Riassunto della filosofia di Fichte - Studentville

Riassunto della filosofia di Fichte

Riassunto del pensiero dei Fichte.

Il primo della triade dei tre grandi idealisti ò Fichte, e riflettendo sulla sua posizione filosofica Hegel la definirà  come una sorta di idealismo soggettivo. Fichte esordisce sulla scena filosofica come seguace di Kant, delle cui teorie si professa propugnatore: a dimostrazione del suo tentativo di rifarsi a Kant si può ricordare un episodio interessante. Fichte pubblicò anonimamente un testo che, per le evidenti vicinanze al pensiero kantiano, fu scambiato dal pubblico per un testo scritto dallo stesso Kant, il quale dovette intervenire per spiegare che quel testo non era suo e per fare comunque degli apprezzamenti positivi su di esso. Partito da posizioni kantiane, però, Fichte muterà  rapidamente il proprio pensiero, giungendo all’idealismo soggettivo, dal quale poi si allontanerà . E’ interessante il fatto che Fichte abbia preso parte alla polemica sull’ateismo: subì una pesante critica per via della pubblicazione di un’opera, di forte sapore kantiano, in cui finiva per identificare Dio con l’ordine morale del mondo. Si tratta di una prospettiva evidentemente kantiana, in cui la religione ò derivata dalla morale: Dio esiste per l’uomo nella misura in cui egli ha l’esperienza morale, poichò senza Dio il mondo sarebbe moralmente disordinato. In molti han notato che vi ò nel cristianesimo una perenne evoluzione, un continuo passaggio da ciò che Dio ò in sò a ciò che Dio ò per noi: Lutero stesso si interessava non tanto di Dio in sò, quanto piuttosto di Cristo, ovvero di Dio come ci appare; con Kant stesso si va in quella direzione, in quanto il Dio da lui (e dal Fichte dello scritto citato poc’anzi) riconosciuto ò il garante dell’ordine morale del mondo. Ora, ò evidente che identificando Dio con l’ordine morale del mondo si può facilmente essere accusati di ateismo: e fu questo che capitò a Fichte. Tuttavia, la posizione centrale del pensiero di Fichte ò quella etica, che costituisce il centro della sua riflessione: ed ò, tra l’altro, l’aspetto per cui poteva considerarsi allievo fedele di Kant. Tuttavia, Kant si accorse che Fichte si stava sempre più discostando dal suo pensiero e sostenne che la sua intelligenza avrebbe meritato di essere impegnata su terreni migliori di quelli su cui stava camminando, avvolti dalle nebbie della metafisica. Pur discostandosi da Kant e imboccando la via dell’idealismo, Fichte resta kantiano nello spirito riconoscendo il primato della ragion pratica, quella che anche per Kant valeva più di ogni cosa perchò la volontà  buona era l’unico elemento buono di per sò e perchò essa permetteva di sapere cose inconoscibili (Dio e l’immortalità  dell’anima). La celebre triade degli idealisti ò costituita da Fichte, Schelling e Hegel: essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicchò la parabola discendente dei primi due ò molto rapida, poichò di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà  surclassato dall’appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà  fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà  in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro ò declinato, l’esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: ò interessante, perchò il periodo che segue alla filosofia kantiana ò caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l’intelletto, ovvero contro la facoltà  conoscitiva del finito; in età  romantica, dove ò particolarmente sentita la ricerca dell’infinito, all’intelletto, che era la facoltà  preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà  di cogliere l’infinito, l’assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà  chi rifiuterà  sia l’intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà  poi chi, come Hegel, riconoscerà  l’inferiorità  dell’intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà  interamente ad essa. Il rischio della critica all’intelletto ò, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità  conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà  anti-intellettualistica, ma non tutta sarà  anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finchò all’intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell’indagine razionale; se però, oltre a criticare l’intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell’ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità . Tornando ai tre idealisti, l’unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, ò Hegel (la sua scala gerarchica sarà  1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà  il privilegiamento della religione, Schelling dell’arte. In questi due pensatori ò come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all’arte (Schelling). Detto questo, Fichte ritiene che il grande merito di Kant sia stato quello di aver spalancato le porte all’individuazione di un unico principio assolutamente primo e indeterminato da cui tutto deriva: certo Kant non ha esplicitato l’idea fino in fondo, dice Fichte ritenendosi più kantiano di Kant stesso, eppure se nella gnoseologia tradizionale soggetto e oggetto avevano pari peso, ebbene Kant ha maestralmente riconosciuto maggiore importanza al soggetto, il quale autoproietta le sue leggi nella natura (rivoluzione copernicana). Kant non ha però avuto il coraggio di compiere fino in fondo il passo decisivo di rottura con il passato e ha mantenuto un oggetto (la cosa in sò) esistente indipendentemente dal soggetto. Ora Fichte elimina del tutto la cosa in sò, che a suo avviso ò un assurdo residuo mentale privo di significato. Effettuando tale eliminazione (peraltro già  iniziata nel Kant della vecchiaia), Fichte può procedere alla costruzione di un sistema della scienza unitario, spiegando l’intera realtà  con un unico principio (e non più con due): il soggetto. Se per Kant il mondo altro non era che l’unione costante di soggetto e oggetto attraverso le forme del pensiero, ora per Fichte ò uno solo il princìpio necessario per spiegare la realtà . Il che permette di spiegare l’intero sistema della realtà  con quell’unico principio esistente: il sapere che ne deriva Fichte lo definisce dottrina della scienza, espressione che dà  il titolo, con qualche variazione a seconda dei casi, a gran parte delle opere fichteane. Da notare che l’espressione ‘dottrina della scienza’ ò affine a quella kantiana ‘riflessione trascendentale’, con la grande differenza, però, che in Fichte non vi ò una cosa in sò esistente autonomamente; questo implica che, a differenza della prospettiva kantiana avente le due diverse fonti conoscitive della forma (soggetto ) e del contenuto (l’oggetto), nell’idealismo fichteano l’unica fonte conoscitiva ò il soggetto, il quale sarà  sì all’origine della forma della conoscenza (come in Kant), ma sarà  anche all’origine del contenuto. Non avremo più, come invece era in Kant, un soggetto che riceve dati dalle inconoscibili cose in sò, li riorganizza secondo le sue forme mentali e ottiene la conoscenza; al contrario, ci sarà  il soggetto che organizza formalmente i contenuti che non derivano da presunte cose in sò, ma che lui stesso si crea dal nulla con un’attività  produttiva. Ne consegue che le sensazioni stesse non derivano più dall’oggetto, ma dal soggetto stesso; in parole povere, sia la materia sia la forma della conoscenza derivano dal soggetto. Come mai in quest’epoca si predilige la ragione (facoltà  che aspira a cogliere l’infinito) all’intelletto (facoltà  che aspira a cogliere il finito)? Finchò ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà  (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà  che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell’intelletto) perchò vi sarà  pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l’oggetto dentro di sò, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l’inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà  possibile solo una conoscenza finita e l’intelletto sarà  lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa Fichte, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioò non organizza con le forme materiale che riceve dall’esterno), allora il mondo che vedo ò un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l’intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. Si capisce allora benissimo perchò si passa dal privilegiamento dell’intelletto a quello della ragione: produco l’oggetto e, proprio per questo, lo posso conoscere infinitamente, senza limiti, tant’ò che Fichte dice che, vedendo le cose in questa prospettiva in cui tutto deriva da un unico principio, non ci sarà  più la filosofia, bensì ci sarà  la scienza (Dottrina della scienza). ‘Filosofia’ ( filoV amante + sofia sapere ) significa amare il sapere ( sofia ) di cui si ò sprovvisti e che solo Dio ha, dicevano gli antichi; ora, eliminata la cosa in sò, l’uomo, divenuto produttore degli oggetti, non si limita ad amare e ad aspirare alla sofia, ma la possiede lui stesso, ha la scienza. Ecco dunque che il soggetto diventa capace di cogliere la totalità  da Kant dichiarata incoglibile. E’ dunque il soggetto a produrre l’ oggetto: ed ò per questo che si parla di idealismo soggettivo, a sottolineare che l’identità  tra soggetto e oggetto, perno dell’idealismo, si fonda sul fatto che il soggetto pone l’oggetto. Si tratta di un idealismo perchò vi ò identità  tra soggetto ed oggetto ed ò un idealismo soggettivo perchò ò il soggetto appunto a porre l’oggetto. Ne consegue che prima che il soggetto ponga l’oggetto, solo il soggetto esiste assolutamente, mentre l’oggetto esiste nella misura in cui viene posto. Ecco perchò l’oggetto altro non ò che il soggetto che tira fuori una parte di sò stesso (l’oggetto) e si identifica con essa. Soffermiamo la nostra attenzione sul soggetto, che può essere visto come la trasformazione dell’ Io penso kantiano. Non a caso Fichte il soggetto lo chiama Io (e non ‘soggetto’), con la i maiuscola a sottolineare che non si tratta dei singoli soggetti empirici, ma di qualcosa di più importante. L’ Io penso di Kant era un soggetto (e non una cosa), era l’attività  unificatrice, l’azione dell’unificare il materiale della conoscenza; per Kant vi era un Io penso identico in tutti gli uomini, tant’ò che le categorie, estrinsecazioni dell’ Io penso appunto, erano uguali in tutti, seppur ognuno aveva le sue. Ora in Fichte, non essendoci più la cosa in sò, l’attività  dell’ Io penso non può essere un’attività  unificatrice di un materiale dato proprio perchò non esiste più un materiale dato dalla presunta cosa in sò; l’ Io di Fichte non solo unifica il materiale, ma lo produce anche: pone la forma ma anche il materiale della conoscenza. Pensare in Kant significava unificare e l’ Io penso si chiamava così proprio perchò unificava; ora in Fichte esso non solo unifica, ma pone anche il materiale, dunque non può essere chiamato Io penso e Fichte preferisce definirlo semplicemente Io. In assenza di un oggetto autonomo, poi, tutta la dimensione empirica viene meno e risulta essere un puro e semplice derivato dal soggetto, il che vuol dire che il carattere di molteplicità  del mondo empirico non ò caratteristica dell’Io: la molteplicità  nasce con la dimensione empirica (la quale non ò autonoma) con la conseguenza che il soggetto (l’ Io), oltre a dare forma e contenuto, ò privo di molteplicità . Riassumendo quanto detto: L’Io dà  forma e contenuto alla conoscenza. L’ Io non ò identico in tutti gli uomini, ma ò uno solo in assoluto. Ecco dunque che l’Io non ò riconducibile ai singoli io empirici, non si identifica con ciascuno di noi, bensì ò uno solo. Ma, in definitiva, che cosa ò l’Io? Esso non ò una cosa, bensì ò un’azione o, meglio, per usare le parole di Fichte, ò un atto, un unico atto che pone non solo la forma ma anche la materia dell’oggetto. Come agisce l’Io penso? L’azione dell’Io ò triplice e si esprime nei tre princìpi: Il primo principio, ovvero il primo atto dell’Io ò la tesi, ovvero la posizione, il porre qualcosa (dal greco tiqhmi, pongo ). Il secondo principio, ovvero il secondo atto dell’Io ò l’ antitesi, la contrapposizione, il contrapporre qualcosa (dal greco antitiqhmi, pongo contro ). Il terzo principio, ovvero il terzo atto dell’Io ò la sintesi, la composizione, l’atto del comporre (dal greco suntiqhmi, pongo insieme ). Sullo sfondo vi ò il neoplatonismo (con la sua concezione della realtà  che emana dall’Uno) e il cristianesimo, sul quale Fichte insisterà  soprattutto in età  avanzata: tesi, antitesi e sintesi sono l’equivalente del Padre (soggetto in sò), del Figlio (il soggetto che pone l’oggetto) e dello Spirito Santo (il legame che intercorre tra Figlio e Padre). In base ai 3 princìpi appena esposti, dunque, l’Io compie tre azioni: pone se stesso; poi all’Io ò opposto assolutamente un non-Io (ovvero ò l’Io, attore del processo, che contrappone a se stesso un non-Io) e, infine, all’interno dell’Io, l’Io oppone all’Io divisibile un non-Io divisibile. I 3 princìpi di Fichte li si trovano, per la prima volta, già  nell’antico Parmenide e, in un secondo tempo, in Aristotele: essi costituivano per lo Stagirita i princìpi della logica, identità  (A ò uguale ad A), non- contradditorietà  (A non ò B) e principio del terzo escluso (A o ò A o non ò A). Tuttavia per Aristotele al posto di A si poteva sostituire qualsiasi cosa, ovvero si esprimeva il principio di identità  prescindendo dal contenuto e badando solo alla forma: supposto che mi sia dato qualcosa, questo qualcosa sarà  necessariamente identico a se stesso. Veniva cioò dato per scontato che qualcosa ci fosse. Fichte, invece, non dice che A ò uguale ad A, bensì asserisce che l’Io ò uguale all’Io (identità ), che l’Io ò diverso dal non-Io (non-contraddizione): la differenza ò che il principio come lo poneva Aristotele era puramente formale, mentre Fichte, oltre a spiegare che se ò dato qualcosa per esso valgono necessariamente le leggi della logica, spiega anche che necessariamente ci ò dato qualcosa: l’Io pone se stesso, la sua attività  non ò solo formale, bensì ò anche sostanziale. Fichte stabilisce che l’Io ò uguale a se stesso ma anche che l’Io pone se stesso. Vi ò sì una formulazione dei princìpi della logica, ma essa ò rivestita di carattere anche materiale. Il primo atto dell’Io ò una posizione, una tesi. Il secondo atto consiste nel porre contro se stesso un non-Io, un non-soggetto, ovvero un oggetto. Con il primo principio dunque Fichte dice che l’Io pone se stesso, con il secondo dice invece che l’Io pone l’oggetto (non-Io). Con il terzo principio invece spiega che l’Io ha opposto a sò un non-Io; l’Io, essendo puramente un atto, ò anche uno sforzo, uno slancio infinito: infinito perchò non ha ancora nulla fuori di sò e, di conseguenza, uno slancio dove non ò ancora stato posto nulla non può che essere infinito. Bisogna però rispondere ad una domanda non da poco: perchò l’Io oppone a sò un non-Io? Nel momento in cui contrappone a sò un non-Io, Io e non-Io si limitano a vicenda, lo spirito e la natura si limitano e in virtù di tale ‘lotta’ nessuno dei due ò infinito. Si frantumano, si finitizzano a vicenda con l’inevitabile conseguenza che ciascuno di loro si spezzetta moltiplicandosi. Ecco dunque che con il 3° principio Fichte precisa che con l’opposizione Io e non-Io diventano divisibili, senza però che tale processo esca dall’interno dell’Io: si tratta, per così dire, di un gioco tutto interno all’Io. Il non-Io (oggetto) diventa divisibile dando origine al mondo e alla sua molteplicità ; l’Io, frantumandosi, dà  origine ai singoli io empirici e finiti, ai soggetti molteplici, ovvero ai singoli uomini. Ecco dunque che si spiega la derivazione dei tanti io dall’unico Io assoluto e infinito. L’Io ò dunque per Fichte un soggetto unico e infinito, mentre gli io empirici sono manifestazioni particolari e finite dell’Io assoluto, definito anche, sulla scia di Kant, Io trascendentale. Lo chiama anche egoità  per insistere sul fatto che non si tratta dell’io come individualità , ma ò il soggetto nella sua concezione più astratta. Che rapporto c’ò, dunque, tra soggetto e oggetto? Si tratta di un rapporto di duplice natura che ricorda molto la distinzione kantiana tra ragion pratica e ragion pura: infatti, da un lato, il soggetto determina l’oggetto (attività  etica), dall’altro lato, l’oggetto determina il soggetto (attività  teoretica). Per quel che riguarda la funzione conoscitiva, Fichte distingue tra immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva. In primis vi ò dunque una produzione originaria ed inconsapevole in cui il soggetto pone l’oggetto (2° principio) con l’ immaginazione produttiva: ò un atto inconsapevole, e non potrebbe essere altrimenti, sennò non si spiegherebbe perchò, appena nati, non riconosciamo che il mondo, il non-Io, non ha esistenza autonoma ma siamo noi a porlo e siamo convinti che esso esista indipendentemente da noi. Vi ò poi la immaginazione riproduttiva, attraverso la quale riconosciamo come nostra produzione quel che abbiamo inconsapevolmente posto (il non-Io). Resta da chiarire perchò sia una posizione inconsapevole e si faccia fatica a capire che l’oggetto ò una produzione del soggetto: tutto si spiega se teniamo presente che l’io empirico e finito deve riconoscere un qualcosa che non ha posto lui, ma che ò stato posto dall’Io assoluto (di cui l’io empirico ò manifestazione). L’io empirico ha difficoltà  a riconoscere l’oggetto come suo prodotto proprio perchò, paradossalmente, non l’ha prodotto lui, bensì l’ha prodotto l’Io. Ecco perchò, a livello conoscitivo, il mondo ce lo troviamo già  costruito e siamo convinti che sia indipendente da noi, anche se le cose non stanno così. Per capire che il non-Io ò una nostra produzione entra in gioco l’ intuizione intellettuale, che Kant aveva radicalmente respinto (poichò convinto che fosse impossibile cogliere la realtà  meta-fenomenica). Fichte ammette l’intuizione intellettuale proprio perchò per lui non esiste alcuna cosa in sò, non vi sono limiti esterni alla conoscenza: il potere dell’Io diventa assoluto e, se ben usato, si può capire, con un’intuizione intellettuale, che l’oggetto ò stato posto dal soggetto. Ma tutto questo perchò avviene? La risposta risiede nell’attività  etica, fondamentale nella filosofia di Fichte. Il suo, infatti, ò un idealismo soggettivo, ma ò anche un idealismo etico e in questo rapporto privilegiato con l’etica si vede come Fichte resti fedele a Kant. L’ Io ò uno slancio verso l’infinito, un’attività  che può dunque configurarsi come libertà  poichò si dice infinito ciò che non può avere confini e costrizioni esterne. Essendo dunque uno slancio per sua natura infinito e libero, il suo scopo ò la realizzazione all’infinito della libertà . Il modo in cui esso avviene lo si può accostare alla potenza di un corso d’acqua che, per poter esprimere tutta la propria forza, deve essere incanalato altrimenti tende a stagnare: proprio come il corso d’acqua, anche l’Io penso, per potersi realizzare, ha bisogno di argini, ovvero di ostacoli, altrimenti sarebbe indefinito (e non infinito) e si disperderebbe come l’acqua del ruscello privo di argini. Tuttavia li ostacoli non li può trovare fuori di sò, poichò non esiste nulla oltre a lui stesso: non avendoli, li crea lui stesso e dà  origine al non-Io, al mondo. Il non-Io ò dunque l’ostacolo che l’Io si pone per potersi realizzare nel successivo superamento di tale ostacolo. Il che spiega anche il perchò la posizione del non-Io da parte dell’Io sia un atto inconscio: l’Io non deve sapere che gli ostacoli (la realtà ) in cui si imbatte se li ò posti lui stesso, sennò sarebbero dei finti ostacoli, privi di ogni significato. Quindi, l’Io pone gli ostacoli (non-Io) in modo inconscio, in modo tale da superarli come se fossero dei veri ostacoli autonomi. Si tratta di uno sforzo etico, un tentativo di cambiare la realtà  riassorbendone tutte le molteplici contraddizioni: ò l’Io che prova a riassorbire dentro di sò il non-Io. E’ una concezione, anche questa, di remota ascendenza neoplatonica (la realtà  deve ritornare all’Uno) e cristiana (l’amore unisce il Padre e il Figlio): vi ò prima una rottura e poi una ricomposizione. Con l’attività  teoretica quel che ò prodotto inconsciamente viene poi riconosciuto come prodotto dell’Io, con un assorbimento dell’intera realtà  nell’Io stesso. Con l’attività  etica si compie la stessa cosa, recuperando ciò che si ò frantumato in una miriade di pezzi (la realtà ). L’affinità  con Kant risulta notevole anche nell’indefinitezza dello sforzo: come le idee kantiane, anche lo sforzo dell’Io di riassorbire la realtà , si accorge Fichte, non può mai essere completato, sennò verrebbero meno l’attività  dell’Io e la sua libertà , la quale si estrinseca nell’aver ostacoli da superare. Ne consegue che l’attività  etica e teoretica dell’Io ò rappresentabile con una semiretta, ovvero ha un inizio ma non una fine, prosegue cioò all’infinito. Tuttavia, Hegel criticherà  Fichte, biasimandone il cattivo infinito. Anche Hegel aspira all’infinito, ma non apprezza quello di Fichte: il Romanticismo ò sì cultura dell’infinito, ma anche della totalità . Ora, pur essendo presente la sfera dell’infinito, in Fichte manca quella della totalità  e, anche in questo, ò ancora una volta vicino a Kant (le idee kantiane erano infinite ma costruibili parzialmente): Fichte parla sì di uno slancio infinito, ma tale slancio non si realizza mai nella sua totalità , resta parziale. In questa prospettiva etica, il male non ò nient’altro che l’inerzia: se la natura dell’Io, infatti, ò essere uno slancio infinito, un’attività  libera, il peccato più grande che si possa commettere ò l’inerzia, il non agire, il non seguire le istanze di movimento infinito dell’Io. E in questa concezione si possono scorgere gli elementi tipici del titanismo romantico (Hà¶lderlin, in una lettera a Hegel, scrive che ‘ Fichte ò un titano che lotta per l’umanità  ‘), del principio soggettivo che si espande all’infinito. Finora abbiamo esaminato il pensiero del Fichte classico, ma egli, ormai surclassato da Schelling, elabora ulteriori riflessioni particolarmente interessanti perchò portano la sua filosofia a naufragare in una deriva religiosa. Tale periodo va sotto il nome di Filosofia dell’Assoluto ed ò appunto caratterizzato da un abbandono totale alla dimensione religiosa, sebbene Fichte ci tenga a specificare che non vi ò mai stata una svolta radicale nel suo pensiero: l’abbandono alla religione non ò una rinuncia alle sue posizioni filosofiche, bensì l’inevitabile conseguenza di esse, sicchò non vi ò rottura col passato ma continuazione. Pur essendo prossimo al neoplatonismo e al cristianesimo, ò pur vero che permane in Fichte un elemento di distacco da essi: certo, per alcuni versi l’Io ò accostabile a Dio, però la grande differenza ò che Dio ò una cosa (l’essere supremo), l’Io ò un’attività  (uno slancio infinito). Il discorso che Fichte ha finora imbandito tende a stravolgere il comune modo di pensare, secondo cui prima vi sono le cose e poi le azioni da esse compiute: in Fichte, al contrario, prima c’ò l’atto (l’Io) e poi da esso derivano le cose (il non-Io). Egli ha sempre sostenuto che ‘ la scelta di una filosofia dipende da quel che si ò come uomo, perchè un sistema filosofico non ò un’inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma ò animato dallo spirito dell’uomo che lo fa suo. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù spirituale non potrà  mai elevarsi all’idealismo ‘: e infatti Fichte ha contrapposto all’idealismo (prima gli atti, poi le cose) il materialismo (prima le cose, poi gli atti); la filosofia di cui ci facciamo portavoci dipende dalle persone che siamo nel senso che si può essere liberi e attivi solo se si ò disposti a riconoscere che il fondamento della realtà  non ò un insieme di cose (come crede il materialismo), ma ò un atto libero, uno slancio infinito; solo così possiamo anche noi essere liberi. Vedere la realtà  come agglomerato di cose (materialismo) porta a tarpare le ali allo spirito. E del resto, l’idealismo presenta un grandissimo vantaggio rispetto al materialismo: può spiegare il suo opposto. Se vediamo la realtà  in termini materialistici non riusciamo in alcun modo a dare una spiegazione della spiritualità  (Hobbes in primis non c’era riuscito), mentre se la vediamo come un libero slancio (in termini idealistici), ecco che possiamo anche dare una spiegazione della realtà  materiale (il non-Io, autocontrapposizione che l’Io si dà ). L’idealismo di Fichte pone al centro la coscienza e vede la realtà  che ci circonda come un’autoillusione che l’Io si pone di fronte per poterla superare e tale idealismo ò superiore sul piano etico (chi ha concezione idealistica ò una persona eticamente migliore) e sul piano teoretico (rende conto anche delle filosofie ad esso opposte, in primis il meccanicismo). Nell’ammettere che l’Io non ò una cosa ed ò superiore a tutte le cose (all’essere in generale) Fichte si avvicina in modo impressionante al neoplatonismo, secondo il quale l’Uno era ad un livello superiore rispetto all’essere; e tuttavia il Fichte della Filosofia dell’Assoluto si rende conto che non ha senso parlare di uno slancio infinito se non si ammette un essere infinito, poichò uno slancio ò infinito se tende verso una realtà  infinita (Dio). Ecco che Fichte si avvicina sempre più alla religione distaccandosi dalla filosofia e, in un certo senso, ha ragione a dire che si tratta semplicemente di una necessaria conseguenza del suo pensiero: infatti l’ammissione di Dio, di una realtà  infinita verso la quale possa tendere lo slancio, non ò altro che un passo successivo del ragionamento filosofico fichteano. L’Io non ò il principio supremo, bensì vi ò un essere supremo ed infinito (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito e assoluto dell’Io. Tuttavia, a ben pensarci, con l’ammissione di una sostanza autonoma che sta a fondamento dello slancio infinito dell’Io, Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione reintroducendo una cosa in sò (Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente sull’inesistenza di cose in sò. Detto questo, il Dio di cui parla Fichte si identifica a tutti gli effetti con quello della tradizione cristiana, tant’ò che l’ultima fase della riflessione fichteana ò anche nota come dottrina giovannea, proprio perchò nel Vangelo di Giovanni si dice che in principio era il Logos, cioò la sapienza, come se essa fosse un rispecchiamento di Dio: la sapienza, per così dire, altro non ò che la mente di Dio. Quanto dice Giovanni corrisponde al pensiero filosofico di Fichte: prima il principio assoluto era la coscienza (l’Io), ora ò subentrato un essere infinito (Dio), che si colloca al vertice della scala gerarchica: il rispecchiamento di Dio per Giovanni era il Logos, per Fichte ò l’Io. Da notare che anche nel neo-platonismo dall’Uno procedeva prima di ogni altra cosa il nouV, ovvero l’intelletto. Il nucleo della questione resta comunque il passaggio di Fichte dall’idealismo etico o soggettivo all’interpretazione religiosa, il che, tra l’altro, si inquadra perfettamente nel panorama romantico: nella foga dello spazzar via l’intelletto illuministico, c’ò chi finisce per spazzar via anche la ragione, e Fichte fa proprio questo. Considerando l’impianto generale della filosofia fichteana, pare evidente che il fine della storia non può che essere la libertà . In concreto, essa si cala nella storia e a questo punto Fichte espone il suo pensiero politico, suddiviso in due fasi: giusnaturalismo organicismo e nazionalismo. Il giusnaturalismo, teoria politica tipicamente seicentesca e settecentesca, consiste nell’ammettere che vi siano diritti naturali e che alla base della società  vi sia un contratto stipulato tra gli individui per creare la società  civile. Questa prima fase del pensiero politico fichteano ò di forte derivazione illuministica e si basa sulla convinzione che a contare davvero sono i singoli individui, dotati di diritti naturali, alcuni inalienabili, altri alienabili: i diritti, almeno in partenza, non sono della società , ma dei singoli individui, i quali danno vita alla società  rinunciando a parte di quei diritti che la natura stessa ha dato loro. Ciò implica che società  e stato si giustificano solo nella misura in cui sono funzionali alle esigenze degli individui. In quest’ottica, non c’ò da stupirsi se Fichte guarda con grande simpatia alla rivoluzione francese in tutti i suoi sviluppi, concependola come la rivendicazione di una libertà  data per natura agli individui ma a loro sottratta dallo Stato. In un secondo tempo, però, Fichte muta radicalmente la sua concezione politica: prima aveva guardato alla società  in un’ottica tipicamente illuministica e, per così dire, meccanicistica, in cui a contare non era il tutto, ma i singoli, proprio come in un orologio a contare per davvero sono i singoli ingranaggi. Ora, invece, si aprono spiragli sul panorama romantico e Fichte arriva a sostenere che, nella società , ciò che conta non sono i singoli, ma la società  nel suo complesso, la quale viene a configurarsi come un grande organismo (organicismo politico) che può vivere solo se tutti gli organi, inutili se non inseriti nel complesso, funzionano; proprio come in un albero le radici e le foglie esistono nella misura in cui esiste l’albero e, anzi, esistono in funzione dell’albero stesso, così gli individui esistono solo se la società  esiste, con l’inevitabile conseguenza che il tutto conta più delle parti. E così, nel 1800, Fichte compone lo scritto Lo Stato commerciale chiuso in cui sostiene, riprendendo idee platoniche, che lo stato ideale deve essere tendenzialmente chiuso e autartico ( commerciale chiuso ); vige l’idea che la vita economica della società  deve essere amministrata dallo Stato, il quale, pur non abolendo la proprietà  privata, deve comunque intervenire fortemente nell’economia (a dispetto di quel che dicevano i liberisti del laissez faire ). Questa concezione del ruolo statale predominante in ambito economico ha destato interesse nei socialisti, anche se sono stati i nazisti a portare Fichte alle stelle (spesso distorcendone il pensiero) soprattutto per quel che riguarda il suo organicismo e il suo nazionalismo. Infatti Fichte anche in ambito politico fa riferimento ad una totalità  che, però, non ò più Dio, bensì ò la nazione: in I discorsi alla nazione tedesca, del 1807, Fichte si rivolge alla nazione, concetto che andava sempre più affermandosi in età  romantica. Importante ò la data dell’opera (1807) perchò proprio in quegli anni la Germania era travagliata dalla dominazione napoleonica. Nei Discorsi Fichte rivendica un’egemonia tedesca, ma si tratta di una superiorità  addirittura antitetica rispetto a quella predicata dai nazisti: i Francesi guidati da Napoleone sono superiori sul piano politico-militare, sostiene Fichte, ma ciononostante i Tedeschi possono rivendicare una superiorità  di natura culturale. L’Europa, infatti, ò nata dal crollo dell’Impero Romano, intorno alla Germania e alle nazioni ‘barbariche’ che han posto fine al dominio romano. Ne consegue, dice Fichte, che il cuore culturale dell’Europa sarà  costituito non dalle popolazioni neolatine (quali i Francesi), bensì da quelle germaniche (i Tedeschi in primis). Il discorso di Fichte, del resto, ha un senso se lo inquadriamo in quegli anni, in cui il mondo culturale era dominato a pieno titolo dal mondo tedesco (soprattutto in campo filosofico). In questa prospettiva, i Tedeschi risultano superiori culturalmente poichò si son mantenuti più prossimi alla matrice europea germanica; ne consegue, tra l’altro, l’assurdità  di ogni forma di nazionalismo militaristico. Che senso può avere, nell’ottica fichteana, combattere per occupare altri territori? Così facendo ci si mescola con altre tradizioni e si smarrisce la propria purezza culturale: e con questo Fichte nega l’imperialismo che sarà  proprio del nazismo. Quella dei Tedeschi ò un’egemonia puramente culturale e tale deve essere, senza sfociare in manie espansionistiche: sarà  invece Hegel a sostenere che all’egemonia culturale debba corrispondere un’egemonia politico-militare, senza però mai macchiarsi di razzismo. Sia per Fichte sia per Hegel quella tedesca ò una superiorità  culturale (e per Hegel va integrata con quella militare), ma non razziale (come sarà  per i nazisti): e del resto sono filosofi idealisti, in cui la dimensione materiale non consta di esistenza autonoma e per cui la superiorità  deve per forza essere sempre fondata su elementi spirituali (quali la cultura) e non materiali (quali la razza).

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