Nietzsche e Freud sono accomunati dall’aver smantellato in profondità , seppur con differenti modalità , le certezze del mondo ottocentesco e della sua fiducia razionalistica, già peraltro fatte scricchiolare da Schopenhauer e da Kierkegaard. Il bersaglio a cui indirizzano le loro critiche ò costituito tanto dal panlogismo hegeliano quanto dal masterialismo marxiano e dallo scientismo positivistico, filosofie che hanno in comune una fiducia esasperata nel progresso. Ed è a partire da queste critiche che Freud e Nietzsche, così diversi tra loro, mettono in discussione i punti apparentemente più stabili della civiltà occidentale. I due pensatori, poi, sono tra loro accostabili perchò non possono essere considerati filosofi nel senso classico del termine: Freud ò prima di tutto un medico e Nietzsche nasce come filologo, tant’ò che esordisce come docente di filologia classica, anche se interpreta tale disciplina non come strumento per ricostruire fedelmente il passato, ma come una maniera per scavare nel significato più intimo della civiltà occidentale e per poter così metterne in evidenza gli aspetti più oscuri e stridenti; dietro la maschera di Nietzsche filologo ò evidente come si nasconda già il Nietzsche filosofo che interpreterà l’Occidente. Nel suo lavoro di filologo, spesso e volentieri egli non rispetta le norme di “serietà ” proprie della disciplina, ma si lascia trasportare dalla ricerca del significato profondo che ad essi soggiace e per coglierlo compie salti argomentativi che il più delle volte si rivelano spericolati. In altri termini, Nietzsche non vuole studiare l’antichità esclusivamente per conoscerla nella sua essenza più intima, ma, viceversa, intende piuttosto impossessarsi di conoscenze che gli permettano di farsi profeta di una traformazione della civiltà attuale: e proprio in questo risiede l’ “inattualità ” del pensiero nietzscheano (come recita il titolo delle celebri Considerazioni inattuali ), nel trovarsi fuori posto nel suo tempo, nell’essere o troppo indietro o troppo avanti rispetto ai tempi correnti. Egli infatti scava nel mondo greco per farsi profeta di quelle trasformazioni che investiranno, prima o poi, la società del suo tempo e facendo ciò si trova perennemente proiettato o nel passato o nel futuro. E Nietzsche ò in piena sintonia con l’idea marxiana di una filosofia di trasformazione, per cui interpretare il mondo, senza mutarlo, ò insufficiente e, nel proporre questo modo di pensare, egli rompe brutalmente una lunga tradizione, risalente ad Aristotele, la quale voleva la filosofia come sapere fine a se stesso. Il sapere per il sapere, di ispirazione aristotelica, a Nietzsche non interessa, come del resto non gli interessa la pura e semplice ricostruzione filologica della realtà : queste operazioni, infatti, risultano del tutto subordinate, e dunque di secondaria importanza, rispetto al problema della vita. Sulla base di queste considerazioni, Nietzsche si innesta su un filone di pensiero che possiamo tranquillamente definire vitalistico, volto all’esaltazione della vita e dell’irrazionalismo che la contraddistingue; nella 2° delle Considerazioni inattuali, il cui titolo recita “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, Nietzsche non si domanda, come invece facevano i suoi contemporanei, se la storia sia o non sia una scienza e come la si debba impostare per far sì che essa ricostruisca fedelmente il passato; al contrario, gli interessa se la storia sia utile o dannosa per la vita: tutta la storia della filosofia precedente a Nietzsche aveva concentrato la propria indagine sulla ricerca del vero, senza mai osar mettere per davvero in forse il concetto di verità ; ora, Nietzsche ò del parere che il concetto di verità sia uno di quei concetti su cui si ò costruita nel corso della storia la civiltà occidentale ed egli si propone di sostituirlo, dopo averlo dimostrato assurdo, con quello di utilità : la vera filosofia non deve più domandarsi cosa ò vero, ma cosa ò utile per la vita. Ne consegue che il criterio per giudicare un sapere non consisterà più nel domandarsi se esso sia veritiero, ma se serve o no alla vita, ovvero se ò in grado di stimolare le forze vitali dell’uomo. Nietzsche prende le distanze dalla tradizione anche per il modo di scrivere: al periodare ampio e architettonicamente strutturato, egli preferisce l’ aforisma, caratterizzato dalla forma concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: inoltre l’aforisma, che Nietzsche mutua da Eraclito, ò tipico delle filosofie non-sistematiche e ben risponde all’esigenza della filosofia nietzscheana di operare come un martello che distrugge le verità e che saggia le campane per vedere se suonano bene (fuor di metafora: gli aspetti della civiltà occidentale), o se debbano essere abbattute. Ecco perchò l’opera del pensatore tedesco si configura come un’opera di smontaggio degli elementi occidentali per sondarne la legittimità con i colpi martellanti dell’aforisma. Egli si avvale di questo stilema narrativo in quasi tutte le sue opere, fatta eccezione per La nascita della tragedia e per le Considerazioni inattuali, dove invece prevale la forma accademica del saggio, ossia la trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo, poichò l’argomento trattato lo costringe a percorrere quella strada (anche se fortissima ò la partecipazione emotiva del filosofo); un’altra illustre eccezione ò rappresentata dal capolavoro di Nietzsche, Così parlò Zarathustra: ciò a cui maggiormente si avvicina sono le Sacre Scritture e non a caso il protagonista stesso (Zarathustra) ò un profeta o, meglio, per usare un’espressione tipicamente nietzscheana, ò un “Anticristo”, ovvero predica un modo di vita diametralmente opposto a quello delineato da Cristo. Proprio come nei Vangeli, si racconta la vita del profeta inframmezzata da parabole e scintillante di metafore. E’ bene spendere qualche parola anche sulla vita di Nietzsche, naufragata nella pazzia: al di là dei molteplici eventi che l’hanno segnata, ò molto importante il fatto che essa si sia tragicamente conclusa, dopo una lunga depressione, in una follia che ha portato il filosofo alla morte, dopo il crollo avvenuto nella sua città prediletta, Torino. E c’ò chi ha voluto scorgere in alcuni aspetti sconcertanti della filosofia nietzscheana la prova lampante che la sua mente fosse già malata, leggendo la sua follia come un effetto della sifilide contratta in passato. Vi ò poi stato chi ha sostenuto che la follia fu causata dalla filosofia stessa elaborata dal pensatore: e in effetti certi aspetti di essa tendono a sfuggire ad ogni logica umana, a schizzare via da ogni forma di comprensibilità ; in certi punti il pensiero si smarrisce letteralmente e questo avvitamento estremo della filosofia lo avrebbe portato alla follia. Detto questo, passiamo ad esaminare la prima opera importante composta da Nietzsche: si tratta de La nascita della tragedia, del 1871. L’impostazione ò, apparentemente, di stampo filologico, in quanto si cerca di risalire alle origini della tragedia fiorita in età greca, ma, come si evince fin dalle prime pagine, le tesi strettamente filologiche sono affiancate da profonde considerazioni filosofiche; ed ò curioso notare come questo modo argomentativo abbia fatto molto presa, a tal punto che in molti (tra cui Heidegger), da allora, cercheranno, sulla scia di Nietzsche, di studiare dai tempi più remoti la società occidentale per poterla sanare. Nell’opera e, più in generale, nell’intera filosofia nietzscheana, aleggia l’idea che la crisi che sta vivendo la civiltà occidentale sia un qualcosa di molto remoto, risalente ai tempi del mondo greco, nell’idagine del quale Nietzsche apporta ragguardevoli novità . In primo luogo, egli stravolge la tradizione nella misura in cui non guarda alla civiltà greca come vivamente ottimistica, come invece si era soliti fare in virtù della tradizione invalsa dal Rinascimento in poi; al contrario, vuole indagarne gli aspetti ombrosi, il pessimismo di fondo che serpeggia in quel mondo e che nessuno era stato davvero in grado di cogliere. In quest’indagine, Nietzsche prende spunto da Schopenhauer, della cui filosofia si dichiara momentaneamente depositario: e legge appunto la nascita della tragedia come manifestazione di questo pessimismo latente che pervade il mondo greco; in particolare, egli adduce come esempi del pessimismo imperante all’epoca le lamentazioni sull’esistenza, i numerosi paragoni instaurati tra le stirpi umane e le foglie e, soprattutto, ricorda la vicenda di un sovrano che, imbattutosi in un satiro dei boschi detentore della verità sull’esistenza umana, dopo averlo a lungo rincorso, lo costringe ad enunciare tale verità : il bene assoluto per l’uomo ò non nascere e, se ò nato, morire al più presto. L’altra grande novità (strettamente connessa alla prima) che Nietzsche introduce nel suo metodo filologico risiede nell’aver scorto il momento culminante dell’età greca non nella società dei tempi di Platone e Pericle, bensì nella civiltà arcaica, ancora venata dal pessimismo; infatti, l’ottimismo ò subentrato a partire dai grandi sistemi filosofici di Platone e Aristotele. E la tragedia, nella prospettiva nietzscheana, costituisce il momento in cui la civiltà greca arriva al massimo grado e, contemporaneamente, si avvia al suo tramonto: l’intera civiltà greca (e, indirettamente, quella occidentale) appare agli occhi di Nietzsche governata da due princìpi che egli identifica, rispettivamente, con il dio Apollo e con il dio Dioniso. Essi simboleggiano due atteggiamenti antitetici che connotano il mondo dei Greci: da un lato, Dioniso ò l’orgiastico dio della natura selvaggia e incarna il disordine, le forze irrazionali e istintive dell’uomo; dall’altro lato, Apollo ò il dio solare, emblema dell’equilibrio, dell’armonia, della razionalità e dell’ordine. Ed ò come se il mondo greco, nella sua classicità , avesse privilegiato l’atteggiamento apollineo, dandosi una veste razionale: ma Nietzsche mette in risalto l’aspetto dionisiaco, attribuendogli anche un peso maggiore rispetto a quello apollineo. Prima che nascesse la tragedia, egli nota, vi ò stato un alternarsi dei due atteggiamenti, per cui ora prevaleva la prospettiva caotica del dionisiaco, ora quella composta dell’apollineo: e se in alcune civiltà orientali (Nietzsche ha soprattutto in mente certi culti orgiastici in cui il dionisiaco si manifesta in modo sfrenato) lo spirito dionisiaco emerge incontrastato da quello apollineo e perciò risulta particolarmente violento, nel mondo greco, invece, il dionisiaco genera anche l’apollineo, quasi come una barriera di difesa all’impeto dirompente dello spirito dionisiaco. Soffermando la propria attenzione sul mondo greco, Nietzsche cita espressamente il tempio dorico arcaico che, con la sua assoluta perfezione geometrica, rappresenta proprio l’ergersi dell’ordine apollineo in opposizione al caos dilagante del dionisiaco. Ed ò evidente come la novità della lettura nietzscheana della civiltà greca consista non tanto nell’aver sostenuto che, in fin dei conti, la cultura greca non ò poi così ordinata come sempre la si ò immaginata, quanto piuttosto nell’aver evidenziato il fatto che l’ordine che, qua e là , la colora ò una pura e semplice manifestazione derivata dal caos di fondo, una barriera volta a limitare i danni dell’eccessivo disordine. A differenza dell’interpretazione che del mondo greco aveva dato qualche decennio prima Hegel, ad avviso del quale, in fin dei conti, i Greci erano un popolo ottimista e composto per inclinazione naturale, Nietzsche mette in luce come i Greci abbiano insistito in modo esasperato sull’ordine perchò avevano un senso particolarmente acuto della tragicità dell’esistenza umana, cosicchò dionisiaco e apollineo, inizialmente presentati come due poli antitetici, si rivelano ora come due facce della medesima medaglia, in quanto l’apollineo nasce come reazione alla tragicità dionisiaca della vita. E, sotto questo profilo, la tragedia greca costituisce il vertice raggiunto dal mondo arcaico, in quanto in essa ò cristallizzato un perfetto e armonico equilibrio tra lo spirito dionisiaco e quello apollineo: sulla scena, infatti, vengono rappresentati avvenimenti terribili che però risultano piacevoli agli spettatori (già Aristotele aveva riflettuto su questo paradosso); l’interpretazione che ne dà Nietzsche ò in piena sintonia con il suo ragionamento: di fronte alla tragicità degli eventi messi in scena, si prova piacere perchò si esprime sì l’impeto dionisiaco, ma ò ” Dioniso che parla per bocca di Apollo “, ovvero gli elementi tragici dell’esistenza messi in scena vengono sapientemente sublimati dall’essere tradotti in un linguaggio artistico, come se Apollo desse forma ai contenuti di Dioniso. E la tesi nietzscheana, che campeggia nell’opera, secondo la quale la tragedia deriverebbe da antichi riti dionisiaci ò ancor oggi per lo più accettata: “tragedia”, infatti, sta a significare “canto del capro” e il capro era appunto un animale sacro a Dioniso; al coro di uomini vestiti come capri in onore del dio, si ò sempre più contrapposta la figura di Dioniso e da ciò si ò, gradualmente, sviluppata la tragedia vera e propria. Come abbiam detto, in quest’opera Nietzsche professa la propria ascendenza schopenhaueriana e ben lo si evince dal prevalere, nella sua lettura del mondo greco, dell’aspetto drammatico e caotico dell’esistenza e della forza irrazionale, quasi demoniaca, che la permea a tal punto che la razionalità altro non ò se non una mera apparenza. Tuttavia, nella seconda edizione dell’opera, Nietzsche pone una prefazione in cui dichiara di non essere più schopenhaueriano e che anzi, già quando aveva scritto La nascita della tragedia si era solo illuso di esserlo. E in effetti le differenze tra i due pensatori sono parecchie: seppur accomunati dal privilegiamento per l’irrazionalità e dal pessimismo, i due filosofi appaiono incommensurabilmente distanti nella loro concezione della vita; essa ò per Nietzsche il valore centrale intorno al quale costruire la filosofia, mentre invece per Schopenhauer, attraverso quel tortuoso processo che, culminando con la “noluntas”, porta allo spegnimento della vita stessa, essa non ha alcun valore, ed ò anzi la fonte della sofferenza umana. Nietzsche, che pure all’epoca de La nascita della tragedia si riteneva schopenhaueriano nella misura in cui prospettava la caoticità dell’esistenza, non giungeva affatto a scorgere l’unico rimedio possibile all’infelicità dell’esistere nell’annullamento della vita stessa: in altri termini, se per Schopenhauer, dopo essersi accorti che la vita ò tragica, non resta che uscirne al più presto, per Nietzsche, viceversa, la si deve vivere fino in fondo, accettandola in ogni sua sfumatura (in Così parlò Zarathustra egli dice, con un’espressione che ben sintetizza la sua filosofia, ” bisogna avere un caos dentro di sò per generare una stella danzante “). Da tutto ciò si evince come per Nietzsche la vita sia il valore supremo e che dunque la tragicità che la connota non sia un motivo sufficiente per sottrarsi ad essa: il che ò brillantemente simbolizzato dal coro tragico che si identifica a tutti gli effetti con la caoticità di Dioniso; Apollo stesso, del resto, non viene dipinto a tinte negative, ma ò anzi inteso come un filtro che permette di vedere la tragicità esistenziale senza essere accecati dal fulgore che essa emana. Ciò non toglie, tuttavia, che l’apollineo, per rimanere positivo, non debba perdere il suo contatto con il dionisiaco (da cui ò generato): il problema sorge nel momento in cui Apollo non ò più portavoce di Dioniso, ma parla con voce propria, diventando così autonomo. E il crollo della cultura greca, verificatosi agli occhi di Nietzsche nel V secolo a. C., ò legato proprio a questo: i due personaggi che ne sono vessilliferi sono Euripide, tragediografo dell’epoca, e Socrate, modello tipico di spettatore di tali tragedie. Infatti, con la produzione euripidea, il tragico sfuma e cede il passo alla razionalità , i personaggi in scena ragionano con una dialettica spietata e la tragedia perde i suoi connotati tragici tendendo sempre più a diventare ottimistica e razionale. Socrate, dal canto suo, ò il primo grande simbolo della grande razionalità filosofica della Grecia e il suo allievo, Platone, non fa che portare alle stelle questa tendenza: da quel momento fino all’epoca in cui vive Nietzsche, la civiltà occidentale ò sempre più andata, in modo irresistibile, verso una marcata compostezza ordinata e razionale, con il conseguente sganciamento dell’apollineo dal dionisiaco e la fine dell’equilibrio tra i due. Ma a Nietzsche non interessa il passato in quanto tale, ma la vita e il suo trascorrere incessante nel presente: ed ò per questo che proietta la sua indagine sulla meravigliosa epoca dei Greci, per cercare il senso e l’origine profonda di quella crisi che alimenta l’epoca in cui Nietzsche vive; e il filosofo, come abbiam visto, rinviene le radici di tale crisi nel prevalere schiacciante dell’apollineo sul dionisiaco. E in questa fase del suo percorso filosofico, Nietzsche, oltrechò schopenhaueriano, si professa wagneriano, scorgendo nella figura di Wagner la possibilità di una rinascita della tragedia greca, intesa come antidoto al prevalere imperante dell’apollineo. Questo atteggiamento ò presente anche nella II delle Considerazioni inattuali (1873-74), dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita: che la riflessione di Nietzsche sia “inattuale” e che egli sia, se inquadrato nella sua epoca, un pesce fuor d’acqua ò evidente già solo dal titolo di questa Considerazione, titolo che peraltro costituisce la chiave di lettura di tutto il suo pensiero: a Nietzsche non interessa affatto se la storia dica il vero o se vada adottato un metodo storico piuttosto che un altro; semplicemente si domanda se la storia sia utile o dannosa per la vita, protagonista indiscussa della sua filosofia a partire da La nascita della tragedia (anche se in tale opera finiva per identificarsi con la volontà schopenhaueriana). Dalla lettura della II Considerazione, emerge come per Nietzsche la storiografia, che di per sò non ò da respingersi, in quegli anni abbia assunto un’eccessiva importanza a tal punto da poter divenire dannosa, poichò fa sì che ci si senta inibiti nella vita perchò posseduti dalla malsana idea che tutto ciò che si poteva fare sia già stato compiuto nel corso della storia umana. Per poter agire nella vita ò necessario un margine di oblìo e di ignoranza, e pertanto la storiografia va bene solo se presa a piccole dosi. Nello specifico, poi, egli individua tre diversi tipi di storiografia: quella “critica” ha un approccio critico con il passato e, dunque, si pone (sulla scia dell’Illuminismo) in forma correttiva rispetto ad esso; quella “monumentale”, invece, esamina e celebra le azioni del passato e, infine, quella “antiquaria”, come suggerisce il nome, nutre un culto, di stampo museale, del passato in quanto tale. Ciascuna di queste tre tipologie, a patto che non venga oltremodo esasperata quantitativamente e non si trascurino le altre, ò utile: la critica e l’esaltazione delle gesta del passato, infatti, sono uno stimolo per agire in modo migliore e, in modo analogo, perfino il radicamento museale nel passato può essere una buona premessa per agire meglio (pensiamo a Manzoni, che nell’Adelchi mette in scena vicende del passato radicate nella cultura italiana per aizzare il popolo ai moti risorgimentali). Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba esagerare: perchò se ò vero che i tre tipi di storiografia possono, per le ragioni poc’anzi esposte, essere utili alla vita, ò anche vero che, se si eccede, possono rivelarsi dannose. Se si critica eccessivamente il passato, infatti, ci si limita a lamentale di come le cose non debbano andare e se si esaltano troppo le imprese degli antichi ci si blocca in un’assurda idolatria. Ed ò per questa ambiguità per cui la storia, nelle sue tre sottodivisioni, ò in perenne bilico tra l’essere utile e l’essere dannosa per la vita, che Nietzsche attribuisce tale titolo alla seconda Considerazione. E, proprio come fa Freud, egli propone sempre anche degli antidoti: se ne La nascita della tragedia aveva proposto l’opera wagneriana come possibile ritorno all’equilibrio tra apollineo e dionisiaco, ora, invece, sostiene che per far fronte al rischio che la storia possa danneggiare la vita si deve ricorrere all’arte e alla religione. L’arte, infatti, pressochò costante nell’opera nietzscheana, può costituire un’efficace cura per dar spazio alla creatività dell’uomo e al suo istinto creativo, anche se, ò bene notare, il pensatore tedesco cambia, a poco a poco, il suo atteggiamento. Se ne La nascita della tragedia e nelle Considerazioni inattuali ravvisa nell’arte un potente antidoto contro l’apollineo che mortifica la vita, man mano che matura, Nietzsche ò sempre meno convinto che essa possa salvare e arriva a sostenere che si deve vivere la vita come un’opera d’arte (tesi che sarà particolarmente cara a D’Annunzio), ovvero si deve condurre la propria esistenza artisticamente, diventando creatori di valori e di certezze da contrapporre a quelli tradizionali. Forse più complessa ò la questione per quel che riguarda la religione: pare infatti piuttosto strano che Nietzsche, accanito sostenitore che ” Dio ò morto ” e autore de L’Anticristo, possa rintracciare nella religione un rimedio. Tuttavia, ò bene precisare, Nietzsche non era banalmente un “ateo” dispregiatore della religione: come non gli interessa se la storia sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita, così la religione gli sta a cuore nella misura in cui essa può promuovere la creatività umana: e se arriverà a condannare le religioni dei suoi tempi, lo farà quasi esclusivamente perchò esse uccidono la vitalità , non perchò sono menzognere; e, in questa fase del suo pensiero, non può fare a meno di constatare che nell’epoca d’oro della tragedia (quella di Sofocle e, soprattutto, di Eschilo) la religione era un patrimonio lussurreggiante di miti e di immagini da vivere in prima persona con i riti e con le feste, cosicchò essa non ammazzava, ma anzi era una sorgente di vitalità umana. Da queste riflessioni si capisce come per Nietzsche la religione e l’arte siano antistoriche e “inattuali”: esse, cioò, si collocano al di là della pericolosità dell’incantesimo di quella storia che, se eccessiva, fiacca la vita. Una buona parte del lavoro filosofico di Nietzsche nella sua maturità ò dedicato alla ricostruzione della ” genealogia della morale ” (come recita il titolo di un suo scritto datato 1887): se nella prima fase della sua indagine, il pensatore tedesco aveva individuato nell’arte la via di salvezza per la civiltà occidentale, da un certo momento in poi egli abbandona tale strada e scorge l’unico antidoto possibile nella scienza e per questo motivo questa nuova stagione del suo pensiero ò stata spesso definita “illuministica”, tant’ò vero che molti dei suoi scritti maturati all’epoca sono dedicati ai più prestigiosi pensatori dell’età della ragione, tra cui spicca Voltaire (dedicatario di Umano, troppo umano ). Apparentemente può stupire questa fedele adesione alla scienza di un pensatore che privilegia l’irrazionale e, soprattutto, il vitalismo: ma l’atteggiamento che egli assume ò radicalmente diverso rispetto a quello positivistico, fiducioso che nel dato di fatto risiedesse la verità ; più precisamente, la valutazione positiva che Nietzsche riserva alla scienza può essere spiegata facendo riferimento ad un altro testo, del 1881, intitolato ” La gaia scienza “: il pensatore tedesco apprezza la scienza non in base ad un criterio di verità , ma piuttosto perchò capace di liberare l’uomo, proprio come, anni prima, aveva valutato positivamente la religione per la sua capacità di far emergere la capacità creativa. Ed ò per questo che egli abbraccia la scienza nella misura in cui in essa scorge una capacità liberatoria, senza contrapporla perchò più “vera” (come invece facevano i Positivisti) alle nebbie della metafisica: un pò come aveva fatto per la storia, egli si domanda ora non se la scienza sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita. E la valutazione che ne dà ò inequivocabilmente positiva: la tecnologia stessa appare ai suoi occhi come un elemento liberatorio e non ò un caso che egli, in questo periodo, concentri la sua attenzione su molti studi variegati, anche di natura scientifica. Ciò che più affascina Nietzsche della scienza e del suo essere utile per la vita ò il fatto che essa indaghi sull’origine delle cose ed ò per questo che la sua attenzione ò rivolta precipuamente alla chimica e alla paleontologia, finalizzate (anche se una nel tempo, l’altra no) alla ricerca dell’origine degli elementi costitutivi della realtà . In sostanza, conclude Nietzsche, queste due scienze hanno un atteggiamento “genealogico” e si propone di operare anch’egli, in ambito filosofico, con questo metodo di costruzione dell’origine passando per lo smontaggio; tuttavia, se la chimica e la paleontologia studiano, in senso lato, la natura, Nietzsche vuole invece proiettare la propria indagine sulla morale, anche se con le stesse modalità delle altre due discipline: ed ò per questo motivo che il suo famoso scritto che ne scaturisce si intitola Genealogia della morale. Più che distruggere la morale, come più volte gli ò stato rinfacciato, Nietzsche la “decostruisce”, come ha acutamente messo in evidenza Vattimo, ovvero la costruisce all’incontrario: come la chimica “smonta” le sostanze complesse per ravvisare i singoli elementi che le costituiscono, così egli si propone di agire nei confronti della morale; ed ò, a tal proposito, significativo il titolo di un’opera del 1878, intitolata ” Umano, troppo umano “, che mette in risalto come dallo smontaggio della morale se ne ottenga una demitizzazione della morale stessa. In altri termini, la morale ha tradizionalmente poggiato su realtà sovrasensibili (il mondo delle idee di Platone ne ò la più fulgida espressione), quasi come se nella storia i valori umani fossero stati tramutati in divini; questo atteggiamento paradossale, nato con Socrate e proseguito con Platone, ha accompagnato la civiltà occidentale per tutto il suo sviluppo, senza mai venir meno. Il cristianesimo stesso altro non ò, a dire di Nietzsche, che un “platonismo popolare” che, con una precettistica meno raffinata di quella platonica, ha fatto slittare la discrepanza tra mondo fisico e mondo metafisico da un piano ontologico ad uno temporale, cosicchò la trascendenza non si colloca più al di sopra, ma dopo, dal momento che la si raggiunge solo con la morte. Perfino la democrazia e il socialismo sono il frutto di quest’atteggiamento di divinizzazione della morale e ciò che intende mettere in luce Nietzsche in Umano, troppo umano ò come quei valori ipostatizzati, quasi trasformati in sostanze divine, in realtà sono umani, fin troppo umani: ” dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane “. Ma più che venir rifiutati, questi valori “ideali” sono smontati, quasi denudati, ossia messi in luce nella loro vera origine e quindi nella loro vera natura, attraverso un’operazione filosofica accostabile a quella di un martello che saggia ogni cosa. E, nel concreto, dimostrando nella sua indagine sulla genealogia della morale che essa non ha un’origine sovrasensibile e divina, ma anzi, fin troppo terrena, egli intende dire, ad esempio, che le regole morali che serpeggiano nella nostra civiltà sono regole di convivenza civile per regolare il comportamento degli individui, e non leggi enigmaticamente emanate da dio. E perchò nasce la morale? L’uomo, osserva Nietzsche, ha per natura il bisogno di dominare la realtà che lo circonda e tale esigenza si estrinseca in primo luogo come dominio intellettuale (la paura del buio, ad esempio, nasce dal fatto che non riusciamo a dominare concettualmente l’ambiente in cui ci si trova) e, per fare ciò, l’uomo sente la necessità impellente di imporsi delle regole comportamentali e conoscitive che lo difendano dalla realtà caotica e irrazionale in cui ò immerso, proprio come, al tempo dei Greci, lo spirito apollineo era nato da quello dionisiaco. Ma il termine “morale” riveste in Nietzsche un significato più ampio di quello che, solitamente, le attribuiamo: a costituire la “morale” sarà la sfilza di regole che l’uomo si ò imposto, ma anche i criteri per stabilire ciò che ò vero e ciò che ò falso, dato che la ricerca della verità e la necessità di comunicarla ai propri simili ò esso stesso un valore morale, cosicchò anche il vero, oltre al bele, rientra nella vastità semantica del termine “morale”. Ma non basta: perfino la religione ò una forma di morale, visto che in Dio sono cristallizati tutti i valori maturati nella storia dell’uomo ed ò in quest’avventura di ricerca dell’origine umanissima della morale che Nietzsche ha modo di trattare della schiavitù: quelli che vengono generalmente riconosciuti come “il bene” e “il male” sono tali perchò l’han stabilito i “padroni”, afferma Nietzsche accostandosi in modo impressionante alle tesi che in quegli anni stava elaborando pure Marx; dopo di che, tuttavia, succede anche che nasca una morale dei servi, di coloro, cioò, che sono assoggettati in quanto deboli e che, con la loro morale, intendono negare la validità del diritto del più forte, proponendo, opposta ad essa, una ” morale del risentimento “. In questa prospettiva, che molto risente delle discussioni degli antichi Sofisti (cari a Nietzsche perchò demolitori della verità ) sulla distinzione tra e , Nietzsche scaglia i suoi velenosi strali soprattutto contro Platone, che nella Repubblica aveva contestato a Trasimaco il diritto del più forte, contro il cristianesimo, strenuo propugnatore dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, contro la democrazia e contro il socialismo ( ” balorda incomprensione di quell’ ideale morale cristiano “); e dopo aver tuonato contro di essi, Nietzsche fa una scoperta sensazionale: la morale dei deboli può diventare morale della sopraffazione, poichò se essi si uniscono possono imporre i loro valori in modo coercitivo ma anche in modo “pacifico” e, in quest’ottica, l’ascetismo stesso, tanto caro a Schopenhauer, altro non ò se non trasformare in valore l’incapacità di vivere la vita fino in fondo e voler costringere gli altri a cedere a tale valore. Perfino i martiri cristiani, sostiene Nietzsche, commettono una violenza, poichò col martirio ò come se imponessero agli altri i loro valori. Con queste riflessioni Nietzsche demitizza la morale e da ciò deriva un atteggiamento di nichilismo, ovvero una filosofia del nulla che prorompe dal venir meno dei punti di riferimento della morale: e Nietzsche distingue tra “nichilismo passivo”, dipingendolo in negativo, e “nichilismo attivo”, esaltato invece come altamente positivo. Se con Platone era invalsa la convinzione che esistessero due mondi distinti, uno intellegibile e perfetto, l’altro fisico e lacunoso perchò pallida copia dell’altro (e il cristianesimo aveva esasperato questa mentalità ), si ò poi scoperta la falsità di tale apparato ideologico e morale, cosicchò il mondo fisico ha perso ancora più consistenza perchò, se ai tempi di Platone e della morale cristiana, era considerato imperfetto ma comunque copia di quello ideale, ora si trova smarrito e senza punti di riferimento assoluti: domina dunque il nichilismo passivo, che corrisponde a buona parte delle posizioni atee (ad esempio, gli atei che invidiano chi ha ancora il coraggio di credere). Con la fase del nichilismo passivo, il mondo ha perso consistenza rispetto al mondo di Platone perchò, se ò vero che ha proclamato la falsità dei punti di riferimento assoluti (Dio, la morale, ecc), ò altrettanto vero che non si ò del tutto liberato da quel gravoso fardello e prova una sorta di rimpianto per quel mondo assoluto. Poi, però, nasce una nuova posizione: dopo aver dichiarato l’inesistenza del mondo dei valori assoluti, ci si accorge che di esso non c’ò più bisogno (e forse non ce n’ò mai stato), sicchò viene meno il rimpianto che caratterizzava il nichilismo passivo; il mondo sensibile resta l’unico e assume un valore assoluto, mai conosciuto in precedenza, poichò tutto il valore riconosciuto un tempo al mondo sovrasensibile si riversa ora su quello terreno e così, dal nichilismo passivo si passa a quello attivo, caratterizzato da un radicale immanentismo; il nuovo ateo, cioò, non rimpiange più il mondo dei valori, ma dice: “dio non c’ò? Benissimo, allora dio sono io”, o, per usare le parole impiegate da Nietzsche in Così parlò Zarathustra, ” se esistessero gli dòi, come potrei sopportare di non essere dio! [… ] adesso è un dio a danzare, se io danzo “. E una volta che la scienza “gaia” (perchò liberatrice) perviene alla conoscenza e alla decostruzione della morale, la depotenzia fino a liberare l’uomo dalle tradizionali catene dei valori morali imposti dall’esterno e, per questo motivo, limitativi nei confronti della creatività umana; però, solo con il passaggio dal nichilismo passivo a quello attivo si attua effettivamente la liberazione dell’uomo e quella che Nietzsche definisce ” trasvalutazione dei valori “, cioò lo stravolgimento dei valori tradizionali: non si tratterà di eliminare il bene e il male, ma di trasmutarne il significato e questo atteggiamento volto a cambiare, non a distruggere, emerge bene dal titolo di un’opera del 1885-86 intitolata Al di là del bene e del male, da cui si evince facilmente come l’uomo, smontata la morale, sia tenuto a collocarsi al di là di quelli che la tradizione ha additato come “bene” e “male”, liberandosi in tal modo dei valori “divini” imposti dall’esterno e dannosi per la vita: questi vengono sostituiti da nuovi valori che l’uomo stesso si dà , trasformandosi così in un “creatore di valori”. Non si subiscono più in modo passivo i valori “divini”, ma si vivono in modo gioioso e gaio quelli nuovi, terreni a tutti gli effetti (l’opera di Nietzsche ò pervasa da costanti inviti all’umanità a restare fedele alla terra). In base alle considerazioni fin’ora illustrate, Nietzsche può così arrivare ad affermare che ” Dio ò morto “: in molti si son chiesti perchò non dica, molto più semplicemente, che non esiste, ma in realtà il suo atteggiamento ò profondamente motivato dal suo stesso impianto filosofico. Infatti, ripercorrendo brevemente il suo percorso, egli ha indirizzato la sua ricerca sull’origine della morale attraverso l’impiego della scienza e ha scoperto che tutti quei valori morali, da sempre esaltati come divini, in verità hanno un’origine fin troppo umana, ma nella prospettiva nietzschena rientra nella tradizionale “morale” anche l’esigenza di distinguere il vero dal falso ed ò a questo proposito che affiora un paradosso interessante nel suo pensiero, paradosso che qualche studioso ha voluto connettere alla follia nietzscheana: la ricerca condotta sulla genealogia della morale si basa anch’essa su quella spinta alla ricerca della verità che costituisce un punto cardinale della civiltà occidentale (e trova la sua massima espressione nella celebre espressione di Aristotele secondo cui l’uomo tende per natura alla verità ); da tale indagine si scopriva che la verità non esiste e lo stesso valore morale che ci ha indotti a tale ricerca rivela la propria inconsistenza, quasi come se l’unica verità fosse l’inesistenza di una verità . E, poichò credere in Dio significa riporre tutti i valori morali (bontà , verità , ecc) in un solo ente, negarne l’esistenza vorrebbe dire, a sua volta, riproporre una verità e quindi ritirare in ballo l’esistenza di Dio, che ò appunto la sintesi di tutti i valori morali (tra cui la verità ): in altri termini, se Nietzsche avesse detto “Dio non esiste”, avrebbe riproposto una nuova verità (la non-esistenza di Dio) e si sarebbe trovato incastrato dalla sua affermazione, perchò laddove c’ò una verità , là c’ò anche Dio. Ecco perchò Nietzsche preferisce usare un’espressione più indiretta e sfumata, priva di implicazioni ontologiche: asserendo che Dio ò morto, Nietzsche ci sta suggerendo che non ci serve più e da ciò emerge l’idea (fortissima in Così parlò Zarathustra ) del ” congedarsi da Dio “; certo, ci sono stati momenti in cui Dio ha avuto un senso e, del resto, Nietzsche esamina (nella Genealogia della morale ) l’origine della morale senza scagliarsi contro di essa, ma anzi riconoscendo che, in determinati periodi storici, ò stata necessaria e ha avuto un senso. Più nello specifico, ò il progresso che ha reso sempre più possibile la vita senza l’arsenale divino e morale, fino ad arrivare al nichilismo attivo, in cui si smarrisce ogni rimpianto per tali valori; e un ruolo di primissimo piano ò stato svolto dalla tecnologia: l’uomo, infatti, finchò non ò stato in grado di dominare materialmente la realtà , ha sentito l’esigenza di imporsi su di essa almeno concettualmente con l’idea di Dio e della morale. Ma poi, grazie al progresso e alla tecnologia, egli ha esteso il proprio dominio materiale sulla realtà e la validità di concetti come “Dio” e “morale” si ò sgretolata, a tal punto che ancora oggi le società più evolute sono quelle dotate di regole meno fisse. Non si tratta, pertanto, di distruggere brutalmente la morale e Dio, ma semplicemente di assumere nei loro confronti quell’ atteggiamento di congedo calmo e sereno che si attua nel momento in cui ci si accorge che quelle cose, un tempo indispensabili, ora non servono più e possiamo liberarcene in tutta tranquillità (l’idea di ” crepuscolo degli idoli “, come recita il titolo di un’altra opera, del 1888, rende bene l’idea di come i valori tradizionali non vengano violentemente distrutti, ma di come tramontino). L’odio nei confronti della morale e della religione, dice Nietzsche, può solo scaturire in seno al nichilismo passivo, quando cioò vengono ancora sentite forti e, in fondo, se ne sente ancora il bisogno: questo atteggiamento di transizione viene paragonato a quello del cane appena liberato che ha ancora sul collo il segno del collare. E dopo che la morale e la religione sono giunti al loro crepuscolo, l’uomo che si ò congedato da esse ò il superuomo: ” morti sono tutti gli dòi: ora vogliamo che il superuomo viva ” ( Così parlò Zarathustra ). Tuttavia, al termine superuomo, destinato a diventare un mito per le generazioni successive a Nietzsche e ad essere soggetto a clamorosi fraintendimenti, ò preferibile usare quello di “oltreuomo”, come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là , nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perchò, a differenza della sonnolenta borghesia, ò animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori. Fondamentalmente, l’oltreuomo non ò un essere superiore agli altri, ma la nuova figura che l’uomo dovrà assumere in futuro e Nietzsche se ne fa profeta soprattutto in Così parlò Zarathustra, un libro enigmatico ( “un libro per tutti e per nessuno” avverte il sottotitolo) che, come abbiamo accennato, si configura come una sorta di parodia del Vangelo in cui, oltre a capovolgere il testo sacro (viene propagandata una contro-religione), sceglie come protagonista quello Zarathustra, fondatore della religione persiana, che aveva contrapposto in modo nettissimo il bene al male. Nietzsche tramuta questo personaggio storico che aveva dato la codificazione più netta della morale in profeta di un’oltre-religione dell’essere al di là del bene e del male. Ma Nietzsche, per bocca di questo nuovo “profeta all’incontrario”, non vuole imporsi come fondatore di una nuova religione, poichò ciò non costituirebbe altro che una nuova divinizzazione di valori: ” non c’è nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo ” ( Ecce homo ). L’unica cosa che Zarathustra insegna ò di non accettare insegnamenti, ma di creare nuovi valori: egli profetizza la venuta del superuomo, ovvero dell’uomo del futuro ( ” Ancora non è esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l’uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande io l’ho trovato troppo umano! “) che si innesta nella civiltà postmoderna: vi sarà sì una fase provvisoria in cui esisteranno solo pochi oltreuomini in grado di cogliere come procede il futuro, ma ciò che li caratterizzerà sarà quel senso di “malattia” e di inattualità che ha accompagnato Nietzsche stesso per tutta la sua vita fino a culminare nella follia. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. Eâ un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità . Eâ un essere “fedele alla terra”, alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La “fedeltà alla terra” ò fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, ò esaltazione della salute e sanità del corpo, ò altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più “tu devi”, ma “io voglio”. Soprattutto, l’oltreuomo trasvaluta tutti i valori e ne crea di nuovi, facendo della propria vita un’opera d’arte: e in Così parlò Zarathustra troviamo immagini ricorrenti, da cui traspare come l’oltreuomo sappia amare e trasmettere agli altri la gioia che deriva dalla propria piena realizzazione; il ridere e il danzare sono le sue prerogative peculiari: dopo aver smontato la verità , crolla inevitabilmente anche l’essere, giacchò la verità altro non ò se non disvelamento dell’essere, e quando Nietzsche dice che ” l’essere manaca ” si avvicina soprattutto alle posizioni di Gorgia, il quale, dopo aver dimostrato che l’essere non ò e che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, comunque sarebbe incomunicabile, aveva dato una valutazione suprema dell’arte poichò, in assenza di una verità , l’artista non imita (come invece credeva Platone), ma crea e inganna; il discorso di Nietzsche ò molto affine a quello gorgiano e, interpretando l’intera vita come un’opera d’arte, ciò che l’uomo crea diventa un valore assoluto e autonomo: in questa prospettiva, la risata e la danza incarnano la leggerezza dell’oltreuomo, il suo poggiare non sull’essere, ma sul vuoto simboleggiano il suo saper ” vivere in superficie “, quasi camminando sulle acque, proprio in virtù del venir meno di quella che Kant chiamava ” cosa in sò ” ed ò proprio in questa prospettiva che uno dei più gravi pericoli ò costituito dallo “spirito di gravità “. Costante ò anche l’immagine del volo, che ben esprime la leggerezza: ” colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola ‘la leggera’. “; e Nietzsche può così affermare che ” l’uomo ò un cavo teso fra la bestia e il superuomo [… ] è qualcosa che deve essere superato “, ma tale cavo ò sospeso nel vuoto ed ò perciò un passaggio arduo e rischioso (non a caso il funambolo presente in Così parlò Zarathustra perde l’equilibrio e cade). Sempre dalla lettura di Così parlò Zarathustra emergono altri concetti chiave della filosofia nietzschena, come ad esempio quello di “volontà di potenza” e di “eterno ritorno”. In particolare, la volontà di potenza (a cui Nietzsche dedica un’opera intitolata, appunto, La volontà di potenza ) ò in un certo senso l’erede remoto della volontà schopenhaueriana: la stessa opera La nascita della tragedia era intrisa di concezioni schopenhaueriane e, soprattutto, l’elemento dionisiaco era quello in grado di cogliere la forza irrazionale che governa la realtà e che finiva per identificarsi con la volontà di Schopenhauer. Tuttavia, con la nozione di “volontà di potenza” Nietzsche si discosta dall’insegnamento del filosofo pessimista: come senz’altro si ricorderà , Schopenhauer insisteva vivamente sulla necessità di capovolgere la volontà in nolontà , quasi come se si dovesse sfuggire alla volontà stessa; ora, a partire da La nascita della tragedia, Nietzsche sostiene invece che si deve accettare fino in fondo la tragicità dell’esistenza e trovare una specie di gioia paradossale nel vivere il caos fino in fondo. In altri termini, se per Schopenhauer si deve sconfiggere la tragicità esistenziale rifiutandola, per Nietzsche la si deve vincere accettandola fino in fondo, in ogni sua sfumatura. E, con l’avvento del nichilismo, la mancanza di un senso assoluto finisce, secondo Nietzsche, per far assumere un senso assoluto proprio a quella realtà superficiale che ò il mondo che ci circonda. E allora il concetto di volontà si colora di nuovi significati: in primo luogo, per Schopenhauer la volontà ò l’unica cosa che esista veramente, come per Spinoza l’unica vera cosa esistente era la “Sostanza”; e per questo il discorso schopenhaueriano era metafisico a tutti gli effetti e per Nietzsche ogni discorso metafisico ò del tutto inaccettabile, ovvero non si possono più fare affermazioni sulla struttura della realtà (come invece facevano Schopenhauer o Hegel) poichò, respinto il concetto di verità , ciò non ha più senso. L’oltreuomo si trova così nella situazione in cui non ci sono più l’essere nò i valori prestabiliti, e ad esistere sono solamente le interpretazioni del mondo e la nozione di interpetrazione (che fa di Nietzsche uno dei padri del pensiero ermeneutico) ò originalissima: non si tratta di interpretare la verità sotto i diversi e legittimi, ma di per sò non sufficienti, punti di vista con cui si può guardare ad essa, bensì, ci sono solo interpretazioni del mondo ma non c’ò più il mondo da interpretare, c’ò solo più l’immagine del mondo: e Nietzsche può affermare che ” non esistono fatti, ma solo interpretazioni “. Non vi ò una verità oggettiva da guardare sotto diversi profili, ma vi sono solo più i punti di vista: e se non c’ò più il mondo ( ” l’essere manca “), cosa permette di dire che un’interpretazione ò più valida di un’altra? Qui nuovamente emerge il concetto cardinale della filosofia nietzscheana: la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perchò corrispondano di più o di meno ad una presunta verità , ma nella misura in cui sono più “potenti”, più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l’apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio). Venuto meno il mondo, esso ò sostituito, potremmo dire, da un campo nel quale diversi centri di forza si confrontano tra di loro e tali centri di forza altro non sono se non le diverse interpretazioni di quel mondo che non c’ò: ci saranno diverse immagini di valori, di interpretazione della realtà , e così via, e possono di volta in volta prevalere le une sulle altre proprio perchò manca la realtà con cui confrontarsi e l’unico criterio che permette ad un’interpretazione di trionfare sulle altre ò basato sulla vitalità . Pertanto un’interpretazione che stimoli la vita tenderà a prevalere sulle altre e proprio in questo ò racchiuso il concetto di volontà di potenza: ò questo tentativo di affermare determinati valori a danno di altri, quasi il centro di un campo di forza, non una “cosa” (come invece era in Schopenhauer). Ma ò bene notare come la volontà di potenza non sia volontà di esistere, poichò, propriamente, non c’ò nulla che esista, ma ò, invece, volontà di affermarsi (il martire cristiano non muore per esistere, ma per affermarsi); e questo ci permette di capire come, al di là di qualche sbavatura qua e là del pensiero nietzscheano, la volontà di potenza non si affermi mai in modo violento: viene seguita perchò dà un’interpretazione più forte della realtà , non perchò si impone con la violenza sui più deboli (come credevano i nazisti). E l’ultimo grande concetto presente in Così parlò Zarathustra ò quello di eterno ritorno: tra i bislacchi personaggi che accomapgnano Zarathustra nella sua avventura, vi ò anche un nano che espone tale dottrina, secondo cui tutto ritorna su se stesso e per cui tutto quanto accade ora ò già accaduto un’infinità di volte nel passato e accadrà un’infinità di volte nel futuro. Nel formulare questa strana teoria, Nietzsche si basa anche su studi scientifici e, in particolare, sulla constatazione che meccanicisticamente le possibili composizioni della materia, per quanto numerose, si esauriscono e, dopo esserci state tutte, ritorna quella di partenza. Nella poliedricità caleidoscopica della filosofia nietzscheana, suona quasi banale questa teoria già esposta similmente dagli Stoici: tuttavia, gli animali che accompagnano Zarathustra, ad un certo punto, intonano una canzone il cui motivo ò quello appunto dell’eterno ritorno, il cui significato profondo, però, non ò banalmente quello del ritorno perpetuo delle medesime cose, ma ò un significato recondito e profondo: tant’ò che Zarathustra, in una narrazione in cui aleggia un clima onirico, racconta di aver avuto una visione e di aver visto un pastore che dormiva e a cui entra in bocca un serpente; Zarathustra cerca di aiutarlo ma, non riuscendoci, lo invita a mordere il serpente e così si salva e la vicenda si chiude con una risata liberatoria del pastore. Quale ò il significato di ciò? Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perchò l’idea che tutto ritorni ò insostenibile poichò nessuno vorrebbe ripetere all’infinito la propria vita, proprio perchò la nostra vita non ò così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l’eternità . Il morso al serpente sta a significare che ò vero che la dottrina dell’eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un’esperienza di vita non pienamente realizzata. L’oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un’opera d’arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c’ò la possibilità di entrare in questo circolo; e questo ò l’apparente paradosso della dottrina dell’eterno ritorno. E’ vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell’eterno ritorno ò diversa da come sembra. Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell’eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un’interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità , ma un’immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell’oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento. Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa ò travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchò so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell’eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchò ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poichò si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di “Cronos”, ovvero il tempo, che divora i propri figli). Se l’eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l’eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l’eternità ( amor fati ), quasi come se al “no” alla vita di Schopenhauer si sostituisse un “sì” eterno ad essa: ” la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: che cioò non si vuole nulla diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità ” ( Ecce Homo ). E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioò dei valori morali e di Dio, simboleggia l’eternità , mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, ò il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l’ultima fase, quella del nichilismo attivo, ò il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò ò quanto accade nella dottrina dell’eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. E così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall’interpretazione banalizzante dell’eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell’eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità .
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- Filosofia - 1800