GLI SCRITTI La tradizione ha conservato fino a noi gli scritti di Platone. Essi furono composti nell’arco di una cinquantina d’anni, a partire dalla morte di Socrate, secondo questo probabile ordine cronologico ricostruito dagli studiosi moderni: 1) scritti giovanili o âsocraticiâ, composti dal 399 al 388 circa: Apologia di Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside, Ippia maggiore, Ippia minore, Protagora; 2) dialoghi della maturità , dal 387 al 367 circa: Gorgia, Menone, Fedone, Eutidemo, Menesseno, Clitofonte, Repubblica, Cratilo, Simposio, Fedro; 3) dialoghi della vecchiaia, dal 365 al 348-47: Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi. Le Leggi furono l’ultima opera composta da Platone. Essa fu resa pubblica dal suo allievo Filippo di Opunte. A questo elenco devono essere aggiunte 13 Lettere, l’autenticità delle quali ò discussa: la più importante tra esse ò la Lettera VII (in cui si afferma che la filosofia vera ò quella orale), composta forse da Platone negli ultimi anni della sua vita. Nell’antichità c’era la consuetudine di attribuire a illustri nomi del passato propri scritti, per conferire ad essi autorevolezza. Così avvenne per Pitagora e Democrito e così, si pensa, sarebbe avvenuto con queste lettere e con altri scritti attribuiti a Platone. Discussa ò infatti l’autenticità dell’Alcibiade I e dell’Alcibiade II, per la presenza in essi di dottrine che sembrano posteriori all’età di Platone. Così l’Epinomide ò ora attribuito al discepolo di Platone Filippo di Opunte. Sicuramente apocrifi, ossia non risalenti a Platone, sono altresì i seguenti brevi scritti, pervenuti a noi sotto il suo nome: Assioco, Definizioni, Del giusto, Della virtù, Demodoco, Erissia, Ipparco, Minosse, Rivali in amore, Sisifo, Teagete. La Lettera VII, se fu realmente scritta da Platone, ò una sorta di autobiografia. In essa Platone racconta le esperienze decisive della sua vita, soprattutto quelle dei suoi soggiorni a Siracusa. Essa ha, dunque, una forma letteraria diversa da quella della maggior parte dei suoi scritti. Così ò anche per l’Apologia di Socrate, nella quale ò esposto il discorso di difesa pronunciato da Socrate in prima persona davanti ai cittadini ateniesi nel momento decisivo della sua vita, quando fu condannato a morte. Si tratta dunque di un lungo discorso continuo, il cui modello era dato dall’oratoria giudiziaria e sofistica. Ma il problema di Platone era quello di trovare una forma letteraria capace di mimare dal vivo l’attività filosofica di Socrate nel rapporto con i suoi interlocutori: essa fu il dialogo. Anche di esso si possono trovare antecedenti, per esempio nelle rappresentazioni teatrali, caratterizzate appunto dallo scambio di battute tra i personaggi. Ma Platone usa questa tecnica per rappresentare l’itinerario dell’indagine filosofica: ò attraverso lo scambio di domande e risposte che si può procedere alla risoluzione dei problemi e alla ricerca della verità e del sapere: solo dal dialogo tra parti opposte divampa la fiamma del sapere. Platone distingue due tipi di dialoghi scritti: 1) il dialogo drammatico, in cui ogni personaggio pronuncia direttamente le proprie battute (come avviene appunto negli spettacoli teatrali); 2) il dialogo indiretto, nel quale un narratore (a volte Socrate stesso) riferisce una conversazione avvenuta in precedenza. Un’ulteriore differenza tra i dialoghi scritti da Platone ò data dal fatto che Socrate scompare progressivamente come figura principale per lasciare il posto di protagonista ad altri personaggi. Ciò avviene nella maggior parte dei dialoghi composti nell’ultimo periodo della vita di Platone. Ma non ò un caso che in questi dialoghi l’esposizione continua e argomentata di complesse tesi filosofiche prevalga ormai nettamente sull’alternanza di domande e risposte propria dei primi dialoghi. Negli ultimi dialoghi lâinterlocutore del protagonista assume sempre più una funzione di puro contorno, limitandosi quasi solo ad assentire alle lunghe argomentazioni svolte dal protagonista. p> DIALOGO E SCRITTURA La forma dialogica consente all’autore Platone di scomparire dietro Socrate e i personaggi via via messi in scena, quasi come un attore che si cela dietro la maschera. Eâ una forma di scrittura nettamente distinta da quella impiegata dai sapienti e filosofi del passato, che mettevano se stessi in mostra in primo piano come unici veri possessori del sapere eccezionale depositato nello scritto. Questa differenza ò legata alla convinzione di Platone che lo scritto non può sostituire integralmente l’indagine filosofica condotta da persone in carne ed ossa oralmente attraverso domande e risposte, in un rapporto continuativo. Agli occhi di Platone questo tipo di rapporto e di indagine può essere instaurato pienamente soltanto nell’Accademia, la scuola da lui fondata. Essa ha un lontano modello nell’apprendistato artigianale, che prevede l’acquisizione di un âsaper fareâ attraverso un lungo soggiorno nella bottega a contatto quotidiano con l’artigiano esperto più anziano. In questo contesto i manuali scritti, che insegnano gli elementi di una tecnica, possono avere, secondo Platone, soltanto una funzione propedeutica. Il sapere, d’altra parte, non ò qualcosa a cui tutti possano accedere in qualsiasi momento e allo stesso modo: esso richiede tempo e gradualità per essere acquisito. Il libro scritto, invece, può andare immediatamente nelle mani di chiunque, anche degli inesperti, senza che l’autore possa preventivamente limitarne la destinazione a quanti egli considera adatti ad accoglierne il messaggio. Questo ò uno dei difetti imputati da Platone nel Fedro alla scrittura, accostata ad un quadro: lo scritto, come il quadro, non risponde alle domande che gli si pongono. Altro limite ò dato dal fatto che essa favorisce la dimenticanza, anzichè la memoria, perchè induce a cercare il sapere fuori di sè, in un oggetto fisso come il libro, incapace di rispondere alle domande che gli vengono poste o capace soltanto di ripetere sempre la stessa cosa. Per Platone il vero luogo in cui il sapere può essere scritto e conservato non ò il libro, ma l’anima di ognuno. Queste considerazioni, tuttavia, non conducono Platone a rinunciare definitivamente alla scrittura. Pur con i suoi limiti, lo scritto consente, tra l’altro, di criticare forme alternative di cultura rispetto alla filosofia e di presentare all’esterno un’immagine corretta o per lo meno non deformata dei caratteri e dei contenuti dell’indagine filosofica. In questo senso lo scritto può anche esercitare una funzione protrettica, ossia esortare i suoi eventuali lettori a dedicarsi alla filosofia, entrando nella scuola dov’essa ò praticata. Lo scritto in forma dialogica ò infatti quello meno lontano dal modello delle discussioni, che avvengono oralmente all’interno della scuola filosofica. In esso si possono esporre non soltanto i risultati ai quali perviene l’indagine filosofica, ma anche i vari passaggi e le argomentazioni con le quali essa procede in direzione di questi risultati. In questo senso i dialoghi non sono tasselli di un unico sistema fàlosofico, rimasto compatto e immutato sino alla fine dell’attività di Platone. Essi sono invece la rappresentazione di una ricerca che non si conclude, ma continua. Essa si svolge oralmente, ma si tratta di un’oralità dialettica, nel modo in cui era stata praticata da Socrate, e non dell’oralità propria delle recite poetiche, delle rappresentazioni teatrali o dei discorsi retorici e politici. Questi, infatti, sono prevalentemente lunghi discorsi continui, che hanno come obiettivo fondamentale quello di persuadere i propri ascoltatori, non la ricerca della verità e del sapere attraverso il metodo delle domande e risposte. Platone, tuttavia, ò consapevole che non sempre qualsiasi questione può essere affrontata e, tanto meno, risolta con questo metodo dialettico. Tali sono, per esempio, i problemi relativi al destino dell’anima umana dopo la morte o alla formazione del cosmo. In questi casi egli ricorre allora, nei suoi scritti, non all’esposizione in forma dialogica, bensì a lunghi discorsi continui. Sono i miti, ossia i racconti di come verosimilmente devono stare le cose. Come strumento d’indagine e di conoscenza il mito ò considerato da Platone inferiore alla dialettica e alle argomentazioni. Esso tuttavia gli appare particolarmente utile quando si tratta di convincere ascoltatori non ancora sufficientemente preparati sul piano filosofico, soprattutto a proposito di questioni decisive per la vita morale e politica. FILOSOFIA E REMINESCENZA Nel Simposio emerge che per Platone il filosofo non ò nè il sapiente nè l’ignorante: l’unico vero sapiente ò la divinità , ma nè il sapiente nè l’ignorante cercano il sapere, il primo perchè già lo possiede e il secondo perchè non lo possiede, ma neppure avverte il desiderio di possederlo. Il filosofo ò invece una figura intermedia tra questi, caratterizzata dal desiderio e dalla conseguente ricerca del sapere che ancora non possiede. Questo tema sviluppa la rappresentazione di Socrate, data da Platone nei suoi primi dialoghi: Socrate, ossia il filosofo, non sa, ma sa di non sapere e perciò si avvia alla ricerca del sapere. In questo senso l’atteggiamento fondamentale del filosofo ò l’eros, ossia l’ amore. Come il dio Eros, il filosofo ò figlio della Povertà , in quanto ò privo e bisognoso del sapere, ma ò anche figlio di Poros, ossia della capacità di cercare e procurarsi ciò di cui ò privo, trovando la via per arrivare ad esso. In questo orizzonte trovano collocazione le metafore della via da percorrere e della caccia, con le quali frequentemente Platone descrive l’attività filosofica, una caccia della sapienza. Essa non consiste, dunque, come sovente pretendevano i sofisti, nella trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa, come in una sorta di travaso da un recipiente pieno a uno vuoto. La funzione della scuola filosofica fondata da Platone non consiste in queste operazioni di travaso. Qual ò allora la sua funzione? La medicina greca, già nel V secolo a.C., aveva posto al centro della sua pratica terapeutica la nozione di dieta, intesa come modo di vita fondato su determinate regole allo scopo di preservare o riconquistare la salute. Essa consisteva essenzialmente in un equilibrio tra alimenti ed esercizi fisici. Platone utilizza questo modello anche per descrivere la forma più alta di vita, ossia la vita filosofica. Ma nel suo caso si tratta non tanto di formulare divieti o prescrizioni alimentari, come avevano fatto i pitagorici e come faranno i cinici, quanto di trovare una dieta dell’anima. Essa deve condurre ad armonizzare le passioni e l’intelletto, sottoponendo le prime al controllo e al comando del secondo. In questa prospettiva la stessa dialettica si configura come una forma di esercizio dell’intelletto, in grado di irrobustirlo e consentirgli di svolgere al meglio le sue funzioni. Ma quali sono gli equivalenti del nutrimento per quanto riguarda l’anima? Secondo Platone, essi sono i matòmata, ossia gli oggetti di apprendimento. Tra questi rientra anche la virtù. Sul problema dell’insegnabilità della virtù, ossia delle doti che fanno di un uomo un uomo nel senso pieno della parola e un buon cittadino si erano soffermati sia i sofisti, sia Socrate. Per Platone non ò la città storicamente esistente che può insegnare la virtù, come aveva preteso Protagora. Neppure i grandi politici ateniesi del passato erano stati in grado di trasmettere ai propri figli le doti in cui eccellevano. Agli occhi di Platone la morte di Socrate ò la conferma dell’assenza di virtù nella città che ha condannato l’uomo migliore. E Socrate ò per Platone il sostenitore della tesi secondo la quale la virtù deve fondarsi sulla conoscenza di quale sia il vero bene. Al sapere, dunque, e non alle emozioni o ai piaceri, spetta la guida della condotta umana: il piacere non può essere identificato con il bene. I beni sono molteplici, ma il bene vero e proprio per l’uomo ò quello che riguarda la sua anima. Esso consiste in una condizione analoga a ciò che la salute ò per il corpo. Da questo punto di vista la filosofia si costituisce come medicina, terapia dell’anima e, come afferma Diogene Laerzio, â Febo fece nascere per gli uomini Asclepio e Platone: lâuno per la cura del corpo, lâaltro dellâanima â. Ma dove può essere ricercato e appreso il sapere capace di generare il bene dell’anima? Non nella città . La vera sede per cercarlo diventa la scuola filosofica. Ciò che occorre tuttavia chiarire in via preliminare ò che cosa significa apprendere e come ò possibile apprendere. Secondo Platone già prima della nascita ogni individuo possiede il sapere entro di sè, ma al momento della nascita questo sapere viene dimenticato, pur continuando a rimanere latente nell’anima. Il compito dell’interrogazione filosofica ò di far affiorare alla luce questo sapere. Nella scuola filosofica sapere e virtù diventano acquisibili, perchè il sapere non si inventa nè si costruisce dal nulla, ma ò da sempre disponibile a chiunque, purchè si sappia come attingerlo. La condizione di ciò ò una ricerca interpersonale, condotta mediante il metodo delle domande e risposte. Nel Menone Platone mette in scena uno schiavo, ignorante di geometria, il quale opportunamente interrogato da Socrate su un problema geometrico, riesce a rendersi conto dell’errore delle soluzioni che egli via via propone e a riconoscere alla fine la soluzione corretta. Questo episodio ò interpretato da Platone come una conferma del fatto che il sapere, presente nell’anima dello schiavo, ma dimenticato al momento della nascita, ò stato da lui ricordato sotto lo stimolo delle domande poste da Socrate. L’apprendimento non ò altro, dunque, che un processo di reminiscenza (anamnesi). La condizione di possibilità di questo processo ò data dal fatto che la natura, ossia tutto ciò che ò, ò una totalità di parti legate tra loro da legami di affinità , come quelli che intercorrono tra i membri di una famiglia. E sufficiente ricordarsi di una sola di queste parti per poter risalire alle altre, individuando i legami che intercorrono tra esse. Lo strumento per compiere queste operazioni ò indicato da Platone nel di ragionamento causale. Esso ò capace di cogliere i rapporti stabili di dipendenza tra le varie parti del sapere e, dunque, tra le proposizioni dalle quali esso ò costituito. Ma così facendo, tale ragionamento non fa altro che mettere in chiaro i legami sussistenti tra le cose stesse. Nel Menone Platone fa consistere la scienza in questo modello di ragionamento, che mette in grado di distinguere tra vero e falso e di rispondere alla domanda: âperchè?â. Ora, poichè la causa ò ciò che consente di rispondere a questa domanda, esibendo la causa la scienza può rendere conto delle proprie affermazioni, diversamente dall’opinione, che ò fluttuante, cioò può essere vera o falsa e non sa rendere conto di ciò che afferma. Platone esclude che le entità del mondo sensibile, ossia quelle percepibili mediante gli organi di senso, possano essere l’oggetto proprio della scienza. Infatti, la loro mobilità e modificabilità le rende incompatibili con la stabilità che deve essere propria della scienza: una scienza, se ò realmente tale, non può non essere sempre vera. Il che non significa che le percezioni non possano svolgere una funzione nel processo di reminiscenza, che conduce all’apprendimento delle nozioni in cui consiste la scienza vera e propria. Con i sensi, sostiene Platone nel Fedone, ò possibile, per esempio, percepire oggetti che vengono detti uguali, ma di fatto questi non sono mai perfettamente uguali. Ciò conduce a pensare come distinto da questi oggetti sensibili, che sono detti uguali, l’uguale, ossia ciò che ò sempre perfettamente e veramente uguale. Questa entità ò designata da Platone con il termine di idea, che significa propriamente âaspetto o forma visibileâ. La differenza ò che essa può essere vista non con gli occhi, bensì soltanto con l’intelletto. La percezione degli oggetti sensibili risveglia, dunque, il ricordo delle idee, le quali permettono di misurare l’inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse. Così, qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l’idea della bellezza nella sua perfezione e immutabilità . L’idea non ò dunque una semplice rappresentazione o concetto, che noi ci formiamo percependo gli oggetti sensibili. Essa ò invece il modello e il criterio in base al quale possiamo nominare belli determinati oggetti sensibili. Infatti, ò perchè già possediamo l’idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti. Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l’indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni, ossia di risposte corrette alla domanda: âche cos’ò x?â (dove x sta per bello, giusto e così via). Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l’idea in questione (per esempio l’idea di bellezza, di giustizia e così via). L’idea ò dunque un universale. Ciò significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l’idea si predica, dicendoli per esempio belli o giusti, sono casi o esempi particolari rispetto all’idea: un bel cavallo o una bella pentola sono casi particolari di bellezza, non sono la bellezza. L’idea, in quanto universale, si pone ad un livello più alto rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. Infatti, mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento, soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente sempre se stesse. Proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere, qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. L’attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, ò allora descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni, le quali mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell’idea del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero. Ciò non significa che l’idea sia per Platone una semplice rappresentazione mentale. Essa ò invece dotata di esistenza autonoma, nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata. In che senso questi oggetti puramente intellegibili, che sono le idee, sono gli oggetti veri e propri della scienza? Quando si tratta di spiegare perchè un determinato oggetto artigianale oppure un’entità naturale siano fatti in un determinato modo piuttosto che in un altro, la vera risposta, secondo Platone, consiste nel definire il fine in vista del quale essi sono fatti nel modo in cui sono fatti. Ciò equivale a dire ciò che ò meglio per essi. E il meglio per ciascuno di essi corrisponde appunto all’idea. Per questo aspetto l’idea ò dunque la causa, per cui un oggetto ò costituito in un determinato modo e la conoscenza dell’idea consente di spiegare perchè esso sia in quel modo e non diversamente. Come da sempre esistono le idee, così da sempre esistono e sempre esisteranno le anime umane in grado di conoscerle. L’esistenza delle idee diventa, nel Fedone nico, il punto di partenza per dimostrare anche l’ immortalità dell’anima. Un’ulteriore prova ò data dal fatto che l’anima partecipa dell’idea di vita, in quanto ò ciò che appunto anima, dà vita ad un corpo. Essa non può, dunque, accogliere entro di sè l’idea opposta a quella di vita, ossia l’idea della morte, come il tre non può accogliere lâ idea di pari. E come il numero tre esso non ò il dispari, in quanto oltre al tre esistono anche altri numeri dispari, ma partecipa dell’idea del dispari e quindi non può mai accogliere entro di sè l’idea opposta, ossia l’idea del pari. Come il tre non potrà mai essere pari, così l’anima non potrà mai morire. LA CITTA’ Che rapporto esiste tra il filosofo orientato alla ricerca delle idee, come oggetti della vera scienza, e la città nella quale egli vive? La morte di Socrate aveva posto ai suoi discepoli in maniera drammatica il problema del rapporto tra la filosofia e la città . Bisogna porsi ai margini di essa? Nei dialoghi Platone descrive spesso Socrate, ossia il vero filosofo, come ridicolo ai più per la sua incapacità di destreggiarsi nelle faccende politiche. Nel Fedone il filosofo ò ritratto come colui che si purifica e prescinde il più possibile dal corpo, dai piaceri e dai desideri connessi al corpo, a mò di un asceta. Essi, infatti, possono ostacolarlo nell’indagine di quegli oggetti non sensibili che sono le idee. Ma se il corpo ò come tomba dell’ anima, secondo una dottrina propria della tradizione orfica e pitagorica, la vita del filosofo sarà una sorta di âpreparazione alla morteâ. Con la morte, infatti, l’anima, separandosi dal corpo, potrà accedere alle idee libera da ogni impaccio. Ciò non significa che l’uomo debba suicidarsi. L’importante ò invece avviare già in questa vita questo processo di avvicinamento alle idee. L’amore stesso contribuisce a tale processo di ascesa, conducendo dalla contemplazione dei corpi belli alla contemplazione della bellezza in sè, ossia dell’idea di bellezza. Il vero spazio del filosofo sembra, dunque, collocarsi oltre la città . La sua attività ò proiettata a realizzare quella condizione che, con una formula del Teeteto destinata a grande successo nei secoli successivi, ò definita come ârendersi simili al dio â. Nella città ingiusta il filosofo non può farsi coinvolgere da un’attività politica, che ha come unico obiettivo la contesa per il potere. E tuttavia egli non può neppure isolare totalmente la filosofia dalla comunità entro la quale ò praticata. Da questo punto di vista Socrate può anche apparire come il vero politico, l’unico capace di condurre una terapia delle anime, liberando i suoi concittadini dalla terribile malattia dell’ingiustizia e somministrando alle loro anime l’adeguata dieta filosofica. Ma per comprendere la portata di questa attività terapeutica del filosofo, diventa decisivo il problema di trovare il modello di una città giusta. In essa evidentemente la filosofia non si porrà più ai margini, ma ritroverà la sua collocazione appropriata. Il problema di Platone diventa, dunque, di rintracciare i tratti salienti di una città che, ben lungi dal condannare Socrate, riconosca in lui l’unica figura adatta a governarla. Questo problema ò affrontato nella Repubblica. Il punto di partenza ò dato dalla questione di che cosa sia la giustizia, sia nell’individuo, sia nella città . Una città si forma perchè ciascun individuo non ò in grado di soddisfare adeguatamente da solo tutti i bisogni impostigli dalla necessità di sopravvivere. Ciascun individuo possiede le doti naturali per svolgere bene soltanto alcune funzioni e non altre: chi sa coltivare bene la terra, chi fabbricare bene case o calzature e così via. Mediante lo scambio di prestazioni tra i singoli, i bisogni di tutti possono essere soddisfatti nel modo migliore. Alla base della città ò dunque una divisione dei mestieri. Ciò che consente di determinare quali sono le doti di ciascuno ò la natura: ciascuno ha per natura attitudini a svolgere determinate funzioni o mestieri meglio di altri. La divisione dei mestieri fornisce a Platone i termini di partenza per definire la giustizia. La giustizia consiste nel fatto che ciascuno svolga le funzioni che per natura gli sono proprie. Solo a questa condizione un gruppo di uomini (paradossalmente, anche una banda di briganti) può realizzare i fini che sono propri ad esso. Se uno o più membri del gruppo non svolgono i compiti che spettano loro in base alle loro doti naturali o pretendono di svolgere compiti per i quali non hanno attitudini, l’ingiustizia si genera all’interno del gruppo e ne scaturiscono conflitti. Il buon funzionamento di una città richiede, secondo Platone, un’estensione territoriale limitata e una popolazione non troppo grande. Questa deve essere ripartita in tre gruppi o âclassiâ con compiti nettamente distinti: i produttori dei beni necessari alla sussistenza, ossia agricoltori e artigiani; i difensori della città , ossia i guerrieri, dotati della virtù del coraggio; infine, i filosofi dotati del sapere necessario per conoscere ciò che ò bene per la città nel suo complesso e, quindi, gli unici capaci di governarla attenendosi ad esso. Fra questi tre gruppi esiste una gerarchia, in quanto gli uomini, secondo Platone, non soltanto hanno doti o attitudini differenti, ma sono disuguali per natura (sono stati forgiati con materiali diversi, dice Platone), ossia alcuni sono migliori degli altri. Per convincere i cittadini appartenenti al gruppo inferiore della naturalità di questa gerarchia si racconta un mito, che Platone qualifica come una ânobile menzognaâ. Esso descrive governanti, guerrieri e produttori come plasmati di metalli differenti, di differente valore, ossia rispettivamente di oro, argento e ferro. Al grado di nobiltà dei metalli corrisponde il valore dei gruppi sociali e delle loro rispettive funzioni. Ma in ogni caso tutti i cittadini dovranno possedere due virtù: la giustizia appunto, la quale consiste nell’esercizio delle funzioni per natura proprie a ciascuno e la temperanza. Quest’ultima consiste nel riconoscimento che il governo deve essere attribuito ai cittadini che hanno le doti adatte a svolgere la funzione di governare. Al vertice della città dovranno, dunque, essere i filosofi: soltanto la connessione tra filosofia ed esercizio del potere potrà , secondo Platone, far cessare i mali da cui sono afflitte le città . I filosofi, infatti, sono dotati del sapere necessario per governare la città e non hanno alcun desiderio del potere, dal momento che ben maggiore attrattiva esercita su loro l’attività filosofica. Nelle città realmente esistenti due fattori impediscono, secondo Platone, questa corretta distribuzione dei compiti e, quindi, l’instaurarsi della giustizia: la famiglia e la proprietà privata. I genitori, infatti, tendono a far sì che i propri figli siano collocati, indipendentemente dalle loro doti naturali, nella posizione sociale più alta possibile. E lo stesso risultato ò prodotto dal possesso delle ricchezze. La soluzione suggerita da Platone ò di eliminare la famiglia e di considerare figli di tutti i cittadini coloro che nasceranno da accoppiamenti tra genitori accuratamente selezionati in base alle loro doti fisiche e psichiche. Lo scopo di questa misura ò di ottenere, come negli allevamenti delle razze animali, la nascita di esemplari quanto più possibile perfetti. Appena nati, i figli saranno sottratti alla madre, cosicchè nessuno saprà chi sono i propri figli, nè i giovani sapranno chi sono i loro genitori. La conseguenza ò che non ci sarà la famiglia a interferire nell’attribuzione a ciascuno delle funzioni per le quali ha attitudini naturali. Da questo punto di vista non potrà neppure essere stabilita una differenza tra maschi e femmine, le quali svolgeranno le stesse funzioni dei maschi, quando avranno le doti appropriate per esercitarle. Si avranno dunque anche donne guerriere e governanti, contrariamente a quanto avveniva nelle città greche del tempo: non vi ò differenza alcuna tra uomo e donna; o meglio, la differenza che vi ò, ò talmente irrilevante da essere accostata da Platone alla differenza che câò tra un uomo chiomato e uno calvo. Così per quanto riguarda il possesso di ricchezze, i due gruppi dei filosofi governanti e dei guerrieri ne saranno privi e vivranno a spese della città in cambio dei servizi da essi prestati. Essi abiteranno in alloggi comuni e prenderanno i pasti in comune, come era previsto dalle costituzioni di Creta e Sparta per l’èlite aristocratica Il gruppo dei produttori, invece, godrà di proprietà privata, ma soltanto nei limiti di quanto ò necessario a svolgere bene il proprio lavoro. La comunità dei beni, ipotizzata da Platone, non ha dunque alcuna affinità con la nozione moderna di comunismo, che prevede l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Secondo Platone, la comunità dei beni non renderà affatto infelici i membri della città , perchè la felicità dei singoli fa tutt’uno con la felicità della città nel suo complesso. Ma come sarà possibile determinare a quale dei tre gruppi dovrà essere assegnato ciascun individuo? EDUCAZIONE E CONOSCENZA L’educazione ò per Platone lo strumento che consente, al tempo stesso, di accertare le doti naturali di ciascuno e di provvedere al loro perfezionamento. Essa permette in tal modo di selezionare coloro che risultano adatti a svolgere le varie funzioni. Gran parte della Repubblica ò dedicata a delineare le fasi attraverso le quali i guerrieri e i filosofi, ossia i membri delle due classi superiori nella città giusta, dovranno essere educati a svolgere adeguatamente il loro compito. La prima fase ò costituita dalla ginnastica e dalla musica, ossia dall’addestramento del corpo e dalla formazione del carattere. Particolare attenzione dev’essere rivolta a quest’ultima, la quale comprende, nella loro unione, musica e poesia. Platone ò particolarmente critico nei confronti della poesia del proprio tempo. Essa, ben lungi dall’avere la funzione educativa che pretende di avere e che le ò universalmente riconosciuta, ò invece corruttrice dei suoi ascoltatori, soprattutto se giovani. Essa infatti suscita emozioni, anche riprovevoli moralmente, anzichè rendere capaci di controllarle. Inoltre, essa non ò in grado di fornire conoscenze effettive sulla realtà , anzi dà false rappresentazioni degli dei e degli eroi in preda a ogni vizio e debolezza, come già aveva rilevato Senofane. La poesia e le arti in generale, dalla scultura alla pittura, sono soltanto imitazione e non di ciò che ò realmente, bensì soltanto di immagini di ciò che ò. Nella città giusta ò lecito ammettere soltanto una forma di poesia, che sia coerente con i valori della città e capace di contribuire alla formazione morale dei cittadini. I giovani figli di cittadini sono dunque sottoposti a una serie di esercizi fisici e intellettuali, i quali consentono di far emergere le doti di ciascuno. In tal modo diventa possibile selezionare quelli che potranno proseguire nell’itinerario educativo. Soltanto coloro che si dimostrano in possesso di determinate doti intellettuali, capacità di apprendimento, memoria e così via, potranno essere introdotti gradualmente alla filosofia. Ma per poter diventare filosofi ò indispensabile sottoporsi preliminarmente a un lungo apprendistato matematico, studiando aritmetica, geometria, stereometria (ossia geometria dei solidi), astronomia (la quale studia il movimento di quei corpi solidi che sono gli astri, secondo modelli matematici) e musica. Anche quest’ultima, come le precedenti, non ò una disciplina empirica, ossia studia non tanto i suoni percepibili, quanto i rapporti matematici tra suoni, dai quali si generano accordi e armonie. Le ragioni, per le quali Platone ritiene necessario lo studio delle matematiche come propedeutico alla filosofia, sono indicate dalla sua dottrina dei livelli o gradi della conoscenza, esposta anch’essa nella Repubblica. Platone istituisce una piena corrispondenza tra grado o perfezione di essere degli oggetti conoscibili e grado o perfezione della conoscenza che li riguarda. Fondamentale nella sua filosofia ò il mito della caverna. Egli paragona il processo conoscitivo, che attraversa i vari gradi sino a culminare nella conoscenza dell’idea del bene, ad un processo di liberazione da catene che ci tengono imprigionati nel fondo di una caverna sino all’uscita alla luce del sole. Dopo che ci si ò liberati dai legami sensibili che tengono imprigionati nella caverna rischiarata artificialmente soltanto da un fuoco, si arriva soltanto lentamente ad abituarsi alla luce del sole. Il sole ò appunto l’analogo del bene. La dialettica, capace di pervenire al bene, si colloca dunque al vertice della gerarchia delle scienze, che non possono costituirsi come edifici completamente autonomi rispetto ad essa. Platone rivendica alla dialettica una funzione di giurisdizione e controllo rispetto agli altri campi del sapere. E la gerarchia tra le forme del sapere ò simmetrica alla gerarchia esistente fra i tre gruppi della città ; in questo senso il supremo potere appartiene al supremo sapere. Tuttavia, l’esercizio di questo potere richiede necessariamente la ridiscesa dei filosofi a turno nella caverna, ossia nel mondo della comunità umana, per governarla alla luce del sapere da essi acquisito. In questo modo, Platone ha costruito le condizioni teoriche per l’instaurazione di una città giusta, nella quale la filosofia non ò ai margini, ma occupa il vertice, perchè soltanto essa può condurre alla conoscenza del bene, dal quale dipende anche il bene della città . UTOPIA E ANIMA La città , che Platone delinea nella Repubblica, ò stata sovente qualificata come un’utopia, ossia un progetto puramente ideale, privo di ogni possibilità di realizzazione. Agli occhi di Platone, invece, essa ò possibile, anche se difficilmente realizzabile. In ogni caso, anche per il presente, essa può svolgere, a suo avviso, l’importante funzione di modello e di metro di misura, in riferimento al quale giudicare le costituzioni politiche vigenti. Partendo da questo modello egli costruisce una tipologia di forme di governo come progressive degenerazioni di esso, a cominciare dall’aristocrazia sino agli estremi costituiti dalla democrazia e dalla tirannide. La democrazia ò interpretata da Platone come una sorta di anarchia, in quanto refrattaria a stabilire una gerarchia nella distribuzione del potere e a porre vincoli alla libertà individuale. Nella tirannide poi la ragione non svolge più alcuna funzione di governo. Essa ò dunque la peggiore forma di governo. La città ideale di Platone ò, invece, una città nella quale il divorzio tra politica e filosofia, che in diverso modo caratterizza tutte queste costituzioni, ò ricomposto e i filosofi prendono il posto che loro spetta per natura, al vertice di essa. Così facendo la città si organizza come apparato educativo destinato in primo luogo a riprodurre e perpetuare la figura stessa del filosofo: si tratta di una città che si assume in grande, sul piano pubblico, quel compito di formazione dei filosofi che l’Accademia si assume in piccolo, in una sfera privata, all’interno di una città come Atene. Platone, tuttavia, non rinunciò al tentativo di collegare filosofia e politica. In Atene egli non scorse la reale possibilità che i filosofi diventassero governanti; non ò un caso che non si abbia notizia di alcuna attività politica svolta da Platone in Atene. Ma più volte egli coltivò la speranza, sempre tramutatasi in illusione, di fare del tiranno, che era a capo di Siracusa, un filosofo, realizzando in tal modo il progetto di una politica filosofica. Nonostante vari tentativi, però, la cosa si mostrò irrealizzabile: com’ò possibile che un uomo ingiusto e ormai irrimediabilmente corrotto come il tiranno diventi filosofo? Il discorso condotto da Platone nella Repubblica a proposito della città giusta e delle sue degenerazioni ha un parallelo globale nel discorso sull’ anima giusta e sulle sue degenerazioni. Ai tre gruppi o classi costitutive della città , Platone fa corrispondere tre parti o facoltà dell’anima: la parte appetitiva, incline a seguire i piaceri, corrisponde alla classe dei produttori; la parte animosa corrisponde ai guerrieri e quella razionale ai filosofi. Anche per l’anima la giustizia consiste nel fatto che ciascuna delle sue parti svolga la funzione che le ò propria. Se ciò non avviene e insorgono invece conflitti tra le parti, allora si genera la peggiore malattia dell’anima: l’ingiustizia. Alla giustizia deve dunque affiancarsi (proprio come nella città ) un’altra virtù fondamentale: la temperanza. Essa consiste nel riconoscimento comune che soltanto alla parte razionale, in quanto dotata di sapere, spetta il governo dell’intera anima. Platone riconosce, dunque, la presenza nell’anima delle emozioni e delle passioni. Esse sono una sorgente possibile di conflitti psichici. Soltanto il controllo della ragione permette di evitare questo conflitto, canalizzando le emozioni nella direzione voluta dalla ragione stessa. In un mito raccontato nel Fedro Platone paragona l’anima a una biga alata, trainata da due cavalli, uno bianco e arrendevole ai comandi dell’auriga e l’altro nero e recalcitrante. Quando quest’ultimo prende il sopravvento, l’anima precipita dal luogo celeste, dov’ò al seguito del corteggio degli dei, e torna ad una vita corporea, secondo l’antico insegnamento orfico. Anche la Repubblica si chiude con un mito riguardante il destino dell’anima. Nell’aldilà le anime, prima di tornare a reincarnarsi, debbono scegliere il tipo di vita, al quale poi si atterranno. Le doti naturali di ciascuno sono dunque il frutto di una scelta libera, di cui ognuno ò responsabile. E sulla complementarità e cooperazione di queste doti differenti e disuguali di valore, che la città giusta deve fondarsi. RELAZIONI TRA IDEE Nelle sue indagini filosofiche sino alla Repubblica Platone ha introdotto la dottrina delle idee per sottolineare la differenza intercorrente tra esse e gli oggetti della percezione sensibile, ma anche le relazioni che legano tra loro questi due domini. Le idee sono ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano. La partecipazione all’idea, per esempio all’idea di bellezza, rende un determinato oggetto sensibile bello. Ma gli oggetti sensibili di cui si può predicare la bellezza sono molti: si può dire bella una pentola, una casa, un cavallo e così via. L’idea di bellezza invece ò unica. In questo senso l’idea ò definita da Platone nel Parmenide come unità di un molteplice La nozione di idea pone, dunque, il problema della relazione tra uno e molti, che ò al cuore di questo dialogo. In primo luogo sembra da escludere che la relazione tra l’idea unica e i molteplici oggetti sensibili che ne partecipano possa essere descritta come una sorta di presenza dell’idea in essi. Come potrebbe ciò che ò uno essere presente in molte cose senza spezzarsi in parti e, quindi, non essere più uno? Inoltre, rispetto a quali classi di oggetti si può dire che esistano idee? Sinora Platone ha fatto riferimento a due classi di idee; le idee di valore (bello, giusto e così via) e le idee di relazione e di tipo matematico (uguale, triangolo ecc.). Nel Parmenide, Platone rimane perplesso sulla possibilità di aggiungere a questo elenco anche le idee di entità naturali come l’uomo, il fuoco o l’acqua: mentre esclude che ci possano essere idee di entità spregevoli, quali il fango o il capello. La perplessità nasce, dunque, soprattutto in relazione agli oggetti sensibili stessi, più che in relazione alle proprietà che possono essere predicate di essi. Perplessità , però, possono nascere anche quando si considerano i rapporti delle idee tra loro. Ciascuna idea ò un’unità , ma le idee nel loro insieme costituiscono una molteplicità . Si pone dunque, sia a proposito del rapporto tra idee e oggetti sensibili, sia a proposito del rapporto delle idee tra loro, il problema della relazione tra uno e molti. La seconda parte del Parmenide ò dedicata alla discussione di tutte le ipotesi possibili a proposito di questa relazione. In particolare, se l’uno ò concepito come assoluta unità , non si può neppure pensare e dire che âl’uno òâ, perchè ciò significa attribuire all’uno l’essere e, quindi, già moltiplicarlo. Ma il termine uno può anche avere un altro significato, tale da non essere incompatibile con la molteplicità . Platone mette in luce, attraverso una lunga e difficile analisi, come i termini generali âunoâ e âmoltiâ possano assumere significati diversi e come da questa diversità possano scaturire conseguenze anche opposte. Ciò pone il problema di un’indagine sulle relazioni possibili tra questi termini, o idee, generali. Quest’indagine non può essere condotta rimanendo soltanto sul piano dei nomi, nè su quello degli oggetti sensibili. Nel Cratilo Platone esclude che la correttezza dei nomi dipenda dalla natura o da una convenzione, un accordo tra uomini. Entrambe le concezioni, infatti, comportano che i nomi (indipendentemente dal tipo di rapporto, naturale o convenzionale, che essi hanno con le cose designate da essi) siano sempre quelli corretti. La conseguenza ò che l’errore diventa impossibile. Platone, invece, intende salvaguardare la possibilità dell’errore anche a livello dei nomi. Egli interpreta i nomi come strumenti per indicare e distinguere la sostanza delle cose, ossia ciò che ciascuna cosa veramente ò. Ma la correttezza di uno strumento può essere giudicata soltanto da chi lo usa ed ò in grado di controllare se esso risponde bene o no alla funzione, alla quale ò destinato. Chi può dunque giudicare della correttezza dei nomi? Soltanto colui che può conoscere la sostanza delle cose, ossia le idee. La conoscenza delle idee, di pertinenza del dialettico, diventa dunque il criterio, in base al quale accertare se un nome ò posto correttamente o no. Dalle idee si può arrivare ai nomi, non viceversa, come pretendeva Antistene. Neppure la conoscenza sensibile può essere la via adeguata per risalire alla conoscenza delle idee e delle relazioni intercorrenti tra esse Nel Teeteto Platone conduce un’ampia critica della tesi che identifica la conoscenza con la percezione. Questa tesi coincide, a suo avviso, con la celebre affermazione di Protagora, secondo cui l’uomo ò misura di tutte le cose. Essa significa che ciò che appare a ciascuno, ò vero per lui: il sano percepisce dolce il miele e, quindi, il miele ò dolce per lui, mentre il malato lo percepisce amaro e, quindi, il miele ò amaro per lui. La conseguenza ò che tutte le percezioni e le opinioni che si formano a partire da esse sono vere e che nessuna percezione e opinione ò falsa. L’impossibilità di distinguere tra vero e falso ò inaccettabile per Platone. Contro questa teoria egli obietta che, se tutte le opinioni sono vere, ò vera anche l’opinione che sostiene che non tutte le opinioni sono vere e, quindi, anche quella che sostiene che la tesi di Protagora ò falsa. Come può pretendere allora il sofista Protagora di essere maestro degli altri? Se si vuole evitare questa contraddizione, occorre trovare il modo di distinguere tra opinione vera e opinione falsa e, più in generale, tra vero e falso, non soltanto per quanto riguarda le percezioni. Su questa conclusione aporetica si chiude il Teeteto. NON ESSERE ED ERRORE La posta in gioco per Platone ò alta: se si nega la possibilità di distinguere tra vero e falso, crolla ogni possibilità di sapere e, quindi, la filosofia stessa come ricerca del sapere. La questione ò ripresa e affrontata nel Sofista. Per Platone ò tipico del sofista giustificare tutte le proprie asserzioni e i propri discorsi mediante la tesi, secondo cui l’errore e il falso sono impossibili: ciò che non ò, non può essere nè pensato nè detto, come già aveva insegnato Parmenide. Se questa tesi sofistica non può essere confutata, diventa impossibile distinguere tra vero e falso e, quindi, tra sofista e filosofo. Ma il problema dell’errore e del falso rinvia al problema eleatico del non essere, e, a sua volta, il problema del non essere rimanda inestricabilmente a quello dell’essere: l’uno non può essere chiarito e risolto senza il chiarimento e la risoluzione dell’altro. Per Platone le risposte tradizionalmente date al problema dell’essere sono insoddisfacenti. Alcune identificano l’essere con ciò che ò corporeo, sicchè si può dire che ò solo ciò che può essere afferrato con i sensi. Ma, obietta Platone, la giustizia esiste? Se si risponde di sì, allora la giustizia deve essere corporea, dal momento che soltanto ciò che ò corporeo ò, eppure nessuno ha mai percepito con i sensi la giustizia. Se invece si risponde di no, diventa impossibile distinguere tra uomo giusto e uomo ingiusto. Questa ò l’aporia nella quale si dibatte la posizione âmaterialisticaâ (il cui portavoce ò Democrito, anche se Platone non lo nomina mai). Di fronte a questa si colloca la posizione di coloro che identificano l’essere con le idee incorporee, afferrabili soltanto con l’intelletto ed estranee ad ogni movimento. Anche ad essa Platone muove obiezioni, dopo aver proposto di definire âessereâ tutto ciò che ha la possibilità di agire o di subire un’azione anche minima da parte di qualcosa. âConoscereâ e âessere conosciutoâ possono essere considerati allora casi particolari dell’agire e del subire un’azione. Ma agire o subire equivalgono ad esercitare o subire un movimento, cosicchè anche i sostenitori delle idee vengono a trovarsi di fronte a un dilemma: o affermano che le idee sono immobili e fisse, ma allora devono concludere che esse non possono essere conosciute; oppure ammettono la possibilità che le idee possano essere conosciute, ma allora debbono anche ammettere che nell’ambito delle idee esista movimento e, con esso, vita, anima, intelletto. Questa discussione conduce a investigare, sempre nel Sofista, le relazioni tra essere, quiete e movimento, ossia tra quelli che Platone chiama sommi generi, idee generalissime. Per un verso si può dire che l’essere ò stabile, in quiete, e quindi si distingue da ciò che soltanto diviene; per un altro, come si ò visto, esso ò anche in movimento. Ma dire che l’essere, sotto determinate condizioni, ò in quiete e, sotto altre, ò in moto, non vuol dire che l’essere sia il moto e la quiete. L’essere non ò nè la quiete nè il moto: si tratta appunto di tre generi distinti. In questo senso l’eraclitismo, secondo cui tutto ò moto, e l’eleatismo, secondo cui tutto ò quiete, immobilità , mostrano la loro unilateralità e, quindi, la loro falsità come concezioni generali dell’essere. Quando si afferma che la quiete ò e che il moto ò, non si afferma che il moto ò la quiete, ossia che il moto e la quiete sono identici tra loro. In realtà il moto ò identico a se stesso e la quiete ò identica a se stessa e, quindi, ciascuno di essi ò diverso dagli altri sommi generi. Ma, ancora una volta, dire che il moto ò identico a se stesso e diverso dagli altri, non significa dire che il moto ò l’identico o il diverso. Identico e diverso sono, dunque, anch’essi generi, distinti dall’essere, dal moto e dalla quiete. Tuttavia, affermare che ciascuno di essi ò diverso dagli altri equivale ad affermare che ciascuno di essi non ò l’altro: in questo modo si giunge a parlare di ciò che non ò; ma non si tratta del non essere in senso assoluto, del nulla, che Parmenide aveva dichiarato impossibile pensare ed enunciare. Infatti, dire che un genere non ò l’altro non equivale a dire che esso non esiste e non ò nulla; significa invece riconoscere che il non essere coincide con il diverso, cosicchè l’espressione âA non ò Bâ può essere sostituita correttamente dall’espressione equivalente âA ò diverso da Bâ. In questo modo si giunge ad ammettere che anche ciò che non ò, in qualche modo ò, e precisamente esso âò diverso daâ. Il parricidio di Parmenide da parte dello straniero eleate, protagonista del Sofista, ò così pienamente compiuto. Dire il falso equivale a dire ciò che non ò, ma nel senso di ciò che ò diverso da qualche altra cosa che ò. Con ciò stesso viene anche riconosciuta la possibilità del molteplice, in opposizione al monismo eleatico. Ciascuno dei molti ò identico a sè. Affermare che non ò gli altri non significa negare l’esistenza ad esso o agli altri, ma soltanto affermare che essi sono diversi tra loro. Compito della dialettica diventa allora quello di studiare le relazioni tra le idee, in particolare tra i generi sommi, individuando quali possono comunicare tra loro e quali no, in modo da non scambiare ciò che ò identico con ciò che ò diverso e viceversa. Se tutte le idee comunicassero tra loro, sarebbero possibili e vere anche proposizioni contraddittorie del tipo âla quiete ò il motoâ. Viceversa, se nessuna idea comunicasse con nessun’altra, non sarebbe possibile alcuna proposizione. Entrambe le alternative rendono impossibile ogni sapere: la prima perchè lascia spazio alla formazione di proposizioni assurde, la seconda perchè esclude la possibilità di formare proposizioni. Resta dunque aperta, secondo Platone, soltanto la possibilità che alcune idee comunichino con alcune altre. Compito della dialettica ò determinare queste relazioni caso per caso. Le relazioni tra le idee forniscono in tal modo il criterio per decidere sulla correttezza delle connessioni tra soggetto e predicato nelle proposizioni. Così, per esempio, la proposizione âTeeteto volaâ ò sempre falsa, in quanto l’idea di uomo, di cui Teeteto ò un caso empirico, non può avere alcuna connessione con la proprietà del volare, che appartiene a un’altra classe di idee. Negli ultimi dialoghi il concetto di dialettica passa dal significato generale di tecnica della discussione tra individui ad un significato più specifico. Essa viene descritta nel Fedro come una tecnica d’indagine, che si articola in due momenti: la synagoghò, consistente nel ricondurre una molteplicità all’unità , e la diairesis, consistente nel dividere un’idea unitaria nelle sue specie o articolazioni. Nel Sofista compare il seguente esempio: se si vuole definire che cos’ò la pesca con la lenza, bisogna ricondurla ad un genere più ampio che la includa insieme ad altro. Questo genere più ampio ò quello della tecnica. Anche la pesca con la lenza, infatti, ò una tecnica, anche se non ò l’unica tecnica. In questo modo si ò compiuto il primo passo dell’indagine dialettica. Il secondo passo consiste nel dividere il genere della tecnica nelle due specie delle tecniche di produzione (che danno luogo a un oggetto prima non esistente) e delle tecniche di acquisizione (che s’impadroniscono di ciò che già esiste). Quindi si sceglie la specie nella quale ò inclusa la pesca. Naturalmente sarà la tecnica di acquisizione, che a sua volta si suddividerà in due secondo i tipi di oggetti che vengono acquisiti e poi ancora secondo gli strumenti con i quali vengono acquisiti e così via, finchè saranno individuati tutti i tratti che consentono di definire la pesca con la lenza, distinguendola da tutti gli altri tipi di tecnica. La ricerca socratica delle definizioni può in tal modo essere affrontata con una precisa procedura di indagine: per definire che cos’ò un oggetto ò essenziale rintracciare una classe più ampia alla quale questo oggetto appartiene e individuare le differenze che lo distinguano o da tutti gli altri membri di questa classe. La definizione di ciò che un oggetto ò, ò dunque intrinsecamente connessa al chiarimento di ciò che esso non ò. Questa nozione più specifica di dialettica si lega strettamente alla nuova acquisizione delle relazioni intercorrenti tra essere e non essere. La divisione, per essere corretta, deve seguire le articolazioni naturali tra le idee. In questo senso, la dialettica ò avvicinata da Platone nel Fedro alla medicina di Ippocrate, capace di suddividere i tipi di corpi e i tipi di farmaco e di individuare le correlazioni fra ciascun tipo di malattia e i farmaci appropriati a curarla; ma il dialettico ò anche paragonato ad un macellaio, che per tagliare correttamente in parti un animale deve seguire le giunture naturali, non può tagliare in un punto qualsiasi. Così nel Politico si precisa che il dialettico deve stare attento a non confondere parte con specie: se ogni specie ò anche parte, non ogni parte ò anche specie. Per esempio, greci e barbari sono parti del genere âuomoâ, ma non specie di esso, perchè non sono distinti tra loro da differenze naturali, come quelle intercorrenti, per esempio, tra cavalli e uomini. Le idee costituiscono, dunque, un mondo di articolazioni. Alcune idee sono più generali e più estese di altre, come per esempio la nozione di animale rispetto a quelle di uomo o di pesce. Altre, invece, come appunto i sommi generi, quali âessereâ, âidenticoâ, âdiversoâ, permeano tutte le altre. Rispetto a questo mondo articolato di idee che relazione ha l’universo fisico, il mondo della natura nella varietà delle sue manifestazioni? IL DEMIURGO Questo problema ò affrontato da Platone nel Timeo. Gli oggetti del mondo naturale sono caratterizzati da incessanti mutamenti e trasformazioni. In questo senso essi non hanno quella stabilità che sola può essere compatibile con la vera scienza. Ciò significa che del mondo della natura non ò possibile avere scienza: su di esso ò possibile fare soltanto un discorso verosimile, ossia raccontare un mito. In questo mito Platone fa confluire molti dati e tematiche elaborate nel passato da pensatori e studiosi della natura. Si tratta del mito del demiurgo, ossia dell’artefice divino, che foggia il mondo partendo da un materiale preesistente alla sua opera. Il modello che egli imita nel compiere il proprio lavoro ò dato dalle idee. Ciò significa che la sua opera possiede modalità analoghe a quelle del lavoro degli artigiani umani e non corrisponde a una creazione dal nulla, come a partire dalla tradizione cristiana sarà interpretata l’attività di Dio. Il materiale di cui ò costituito il mondo, pur essendo una sorta di ricettacolo di tutte le cose generate, offre resistenza all’azione del demiurgo. Il mondo generato, dunque, non risulta perfetto come il modello: di qui i processi di aggregazione e disgregazione che contrassegnano le entità di questo mondo e che avvengono nello spazio. La materia ò definita da Platone come necessità o concausa nel processo di generazione del mondo, nel senso che essa ò la condizione necessaria perchè il mondo possa essere prodotto Su di essa il demiurgo innesta la propria azione finalistica. Infatti, in quanto foggiato secondo il modello delle idee, il mondo presenta al suo interno una struttura e una regolarità , le quali fanno di esso un ordine e non un insieme caotico. Il mondo ò dunque il risultato dell’azione intelligente del demiurgo, che ha come fine il meglio, secondo quanto Platone aveva già sostenuto nel Fedone. I quattro elementi tradizionali, terra acqua aria fuoco, i quali entrano a comporre tutti i corpi dell’universo fisico, sono costituiti a loro volta dalla combinazione di figure geometriche elementari, ossia di triangoli. Formando una serie di poliedri regolari, essi danno luogo a quella che ò stata paragonata a una sorta di struttura cristallografica dell’universo. La matematica ò dunque la base secondo la quale l’universo stesso ò strutturato e, insieme, lo strumento chiave per poterlo conoscere. In più le matematiche, come Platone aveva già chiarito nella Repubblica, rimandano al mondo delle idee. L’ordine dell’universo, a sua volta, ò garantito dal movimento circolare degli astri, nella sua immutabilità e regolarità ; inoltre, gli astri non sono altro che divinità . L’astronomia matematica, che studia il loro movimento, tende ad assumere nellâultimo Platone una posizione di primato tra le scienze. Il tempo, come Immagine mobile dell’eternità , ò misurato secondo il moto degli astri. L’universo, essendo generato, non può essere incorporeo come le idee che ne sono il modello, ma, essendo imitazione del modello (che ò uno, pur nel]a molteplicità delle idee che lo costituiscono), anche il mondo generato non può essere che uno e di forma sferica. D’altra parte, ciò che possiede vita e intelligenza, secondo Platone, ò superiore a ciò che non le possiede. Il Sofista aveva chiarito che lo stesso mondo dellâessere include al suo interno movimento e vita, anima e intelligenza. Così nel Timeo Platone introduce la nozione di un’ anima del mondo: anche il mondo ò dotato di un’anima intelligente, foggiata dal demiurgo secondo precise proporzioni numeriche, cosicchè nel suo complesso esso risulta una sorta di grande organismo vivente. Il modello finalistico, che guida l’azione costruttrice del demiurgo, spiega anche la costituzione degli astri, dei vari esseri viventi e, in particolare, del corpo umano nelle sue articolazloni e nei suoi organi. Su questa base Platone spiega, sempre nel Timeo, anche la formazione delle percezioni dei singoli organi di senso e la collocazione delle varie parti dell’anima in specifiche parti del corpo. L’anima razionale ha la sua sede nel cervello, mentre la parte animosa ò collocata nel cuore e quella appetitiva nei visceri. La prevalenza di una parte sulle altre spiega le differenze nel tipo di vita tra gli uomini. Le stesse malattie dell’anima possono essere collegate a una cattiva disposizione del corpo, oltre che a una cattiva educazione. Il mondo animale, nella varietà delle sue specie, non ò altro che il derivato della corruzione di determinate anime umane. Contrariamente alla tesi della parità tra uomini e donne sostenuta nella Repubblica, il primo derivato di questa corruzione ò indicato da Platone in uomini, che, vissuti ingiustamente, nella seconda generazione si sono trasformati in donne. Seguono poi nell’ordine uccelli, animali pedestri e selvatici e, peggiori di tutti, gli animali acquatici. VITA BUONA E LEGGI Nel Timeo il mondo fisico appare come un’approssimazione, un’immagine rispetto al modello ideale. Anche per la città Platone si pone il problema di trovare un’approssimazione rispetto al modello di città giusta elaborato nella Repubblica. Si tratta di mettere in movimento quel modello statico nella sua perfezione, per renderlo in qualche modo compatibile con l’imperfezione e la debolezza della maggior parte degli uomini. Sullo sfondo di questa impostazione agisce la consapevolezza, acquisita da Platone, del fallimento dei suoi tentativi politici a Siracusa. Ma ò anche presente la cosmologia del Timeo, che ha descritto la formazione del mondo naturale, entro il quale si colloca anche la vicenda politica degli uomini e la formazione della città . Tutto ciò si accompagna a una rinnovata riflessione sui caratteri della vita etica e politica. In uno dei suoi ultimi dialoghi, anteriore al Timeo, ossia il Filebo, Platone si pone il problema di definire il bene non tanto in se stesso, quanto in relazione alI’uomo: qual ò la vita buona per l’uomo? Egli torna a escludere che il bene per l’uomo possa essere identificato con il piacere, come all’interno dell’Accademia sosteneva probabilmente Eudosso. Egli obietta, infatti, che, senza riferimento all’intelligenza, non si può neppure sapere di star provando piacere. Ciò non significa che la vita buona si possa identificare con una vita soltanto di scienza, consistente nel solo uso dell’intelletto, come tendevano a sostenere alcuni suoi discepoli nell’Accademia, Speusippo e Senocrate. Anche l’attività conoscitiva, infatti, può essere piacevole. La soluzione ò che la vita buona consiste in una mescolanza proporzionata di intelligenza e piacere. Tuttavia, molteplici sono i tipi di intelligenza e di sapere: non ogni tipo di sapere nè ogni tipo di piacere deve entrare a far parte di quella mescolanza, nella quale consiste la vita buona. Platone riprende la sua consueta concezione gerarchica delle forme del sapere. Essa pone ogni tipo di sapere tecnico nel gradino più basso, al di sopra di questo pone le matematiche e al vertice la dialettica. Analogamente, tra i piaceri, la posizione più elevata ò occupata dai piaceri disinteressati della conoscenza, della vista e dell’udito, in quanto essi non sono legati al soddisfacimento di bisogni e sono quindi, puri ed estranei ad ogni mescolanza col dolore. Sono questi che debbono entrare come costituenti nella vita mista. Il problema ò di ricercare una misura, una giusta proporzione nell’effettuare la mescolanza dei due ingredienti della vita buona. La misura e il numero sono il limite che disciplina e ordina ciò che ò illimitato e disordinato. Tale ò i1 dominio dei piaceri, che, come il caldo o il freddo, sono suscettibili di gradazioni, ossia di aumenti e diminuzioni, all’infinito, senza limiti. Solo l’unione di limite e illimitato dà luogo al genere misto, comprendente tutto ciò che ha proporzione e bellezza: qui trova posto la vita buona per l’uomo. Ma in che consiste la vita di quel particolare tipo di uomo che ò il politico ? Nel dialogo intitolato appunto Politico, Platone descrive il vero uomo politico, sulle orme della Repubblica, come dotato di sapere. La sua attività di governo non ò analoga a quella di un pastore. La metafora, già risalente ad Omero, del re come pastore di popoli presume che i soggetti dell’attività di governo del re appartengano ad una specie inferiore. Questo modello può funzionare, secondo Platone, soltanto in relazione all’età antichissima di Crono, ossia all’età dell’oro. In essa gli uomini erano affidati alle cure di demoni superiori ad essi, i quali, come racconta Platone stesso in un mito, provvedevano al soddisfacimento di tutte le loro necessità . Ma nell’età attuale, quella in cui Zeus domina sugli altri dei, gli uomini non sono più governati da demoni o dei, che provvedano direttamente alle loro necessità . L’età attuale, contrassegnata dalla scarsità dei beni necessari alla sopravvivenza, impone che sia l’uomo a provvedere con le attività tecniche e col lavoro a soddisfare le proprie necessità . In questa situazione il politico ò uomo tra gli uomini. Il suo compito ò analogo, anzichè a quello del pastore, a quello di un bravo tessitore, capace di intrecciare tra loro tutte le tecniche esercitate dai suoi concittadini, sì da fare della città un buon ordito. Per ottenere questo risultato bisogna, anche su questo piano politico, un’arte della misura, capace di evitare l’eccesso e il difetto. In tal modo, le doti degli uomini coraggiosi e intelligenti risulteranno intrecciate secondo una giusta misura: come già nella Repubblica, la funzione del politico ò in primo luogo educativa. L’esistenza di un vero uomo politico, dotato di quest’arte della misura, rende inutile, come già avveniva nella città ideale della Repubblica, un corpo di leggi. Nel Politico, Platone precisa che le leggi contengono norme generali valide per tutti i membri della città , senza tener conto delle differenze individuali, della diversità delle circostanze e del modificarsi delle situazioni. Il vero politico, invece, ò come un medico capace di tener conto di tutte queste variabili. Egli ò quindi in grado di adattare le sue prescrizioni ai casi singoli nella loro varietà , in vista di ciò che ò meglio per ciascuno. Egli ò dunque pronto a modificare ciò che ha prescritto in passato, se ciò si rende necessario per il mutare delle circostanze o perchè egli ò giunto a conoscere rimedi migliori. Platone tuttavia riconosce che, qualora non esistano veri uomini politici capaci di procedere in questo modo, allora ò necessario ricorrere alle leggi, come via di ripiego per evitare mali peggiori. Solo il rispetto delle leggi e la loro conservazione inalterata può in questi casi evitare la degenerazione delle varie forme di governo. Proprio su questo punto si registra la massima distanza dell’ultima opera di Platone, le Leggi, rispetto alla Repubblica. Platone considera ora condizione imprescindibile per la fondazione di una città un corpo di leggi. Esse debbono essere imposte e fatte rispettare, infliggendo pene a coloro che le infrangono, anche se Platone ritiene indispensabile far precedere le leggi da preamboli, che persuadono i cittadini chiarendo le ragioni che rendono necessaria l’introduzione di leggi. Tutta la vita privata e pubblica non solo dei cittadini, ma anche dei non cittadini residenti in città , schiavi e meteci, ò sottoposta a una rigida e mi
- Filosofia