Indubbiamente Antonio Gramsci è la figura più importante del marxismo italiano. Nato ad Ales (Oristano) nel 1891, grazie ad una borsa di studio si potò iscrivere, nel 1911, alla facoltà di lettere all’università di Torino, ma verso la fine del 1913 aderì al Partito Socialista e abbandonò gli studi per dedicarsi attivamente alla politica. Contrario alla linea riformista, saluta con entusiasmo la rivoluzione russa, da lui interpretata, specialmente in un articolo pubblicato sull’ Avanti! del 24/12/1917 e intitolato La rivoluzione contro il ‘Capitale’, come la dimostrazione che l’iniziativa rivoluzionaria può avere successo anche saltando fasi (come quella dello sviluppo capitalistico, pressochò assente in un Paese arretrato come la Russia) previste invece come necessarie dalle interpretazioni gradualistiche del processo storico. Nel 1919 fondò il settimanale ‘L’ordine nuovo’ e appoggiò la costituzione dei consigli di fabbrica a Torino. Nel settembre 1920 ebbe luogo l’occupazione delle fabbriche e la lotta si estese in tutta la Penisola, mentre il Governo Giolitti manteneva una posizione neutrale. A Livorno, nel 1921, Gramsci partecipò al Congresso socialista, contribuendo alla scissione che diede luogo al Partito Comunista; nominato rappresentante del Partito Comunista presso la Terza internazionale risiedette per due anni a Mosca. Eletto deputato nel 1924, rientrò in Italia e fondò il quotidiano ‘l’Unità ‘, ma nel 1926 fu arrestato (nonostante godesse dell’immunità parlamentare) dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 20 anni di carcere. Qui la sua salute andò peggiorando fino a portarlo alla morte, avvenuta nel 1937, in una clinica di Roma, poco dopo essere stato amnistiato. Nel 1929, in carcere a Turi, aveva iniziato la stesura di appunti e analisi che sarebbero stati pubblicati in 6 volumi dopo la guerra, fra il 1948 e il 1951, con il titolo Quaderni del carcere. Problema di Gramsci è quello di individuare le condizioni di possibilità per la transizione al comunismo nella specificità della situazione italiana. Egli ne scorse la via in un’alleanza tra gli operai del nord e i contadini del sud e, al tempo stesso, nella conquista di un’ egemonia sulla società civile, come preparazione alla conquista del potere, un’egemonia da attuare anche nei libri di storia, cercando di indurre gli studenti ad abbracciare il comunismo. La supremazia di una classe all’interno della società si manifesta, infatti, attraverso la forza e attraverso la direzione intellettuale e morale. Il momento della forza appartiene alla società politica, mentre quello del consenso appartiene alla società civile; gli intellettuali sono quelli che hanno il compito di ottenere il consenso, mentre la classe politica ò costituita da quelli che si servono della forza per raggiungere quel che non è ottenibile con il consenso. Quest’ultima ha, dunque, bisogno di intellettuali al suo servizio, anche se questi pretendono o si illudono di essere indipendenti. Negli Stati moderni sta ai partiti, che Gramsci paragona al principe di Machiavelli, l’organizzazione, all’interno della società civile, delle forze necessarie per conquistare lo Stato, ma a tale scopo occorre prima ottenere l’egemonia nella società civile: di qui l’importanza degli intellettuali organici alla classe, di cui il partito rappresenta la punta avanzata. Gramsci ritiene che già Lenin avesse elaborato la teoria dell’egemonia, rivalutando ‘ il fronte della vita culturale ‘, cioò l’importanza del momento sovrastrutturale. L’egemonia politico-culturale, all’interno di una società , è conseguente alla formazione di quello che Gramsci, mutuando l’espressione da Sorel, definisce blocco storico: in esso le forze materiali sono il contenuto, mentre le ideologie sono la forma; grazie alle ideologie le forze materiali possono essere comprese nella loro specificità storica, mentre senza forze materiali le ideologie sarebbero solo vuote astrazioni. L’elemento popolare, infatti, ‘sente’, ma non sempre comprende e sa; l’elemento intellettuale, invece, ‘sa’, ma non sempre ‘sente’. L’errore dell’intellettuale sta nel ‘ credere che si possa sapere ‘ senza sentire ed essere appassionato, cioò nel credere di poter essere un intellettuale staccato dalle concezioni del mondo e dalle passioni del popolo-nazione: si tratta invece di saper spiegare storicamente e collegare queste visioni del mondo, e le passioni ad esse annesse, a una visione del mondo elaborata scientificamente. Gramsci ò convinto che ‘ La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare ò contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia ‘ ed ò altresì convinto che l’attività pratica e quella intellettuale siano indisgiungibili: ‘ Non c’ò attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, ò cioò un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioò a suscitare nuovi modi di pensare. ‘. Se non avviene il collegamento delle visioni del mondo alla visione scientifica, gli intellettuali si trasformano in una casta o in un sacerdozio; quando, invece, si realizza un’unità organica, si costituisce una nuova forza sociale, un nuovo blocco storico. La politica è il momento di saldatura fra la filosofia, elaborata dagli intellettuali, e il senso comune. La filosofia in grado di fornire la teoria necessaria alla costituzione del nuovo blocco storico, incentrato sulla classe operaia e sull’alleanza coi contadini (da qui lo stemma del Partito Comunista: la falce dei contadini e il martello degli operai), è la filosofia della prassi, cioò il marxismo. Contro la tendenza oggettivistica a fare della dialettica un principio esplicativo sia della natura sia della storia, Gramsci rivendica l’irriducibilità del sapere sociale a quello naturale. La prassi comprende sia la globalità dell’azione umana nel mondo sia la trasformazione rivoluzionaria della realtà . Proprio la tensione rivoluzionaria permette la comprensione dei meccanismi di dominio e dei rapporti tra le classi sociali, nella cui indagine si delinea il pensiero storico e politico di Gramsci. Questo si concentra nella concezione del partito operaio come intellettuale collettivo, erede del compito di unificazione sociale rimasto incompiuto nel Risorgimento; e Gramsci scrive un’opera intitolata proprio ‘Il Risorgimento’: in essa vengono criticamente analizzati i risultati dei moti che portarono all’unita’ d’Italia e se ne denunciano i limiti proprio nella mancata attuazione di una rivoluzione che unisca la borghesia e il proletariato urbano alle campagne. Ad avviso di Gramsci, però, l’egemonia culturale in Italia è rappresentata dalla filosofia di Benedetto Croce, intellettuale organico al blocco storico dominato dalla borghesia. Nei confront i di Croce, egli intendeva in qualche modo compiere l’operazione di rovesciamento compiuta da Marx nei confronti di Hegel. La differenza, però, sta nel fatto che Croce è venuto dopo Marx: gran parte della sua filosofia, infatti, non è che un tentativo, ad avviso di Gramsci, di riassorbire il marxismo e subordinarlo all’idealismo. Individuando la centralità della storia etico-politica, Croce riconosce l’importanza del movimento sovrastrutturale dell’egemonia e, in questo senso, permette di sfuggire alle interpretazioni materialistiche, economicistiche e deterministiche del marxismo. La filosofia della prassi, facendo della concezione crociana della storia etico-politica un canone di ricerca empirica, può fare storia globale, non puramente parziale, cioò solo economica o solo etico-politica. In questo modo, essa si può configurare come vero e proprio storicismo, mentre quello crociano, parlando dello spirito e delle sue attività , rimane ancora imprigionato nelle maglie del linguaggio speculativo e teologico. Come storicismo coerente, la filosofia della prassi può perfino giungere alla conclusione di essere essa stessa un momento storico meramente transitorio, vincolato ad una fase della società , di cui essa esprime coscientemente le contraddizioni. Col passaggio al regno della libertà , cioò al comunismo, è prevedibile che anche la filosofia della prassi arrivi al tramonto per lasciar spazio a nuove forme di pensiero, non più originate dalle contraddizioni, ormai inesistenti nella nuova società comunista, caratterizzata dalla libertà e dall’uguaglianza. Nei Quaderni del carcere Gramsci parla di ‘ cesarismo ‘, riferendosi ad un conflitto in cui le due parti interessate sono in equilibrio, tanto che la situazione può solo risolversi con una distruzione reciproca: ‘ Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioò si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca nè A nè B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte del Magnifico ò appunto successo questo, com’era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche. Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione “arbitrale”, affidata a una grande personalità , di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. à progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; ò regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica rivoluzione-restaurazione ò l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poichè ò certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in toto. Del resto il cesarismo ò una formula polemico- ideologica e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità “eroica e rappresentativa”. Il sistema parlamentare ha dato anch’esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. ‘ Il vero nemico contro cui muovere guerra diventa allora l’ indifferenza: ‘ l’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, ò la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perchò inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica ‘. Il pensiero di Gramsci, dove ideologia, filosofia e prassi politica trovavano una profonda unità , era volto verso la comprensione della reale situazione italiana dell’epoca e nella certezza della possibilità di trasformarla in senso socialista. Gramsci considerava il fascismo come punto massimo di crisi della società borghese (fascismo= massima espressione della dittatura del capitale), poichè alla classe dominante, cui era sfuggita l’egemonia sociale, intellettuale e morale, per la perdita del consenso delle masse, rimaneva solo la forza coercitiva. La valorizzazione del concetto di cultura, non più vista come fatto aristocratico, ma come mezzo per acquistare consapevolezza della realtà , portò Gramsci a elaborare la nozione di “organizzazione della cultura” che metteva in luce la necessità di esplicare rapporti profondi fra organizzazione economico-sociale e visione del mondo, fra lotta di classe e scoperta scientifica e artistica. La convinzione che la cultura aveva le sue radici nel terreno storico-pratico nel quale era contenuta e che quindi vi era identità tra filosofia e storia, lo indusse a polemizzare con l’idealismo di Croce, visto in funzione ideologica di conservazione borghese, e a individuare la funzione del nuovo intellettuale nella società contemporanea come portatore ed elaboratore professionale dell’ideologia del “blocco storico”, cioò della forza politica formata dall’unione di una classe con classi o gruppi alleati, di cui egli stesso era espressione. La straordinaria varietà dei suoi interessi, che lo hanno portato dall’esame della storia d’Italia e del Risorgimento alla teoria di uno Stato socialista e del partito che, “moderno principe”, doveva promuoverne la realizzazione, ha fatto sì che nel pensiero gramsciano fosse presente gran parte della problematica politico- culturale del secondo dopoguerra. Abbiamo già accennato all’interesse che Gramsci nutre per il Machiavelli quando arriva a dire che i partiti sono come il principe illustrato dal pensatore toscano: Gramsci è anche autore di un ‘ Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno ‘, in cui vengono rovesciate le interpretazioni allora ricorrenti di un Machiavelli precursore dello stato fascista. Gramsci, non senza forzature, vede nel grande politico fiorentino un anticipatore del giacobinismo. Nei quaderni gramsciani il partito stesso assume il ruolo di un “Principe” dominatore e totalitario, quale neppure Machiavelli aveva mai disegnato: ” Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’ imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. ” (Quaderni del carcere) Il partito-Principe si trovava al vertice della piramide sociale e politica del nuovo mondo immaginato da Gramsci. Ma il partito era costituito dagli intellettuali. Essi sarebbero stati il Principe della società rinnovata. ” Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’ affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi [… ] non ò ciò che importa: importa la funzione che ò direttiva e organizzativa, cioò educativa, cioò intellettuale ” (Quaderni del carcere). Rifuggendo dalle individualistiche torri di avorio, gli intellettuali dovevano immergersi nella vita pratica e trasformarsi in “dirigenti organici di partito”, dovevano diventare insomma “intellettuali organici” come si ripetè tanto spesso nei tempi in cui le idee di Gramsci imperavano. La classe operaia, teoricamente posta al centro della storia, non possedeva la capacità di emanciparsi da sola, come già aveva dimostrato Lenin con il suo âpartito di quadriâ. Per affrancarsi dallo sfruttamento capitalistico aveva bisogno del partito e dunque degli “intellettuali organici”. Da sola, sarebbe rimasta un corpo privo di testa. ” L’innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una èlite ” (Quaderni del carcere). Ecco una delle ragioni per le quali il Partito comunista ebbe sempre tanto successo fra gli intellettuali: prometteva di risolvere il problema della civiltà nuova affidando proprio a loro posizioni di prestigio e di comando di gran lunga superiori a quelle che essi avevano mai raggiunte nel passato. Gramsci, come accennato con la teoria dellâ egemonia, riduceva la democrazia a un meccanismo “molecolare” di mobilità sociale, a un mero rinsanguamento del gruppo dirigente con elementi provenienti dai gruppi diretti: ” Tra i tanti significati di democrazia quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’ economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente ” (Quaderni del carcere). Non vi son dubbi sul fatto che il pensiero di Gramsci fosse innovativo nei confronti del leninismo e dello stesso marxismo, proprio perchè poneva in primo piano i valori politici della cultura.: ” Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’ egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella valorizzazione del fatto culturale, dell’ attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici ” (Quaderni del carcere). Tuttavia questa valorizzazione dei fatti culturali era posta al servizio di un disegno politico molto lontano dalla democrazia liberale. Ed ò sintomatico, a questo proposito, che un comunista come Luciano Gruppi, nel 1976, arrivasse ad ammettere che, restando fedeli al disegno gramsciano, non si poteva arrivare al “pluralismo”. Luciano Pellicani, lo studioso che forse più di ogni altro ci ha aiutati a comprendere i limiti di Gramsci, ha sostenuto che restandogli fedeli non soltanto non si poteva arrivare al pluralismo, ma si giungeva addirittura al totalitarismo ecclesiale, vale a dire al monolitismo politico, economico e culturale, l’ esatto contrario della società aperta scaturita dal processo di secolarizzazione. Il comunismo ò stato una dei più potenti movimenti politico-religiosi di tutti i tempi e Gramsci non si pose mai al di fuori di esso, contribuendo viceversa a irrobustirne le tendenze messianiche. Per spiegarcelo dobbiamo ricorrere a una spiegazione storica, questa volta legata alla grande crisi spirituale prodottasi nel mondo in seguito alla rivoluzione tecnologica. Stava crollando una grande civiltà , quella agricola, durata ben diecimila anni, e la nuova civiltà tecnologica appariva ancora informe, immatura, incapace di sostituirsi all’ antica. Si attendeva insomma il messia dei tempi nuovi. I terribili strumenti della prima guerra mondiale, dai gas asfissianti agli aereoplani, avevano per di più svelato come anche il progresso tecnologico possedesse un volto demoniaco, rafforzando di molto le attese messianiche indirizzate verso l’ instaurazione di un ordine nuovo, capace di riportare armonia nella civiltà in frantumi. Il giovane Gramsci condivise queste attese e, nella tumultuosa città di Torino, uscì dal suo isolamento di studente sardo, povero, infelice, stringendo legami di amicizia e di partito con tanti altri che, come lui, erano animati da queste eccitanti speranze. Il comunismo avrebbe interpretato la svolta epocale sostituendosi al cristianesimo: ” Il Partito ò, nell’ attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo “, ma non certo al fine di perpetuarle. A giudizio di Gramsci il comunismo era anzi ” la religione che doveva ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch’ esso ò una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perchè ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell’ uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale ” (Sotto la mole). In campo estetico-letterario, la tesi centrale di Gramsci ò stata l’affermazione del nesso inscindibile che deve unire lo scrittore al popolo, delle cui esigenze materiali e spirituali egli deve farsi interprete (concetto di “intellettuale organico”). Di qui la polemica contro il cosmopolitismo, dovuto all’influsso esercitato dalla Chiesa sulla formazione degli intellettuali italiani, e contro l’apoliticismo, tara storica della cultura italiana dal Rinascimento in avanti; e la duplice, correlativa negazione sia di un’arte cosmica, ispirata ai valori astratti dell’umanità , sia di un’arte pura e individuale, che non si può giustificare, dal momento che i fatti artistici non si producono per partenogenesi, ma “con l’intervento dell’elemento maschile che ò dato dalla storia”. La letteratura, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere nazionale-popolare, cioò operare una sintesi tra la componente culturale indigena (la “nazione”) e le esigenze di conoscenza che vengono dagli strati subalterni (il “popolo”). In questa prospettiva si colloca l’auspicato ritorno a De Sanctis, che Gramsci considerava come il più valido esponente della cultura della borghesia nazionale nella sua fase progressiva, mentre Croce ne rappresentava la fase difensiva e conservatrice. Gramsci scrive: â Il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi ò offerto dal de Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioò per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo â. E bellissimi, dal punto di vista letterario, sono i Quaderni del carcere, in cui Gramsci affronta in forma frammentaria, ma con rigoroso metodo marxista, alcuni fondamentali temi della storia italiana come quello degli intellettuali attivamente impegnati nel dibattito politico e culturale, delle carenze del partito d’azione e dei caratteri della letteratura nazional-popolare. Egli fa inoltre una scrupolosa opera di informazione sull’ evolversi della rivoluzione bolscevica in Russia e di sostegno dello stesso movimento. âBisogna impedire a questo cervello di funzionareâ aveva detto Mussolini a proposito di Gramsci e ne aveva ordinato lâarresto e la reclusione; ma con i 32 Quaderni del carcere, in cui, nellâodissea di indicibili sofferenze che lo distrussero nel fisico, era venuto affidando alla scrittura minuta e precisa il frutto delle sue meditazioni (fortunosamente salvati dalla cognata Tatiana Schucht) proponevano alla commossa ammirazione degli uomini di ogni fede una straordinaria testimonianza di consapevolezza storica e di forza morale, un inestimabile patrimonio spirituale, un grande tesoro di cultura; Mussolini si era sbagliato: sì, perchè in carcere il cervello di Gramsci funzionò come non mai, con spirito critico degno di un acuto osservatore e di uno spirito caparbio e tenace. Le ‘Lettere dal carcere’ sono poi uno dei più splendidi e commoventi epistolari della nostra letteratura, hanno messo in luce le qualità di scrittore di Gramsci, la sua intensa umanità , lo straordinario equilibrio con cui seppe affrontare le sofferenze del carcere, che, anche se insostenibili, egli affrontò con cuore sereno: ‘ il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese per non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà ‘. Anche nella triste e tetra solitudine del carcere egli seppe mantenere la forza e la costanza, senza rinunciare ai suoi ideali, che non stentano a trasparire nelle lettere inviate a familiari e amici: in una lettera al primogenito Delio, lasciato ancora infante, egli scrive: â Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età , perchè riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini ò possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa â. Sognare ad occhi aperti o fantasticare per Gramsci ò inutile, ò prova di mancanza di carattere e di passività : â occorre invece violentemente attirare lâattenzione nel presente così comâò, se si vuole trasformarlo â. Gramsci, oltre che di filosofia e di politica, si interessò anche di letteratura e, tra le sue tante riflessioni in merito, ò doveroso ricordare quella su âI promessi sposiâ di Manzoni: in Letteratura nazionale, dopo aver preso in esame il termine di âumiliâ, Gramsci esamina i seguenti caratteri della posizione del Manzoni nei loro confronti. 1) Lo scrittore lombardo assume un atteggiamento di âcompatimentoâ scherzoso verso di loro, mostrando â condiscendente benevolenza, non medesimezza umana â (a differenza di quanto accade in Tolstoij), un senso di distanza e un â distacco sentimentale â. 29 Nega loro â vita interiore â, riservandola solo ai potenti, ai colti e ai ricchi: a fare riflessioni profonde sono solo personaggi del calibro dellâ Innominato o di Don Rodrigo, non certo gli umili come Agnese, Lucia o Perpetua. 3) La sua opera ò priva di â spirito nazional-popolare âe nutrita invece di classicismo distaccato e aulico. 4) Il popolo non ò voce di Dio, come in Tolstoij, poichè per il cattolico Manzoni ò la mediazione della Chiesa a rappresentare lâ unico interprete possibile della parola divina.
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