sarà  supera

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