Platone nacque ad Atene nel 427-428 a. c. e morì nel 348-347 circa: si ò a lungo discusso sul suo soprannome ( Platone, infatti, è solo un soprannome, in quanto il vero nome era Aristocle ): si ò concordi sul fatto che derivi dall’aggettivo greco “platùs” (ampio). Vi ò chi sostiene che l’aggettivo vada attribuito alla larghezza e alla fluità del suo stile, chi ò invece del parere che sia dovuto alla sua fronte particolarmente ampia e chi sostiene che fosse un soprannome datogli dal suo insegnante di ginnastica a causa dell’ampiezza delle sue spalle. Pur essendo un autore di circa 2400 anni fa, egli affronta problemi che possiamo accomunare a quelli dei giorni nostri: la sua ò un’ epoca di passaggio tra oralità e scrittura e lui ò il primo ad affrontare questo problema. Di Platone possediamo praticamente tutte le opere(probabilmente molte gli sono attribuite pur non essendo effettivamente sue), ma paradossalmente egli stesso ci dice che la vera filosofia ò solo orale. All’inizio del 1800 un teologo luterano di nome Schleirmacher effettuò un gran lavoro sulle opere di Platone ignorando però totalmente quanto abbiamo appena detto: egli esaminò infatti la filosofia platonica con il mezzo del “sola scriptura”(solo mediante la scrittura: era un celebre motto di Lutero): non si curò assolutamente del fatto che per Platone la filosofia fosse solo orale, rifiutando tra l’altro di servirsi di scritti non realmente platonici. Il teologo luterano ebbe però il merito di introdurre un altro metodo per esaminare la filosofia platonica: si trattava del sistema ermeneutico (la parola deriva da Hermes, messaggero ed interpretatore divino; in Italiano la parola ha assunto il significato di “tecnica dell’interpretazione”): era (ed ò) infatti difficile definire la filosofia platonica, in quanto non ci troviamo di fronte ad un sistema, ma ad un insieme: il “corpus” platonico, come quello dell’Antico e del Nuovo Testamento, ò costituito da una molteplicità di libri; la tecnica dell’ermeneutica consiste nel riuscire a contestualizzare un testo, al fine di comprenderlo, servendosi delle nozioni generali, in questo caso, della filosofia platonica: ò come quando leggiamo un articolo di giornale; in realtà non partiamo proprio da zero e tramite la lettura dell’articolo ampliamo le nostre conoscenze. Platone fu discepolo del celebre Socrate e visse in prima persona l’ingiusta condanna del maestro (della quale si fa portavoce nell’ Apologia ): nasce proprio da questa esperienza la filosofia platonica. Egli rimane profondamente deluso dalla politica: prima vi era stato il governo filo-spartano dei Trenta Tiranni, di cui era membro niente meno che il suo stesso zio Crizia: Platone rimase deluso dal loro dominio dispotico e violento. Delusione e sfiducia gli procurò anche la democrazia restaurata, che nel 399 mandò a morte Socrate (in parte si trattava proprio di una condanna politica: Socrate era infatti un aristocratico e pur avendolo accusato di empietà e di corrompere i giovani, il vero motivo della condanna era di origine politica: i suoi “seguaci”, mentre attendeva in carcere il giorno dell’esecuzione, prepararono un piano per farlo evadere, ma lui si rifiutò di compiere tale azione perchò era del parere che fosse un grande errore violare la legge: egli aveva infatti gran rispetto per la legge, che a suo avviso poteva essere criticata ma non infranta; quindi di fronte ad una legge ingiusta non bisogna reagire infrangendola, bensì battersi per farla modificare in meglio: e Socrate si accusa proprio di non essere riuscito a fare questo). Il tema della condanna di Socrate viene da Platone affrontato anche nel ” Critone “, dialogo che prende il nome da Critone, un agiato ateniese coetaneo di Socrate e, come ci dice Senofonte, suo discepolo devotissimo. La scena si svolge nel carcere in cui Socrate deve soggiornare in attesa della morte. Critone cerca di persuadere Socrate ad evadere: tenta di convincerlo dicendo che se non fuggirà la gente biasimerà i suoi amici per non averlo aiutato; Critone dice poi che tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta sono superabili e che rimanendo in carcere Socrate danneggerà se stesso, i figli e gli amici. Poi prende la parola Socrate, che si ostina a preferire la permanenza in carcere: a sua difesa dice che la vita di un uomo deve essere coerente con le sue dottrine: la legge non va violata in nessun caso: Socrate ha sempre rispettato le leggi e non vuole violarle proprio ora: ò ormai vecchio e trasgredire le leggi dopo aver condotto una vita corretta, il tutto per vivere solo i pochi anni di vita che gli resterebbero, sarebbe un’assurdità , un’incoerenza. Il problema di fondo ò se evadere sia giusto oppure no: per Socrate chiaramente non lo ò, e commettere ingiustizia ò gravissimo e più dannoso per chi la commette che non per chi la subisce. Socrate pronuncia poi una celeberrima frase: non bisogna tenere in massimo conto il vivere come tale, bensì il vivere bene, ed il vivere bene ò lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia. Se non avesse vissuto tale esperienza probabilmente si sarebbe dedicato ad attività di tutt’altro genere; egli infatti era aristocratico sia per origini sia per orientamento politico ed ò proprio alla vita politica che egli si sarebbe dato se non avesse vissuto la condanna politica del suo maestro. La politica, tuttavia, ò una componente che sarà sempre in qualche modo presente nelle sue opere. Perchò Platone amasse tanto l’oralità e il dialogo ò facile intuirlo: il dialogo presenta parecchi vantaggi tra i quali la possibilità di interloquire e di modulare il discorso in base a chi ci si rivolge: un libro, invece, non consente un dibattito e può finire nelle mani di persone che potrebbero fraintenderlo; Platone stesso dice che c’ò un aspetto che accomuna scrittura e pittura: le immagini dipinte si presentano quasi come se fossero vive, ma se si chiede loro qualcosa, chiaramente, tacciono; lo stesso vale anche per i discorsi scritti: si può quasi avere l’impressione che parlino, ma se si chiede loro di spiegare qualcuno dei concetti che hanno espresso, essi non rispondono. Tuttavia, come abbiamo detto, egli stesso ha scritto molto(sotto il suo nome ci sono giunti 35 dialoghi e 13 lettere, la cui stesura viene generalmente suddivisa in 3 periodi della sua lunga vita: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia). Che funzione aveva dunque la srittura per Platone? Egli, pur prediligendo apertamente l’oralità , sente il bisogno di scrivere(probabilmente anche dettato dal periodo di transizione in cui viveva)e la scrittura svolge per Platone principalmente due ruoli: uno propagandistico, vale a dire cercare di invogliare alla filosofia, l’altro rammemorativo, cioò far ricordare la filosofia a chi già l’ha vissuta(ad esempio le persone anziane). Si può quindi dire che anche la scrittura avesse una sua utilità , pur non essendo un “filosofare”pieno: in una sua opera Platone la definisce “un gioco serio”, vale a dire un passatempo piu’ intelligente di molti altri. Egli argomenta in favore dell’oralità in un mito di ambientazione egizia, simbolo per i Greci di una grande civiltà : il protagonista ò Teuth, divinità della scrittura e della saggezza. Egli ò un inventore dalle grandi abilità e presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo; quando però Teuth propone l’invenzione della scrittura, spiegando che serve a ricordare, il faraone non approva, sostenendo che, al contrario, sortirebbe l’effetto opposto: mettendo le cose per iscritto, infatti, non ò più necessario ricordarle. Proprio nel ricordare consisteva la sapienza: le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone. E’ un’evidente difesa dell’oralità mediante un mito platonico, inventato di sana pianta, cosa che per altro Platone faceva spessissimo. Può sembrare strano che un filosofo, che per definizione ò chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche, si serva del mito, che non ò nient’altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione: la verità ò che per Platone il mito ò una cosa al di fuori del comune, che ha ben poco a che fare con la tradizione. Egli sapeva bene che l’argomentazione razionale era migliore, ma sapeva altrettanto bene che un mito, una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti: stimolano la fantasia, divertono e restano meglio impressi. Platone se ne serve dunque come arma impropria dell’intelletto. Inoltre ò convinto che si possa dimostrare l’immortalità dell’anima, ma non razionalmente: si serve cosi’ di miti esplicativi, detti escatologici: non a caso si parla di “fede razionale”di Platone. Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere particolari livelli della realtà : aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro intorno all’essere, che corrispondeva al pieno livello di conoscenza(ò pienamente conoscibile solo una cosa che ò, che esiste pienamente): più ci si allontana dall’essere(sia più in alto, sia più in basso) e più la conoscenza diventa inferiore. Una cosa non pienamente conoscibile non ò pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne ò il mito. Un mito molto interessante ò quello raccontato nel “Fedro”, una dei dialoghi più conosciuti: Platone tratta qui un argomento non pienamente raggiungibile con la ragione, anche se il nucleo ò alquanto razionale: racconta dell’esistenza dell’anima e dell’incarnazione. Per Platone l’anima ò una biga trainata da cavalli alati: essa ò composta da tre elementi: un auriga e due cavalli. Nell’esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo, con la possibilità di raggiungere un livello superiore, l’iperuranio, una realtà al di là del mondo fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee, che esamineremo in seguito, secondo la quale vi erano due livelli di realtà : il nostro mondo e le idee. L’auriga impersonificava l’elemento razionale, mentre i cavalli quelli irrazionali: ciò significa che la nostra anima ò per Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali. Dei due cavalli, uno, di colore bianco, ò un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo, l’altro, nero, ò tozzo, recalcitrante ed incapace: compito dell’auriga ò riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco. Il nero si ribella all’auriga (la ragione)e rappresenta le passioni più infime e basse, legate al corpo. Il bianco rappresenta le passioni spirituali, più elevate e sublimi. Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono negativi e che ò comunque impossibile eliminarli: si possono solo controllare con la “metriopazia”, la regolazione delle passioni. E’ una metafora efficace perchò ò vero che guida l’auriga, ma senza i cavalli la biga non si muove: significa che le passioni sono fondamentali per la vita. Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale, in quanto dotata di sapere, spetta il governo dell’anima. Anche le anime degli dei hanno i cavalli, ma solo bianchi. Lo scopo ò arrivare all’altopiano dell’iperuranio: gli dei non incontrano particolari difficoltà , mentre le bighe delle anime umane hanno seri problemi perchò si creano ingorghi ed i cavalli neri tendono a volare nella direzione opposta, verso il basso. Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti sulla terra: questa ò l’incarnazione. Una volta arrivato sulla terra, l’uomo non si ricorda più dell’altra dimensione, e vive con nostalgia: la vita dell’uomo non ò nient’altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale e le vie da percorrere per raggiungerla sono due, vale a dire la filosofia, che ci consente di vedere le ombre di quel mondo splendido, di cui quello terreno ò solo un’imitazione, e la bellezza, una via più semplice, che fa nascere l’amore; se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall’auriga l’amore assumerà connotazioni sublimi, se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico. La bellezza ò una delle tante idee e filtra facilmente nel mondo sensibile perchò ò coglibile per tutti grazie ad un senso, la vista. Secondo Platone per gli occhi degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli s’erano spezzate cosi’ che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale: il liquido che viene a contatto con l’ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare; proprio quando essa sta ricrescendo, esattamente come i primi denti che spuntano, fa soffrire. Quando si ò vicini alla persona amata, contemplandola scorre nuovo flusso che fa passare il dolore dell’anima alimentandola. Quando si ò lontani dalla persona amata, invece, non arrivando più il flusso, le ali si inaridiscono e si seccano, accentuando il dolore e la sofferenza. Quindi l’innamorato farà di tutto per vedere il più spesso possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene. Il concetto di amore platonico che abbiamo oggi deriva dal medioevo e non ò completamente corretto in quanto i Medioevali credevano che per un innalzamento spirituale non ci dovesse essere amore fisico; per Platone c’ò una scala gerarchica dell’amore: nei gradini più bassi si trova l’amore fisico, ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i gradini. Per Platone l’anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte: l’una ò spirituale e legata all’Iperuranio, alla dimensione delle idee, mentre l’altro ò puramente materiale, affine al mondo sensibile e terreno, e soprattutto ò mortale. Mentre il corpo spinge l’uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso, l’anima lo induce a cercare piaceri sublimi e spirituali. Va senz’altro notato come Platone riprenda la teoria dei Pitagorici(e degli Orfici )secondo la quale il corpo ò la prigione dell’anima(si giocava sulla parola greca “soma” che indica il corpo e “sema”, che indica invece la prigione). Il contrasto anima-corpo lo si affronta anche da un punto di vista gnosologico: il corpo talvolta ci aiuta a conoscere, talvolta ci ostacola: se si disegna un triangolo rettangolo e ci si ragiona, da un lato può essere un aiuto per passare all’astrazione e passare all’idea di triangolo, che ò ben diversa dal triangolo disegnato che ò solo un’imitazione mal riuscita, dall’altro può essere un ostacolo se ci si limita a ragionare su quel singolo triangolo senza passare al livello di astrazione. La principale differenza tra l’amore di oggi e quello dei tempi di Platone ò che al giorno d’oggi abbiamo in mente un amore “bilanciato”, biunivoco, dove i due amanti si amano reciprocamente; ai tempi di Platone era univoco, uno amava e l’altro si faceva amare: nel mondo greco o l’uomo amava la donna o l’uomo amava l’uomo: l’omosessualità era diffusissima. Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco, che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi: secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di “specchio”: in realtà l’amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchò vede riflessa la propria bellezza; ò una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di Dante: “amor, ch’a nullo amato amar perdona… “: ò come se chi ò amato si innamorasse del sentimento stesso. Platone ci parla dell’amore(in Greco “eros”, che designa l’amore passionale ed irrazionale, diverso da “agapò”, l’amore puro)nel ” FEDRO “: in realtà gli argomenti trattati sono due: 1)l’eros 2)la retorica. Quella di Platone, oltre ad essere un’epoca di passaggio tra oralità e scrittura, ò anche un’epoca in cui emerge un importante quesito: come si fanno ad educare i cittadini? Vi era chi rispondeva che l’unica via era la filosofia(tra questi Platone stesso), e chi, come Isocrate, sosteneva che per tale funzione ci fosse la retorica. Platone, dunque, vuole argomentare in difesa della filosofia: le vicende si svolgono nella campagna circostante Atene, in una calda giornata estiva. Protagonista ò Socrate, che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l’autore matura tenda a sfumare; Socrate in campagna si imbatte in Fedro, un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano e Fedro mostra a Socrate un’orazione di Lisia, uno dei più grandi oratori greci, che si ò appena trascritto: ò un’orazione riguardante l’amore a carattere “sofistico”, si cercano cioò di dimostrare cose paradossali ed assurde: Lisia (va senz’altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano)cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama: Lisia parte dal presupposto che l’amore sia una “follia” e che concedersi a chi ama ò una stoltezza: si avrebbe un amore troppo “appiccicaticcio” che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l’innamorato-amante; poi dopo che ò passato l’ardore iniziale si torna in sò e ci si rimprovera di esseresi comportati così da “rimbambiti” e si finisce per soffrire di continuo. Con una persona non amata ò chiaro che ci si comporterebbe in tutt’altro modo: più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all’amato non amato. Socrate a sua volta imposta due discorsi: nel primo conferma la tesi lisiana, mentre nel secondo sostiene che il suo “demone”(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo, facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando. Anche per Socrate l’amore ò una follia, però, a differenza di Lisia, per lui ò positiva: vi sono infatti follie dannose e negative, ma anche positive e benigne. Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell’amore (“Eros”). E’ difficile comprendere quale sia il tema centrale(l’amore? La retorica? ); fatto sta che sono due argomenti strettamente connessi tra loro in quanto l’amore (l’eros)ò una metafora per indicare la filosofia: questa stretta parentela Platone la esamina meglio nel “SIMPOSIO”(dal Greco sun+pino=bere insieme), il suo capolavoro: Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un amico; allora invita anche l’amico e quando sono ormai arrivati, Socrate comincia a riflettere intensamente. Durante i simposi (all’epoca non c’era la TV e le serate si trascorrevano cosi’)veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all’altro e selezionare l’argomento da trattare. Si sceglie di parlare dell’amore: c’ò chi dice che Eros ò la divinità più giovane e più bella, chi dice che ò la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto, chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura, chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando, c’ò chi ò del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra, facendo riferimento all’episodio mitico secondo il quale Ares, il dio della guerra, sarebbe innamorato di Afrodite. Aristofane, celeberrimo commediografo, narra una storia semiseria: si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi: questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza; gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo(l’ombelico)sulla schiena; poi lo posizionarono sulla pancia perchò si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso: questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l’altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e cosi’ morivano di fame; cosi’ gli dei crearono l’atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione. Questo mito originale ci spiega due cose: 1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo. 2)il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale. Notare che nel mondo greco la forma sferica ò sempre vista come unità originaria perfetta( cosi’ era già in altri grandi filosofi quali Empedocle, Parmenide… ). Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità : il discorso finale di Socrate non sarà nient’altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti. Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa(Diotima)che gli ha rivelato tutti i misteri dell’eros: viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite: tra le varie divinità ci sono anche Poros(astuzia, furbizia)e Penia(povertà ). Essi, ormai ubriachi per l’eccessivo bere, si uniscono e viene cosi’concepito Eros, che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: ò ignorante, povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non ò bello, ma sa andare a caccia della bellezza; egli sente l’amore ed ò soggetto della ricerca della bellezza e dell’amore, svolge le mansioni dell’amante e non dell’amato. Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede: così il filosofo ò privo e bisognoso del sapere (penia=povertà ), ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui ò privo (poros=astuzia, espediente); dato che Eros ò privo di bellezza e le cose buone sono belle, manca anche di bontà ; ciò che non ò bello o buono, non ò necessariamente brutto e cattivo; per Platone vi ò un livello intermedio; tra il sapere e l’essere ignoranti la via di mezzo consiste nell’avere buone opinioni, senza però darne ragione; la posizione intermedia comunque non ò un male perchò ò uno stimolo per arrivare al top: chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova, chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchò ò già nella posizione ottimale: chi si impegna e lavora ò chi si trova in una zona intermedia (i filosofi, che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere). Tutti gli dei, gli aveva detto Diotima, sono belli e buoni e di conseguenza Eros non rientra nella categoria. Anche da questo punto di vista Eros riveste una posizione intermedia: non ò un dio, ma neanche un mortale: ò un qualcosa che nasce e muore di continuo; ò una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai possedere totalmente l’amore; ò anche metafora della filosofia perchò l’uomo non possiede il sapere, ma si sforza per ottenerlo; può riuscire ad avvicinarvisi, ma non si tratta comunque di una conquista definitiva: il pieno sapere ò irraggiungibile. Dunque Eros ò una semi-divinità intermedia. Nella struttura sociale dell’epoca l’omosessualità era tipica dei filospartani e di coloro che avevano un’impostazione culturale arcaica: ò questo il caso di Socrate e Platone. Il rapporto veniva vissuto “pedagogicamente”, vale a dire che era un rapporto di tipo maestro- allievo. A differenza dell’amore eterosessuale, di livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale, quello omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale: vengono fecondate le anime per procreare nuove idee. Propriamente in Socrate non si parlava di amore, ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della maieutica(Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un’ostetrica: lei faceva partorire le donne, lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide da far partorire; Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle anime, che chiaramente non devono essere sterili. Ben si intuisce che la ricerca dell’amore combacia con quella della filosofia. Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il famoso Alcibiade, totalmente ubriaco, che racconta pubblicamente di aver fatto delle “avances” a Socrate, che però non ha accettato: lui, bello, giovane, aitante con un vecchio decrepito che non ci sta: il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di quella interiore, ed ò anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica dell’amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta: egli ò totalmente immerso nella sua realtà , ma non si lascia catturare: ai festini lui partecipa tranquillamente, pur non identificandovisi; dagli altri si distingue perchò mantiene sempre la sua capacità di giudizio(nel Simposio ò l’unico a non addormentarsi). Nella LETTERA 7°(non si ò certi se sia realmente opera di Platone: la maggior parte delle lettere, infatti, sono false in quanto compaiono dottrine posteriori a quelle platoniche. Si ò quasi sicuri sull’autenticità della Lettera 7° in quanto sono effettivamente presenti le ideologie platoniche e lo stile; a supportare ulteriormente questa tesi sta il fatto che non ò mai successo che un falsario abbia inventato un genere tutto nuovo come questo: la lettera 7° infatti ò una lettera “aperta” finalizzata a fare “pubblicità ” alle ideologie platoniche ) vi ò una sua autobiografia dove ci racconta anche di un incontro con il tiranno di Siracusa Dionigi. Nella mente di Platone ò fortemente radicata l’idea che ci sarà un buon governo solo quando o i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi; proprio la conoscenza dell’idea del bene rende legittima l’attribuzione del governo ai filosofi(conoscere il bene significa conoscere ciò che rende buone le cose); a sua volta, il governo della città dipende dal buon uso del sapere. Per chiarire in che cosa consista questo uso del sapere Platone introduce nella “Repubblica”, una sua celebre opera, il mito “della caverna”; egli paragona il processo conoscitivo, che attraversa i vari gradi sino a culminare nella conoscenza dell’idea del bene, ad un processo di liberazione da catene che ci tengono imprigionati nel fondo di una caverna sino all’uscita alla luce del sole: Dopo che ci si ò liberati dai legami sensibili che tengono imprigionati nella caverna rischiarata artificialmente soltanto da un fuoco, si arriva soltanto lentamente ad abituarsi alla luce del sole. Il sole ò appunto l’analogo del bene. Platone si capaciterà definitivamente che quello dei filosofi re o dei re filosofi ò un progetto irrealizzabile (lo stato ideale per Platone non ò quindi realizzabile su questa terra: ò solo un’idea, e come tale appartiene al mondo intellegibile delle idee) proprio da questo incontro; Platone cercò di insegnare la filosofia a Dionigi ed il risultato che ottenne fu che il tiranno scrisse un libro dove spacciava per sue le idee di Platone, il quale si indignò parecchio e ribadi’ che la vera filosofia ò solo orale, ò un dibattito aperto tra due o più individui dal cui “scontro”, come da quello di due pietre, prende vita una fiamma, che rappresenta la conoscenza che coglie l’uomo: secondo Platone, talvolta, ò la conoscenza che si impossessa dell’uomo; a volte, invece, si serve della metafora della caccia per indicare che l’uomo deve andare alla caccia del sapere. Platone per definire la filosofia, oltre a quella dell’eros, si serve di un’altra efficace metafora: paragona la filosofia alla medicina che con Ippocrate aveva raggiunto livelli elevati. Per Platone la filosofia ò come una sorta di medicina per l’anima. Ma non si accontenta di dire questo e attacca ancora una volta la retorica affermando che la filosofia sta alla retorica come la medicina alla gastronomia. La medicina si occupa del corpo e la filosofia dell’anima: pure la gastronomia si occupa del corpo, come la retorica dell’anima. La medicina però si occupa del bene del corpo, mentre la gastronomia del piacere; cosi’ vale anche per la filosofia e per la retorica: una si occupa del bene dell’anima, l’altra del piacere. La filosofia fornisce all’anima un nutrimento piacevole e sostanzioso. La retorica le fornisce solo un piacere: sentire una persona pronunciare discorsi raffinati ed eleganti ò senz’altro piacevole, ma se sono privi di verità (come nel caso della retorica, che ò proprio l’arte del parlare)sono totalmente inutili. vi ò quindi una distinzione tra bene e piacere, che non si identificano affatto tra di loro: contro l’identità bene-piacere vi sono diverse argomentazioni da parte di Platone, nessuna delle quali risulta però totalmente convincente; fatto sta che ad avere a che fare con il piacere sono principalmente le persone peggiori. Platone dice che il piacere può essere considerato bene nella misura in cui ò razionalmente controllabile (pare, per esempio, che Socrate non disdegnasse il vino, ma che comunque sapesse regolarsi); il bene può infatti riuscire a controllare il piacere. Dunque il vero piacere ò quello che viaggia di pari passo con il bene, senza separarsene: tuttavia bene e piacere non si identificano: il piacere in alcune sue forme può essere un bene, in altre un male. Quindi l’argomentazione in realtà si limita a dire che piacere e bene sono due cose distinte e che tuttavia dove c’ò piacere non c’ò necessariamente male. Il piacere non esiste mai “puro”: ò sempre accompagnato dal dolore: nel “Gorgia”, un’altra grande opera platoniana, si fa addirittura notare che il piacere ed il dolore sono la stessa cosa: un caso con cui possiamo esemplificare ciò che intendeva Platone ò quello della fame e della sete, entrambe forme di dolore; il dolore consiste nel provare la sete(o la fame) e il piacere nel soddisfare l’esigenza bevendo(o mangiando, nel caso della fame); se sparisce il dolore, sparisce anche il piacere. Per cui se sparisse la sete, ò vero che non soffriremmo più, ma non proveremmo neppure più piacere. Un quesito che ha sempre crucciato l’uomo ò quello di come si fa a sapere, a conoscere. I sofisti sostenevano ch e non si può imparare perchò o già una cosa la si conosce o non la si conosce: nel secondo caso ò impossibile trovare una cosa che non si sa cosa sia, come sia fatta. Socrate stesso aveva detto che non si poteva insegnare, ma solo imparare tramite la maieutica, la tecnica con la quale faceva partorire le anime. Questo tema Platone lo affronta soprattutto nel “Menone”. Ancora una volta Platone assume una posizione intermedia, servendosi in parte delle affermazioni dei sofisti: se ò vero quel che dicono i sofisti e uno dei loro più grandi esponenti, Gorgia, (cioò che non si può imparare e quindi neanche insegnare), si può ricordare: una cosa che ci siamo dimenticati e ci torna in mente, non possiamo dire di conoscerla ma neanche di non conoscerla. Dunque per Platone il processo attraverso il quale si impara e si conosce ò puramente di rammemorazione(in Greco anamnesis). L’unico modo di considerare il sapere come “ricordare”ò quello di fare una ipotesi piuttosto strana(ragionare per ipotesi significa vedere quale ò la condizione che bisogna ammettere perchò si verifichi un determinato fatto): l’unica ipotesi per Platone valida ò quella della preesistenza dell’anima. Nel Menone il corpo viene visto proprio come prigione dell’anima. Anche nel “Fedone”, dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua morte, Socrate parla con due Pitagorici a riguardo della preesistenza dell’anima: egli li porta a capire la questione servendosi di esempi: tira in ballo la scienza dell’uomo e quella della lira, che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate afferma che agli innamorati, nel momento in cui vedono una lira o un vestito che il loro amato ò solito usare, succede quanto segue: riconoscono la lira e nel pensiero colgono l’idea del ragazzo a cui appartiene la lira: la reminescenza consiste proprio in questo, riuscire a ricordarsi cose tramite vari “agganci”, aspetti che stimolano il ricordo. Nel “Menone” Socrate parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande mirate e legate al teorema di Pitagora; chiaramente lo schiavo non lo conosce, ma Socrate ponendogli solo domande specifiche lo porta alla soluzione: ò un tipico caso di maieutica. L’unica spiegazione possibile ò che lo schiavo si ricordi di un qualcosa che già conosceva, ma aveva dimenticato: dato che non l’ha conosciuto nell’attuale vita significa che l’ha conosciuto in un’altra dimensione(l’altopiano dell’iperuranio). Tale dimenticanza ò legata al momento dell’incarnazione: nella sua vita terrena l’uomo può avere momenti in cui ricorda. L’apprendimento ò quindi interpretato come il recupero di conoscenze acquisite dall’anima prima di incarnarsi in un corpo, ma dimenticate al momento della nascita e rimaste latenti in essa. Si definisce giustamente Platone “INNATISTA”, perchò sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni elementi di conoscenza. Lo schiavo il teorema ce l’aveva già nella sua mente, si trattava solo di ricordarglielo. Quali sono dunque le vie per ricordare? Un modo, come nel Menone, ò avere qualcuno che ci aiuti(Socrate), un altro(più impegnativo)ò usare bene la propria esperienza(come nel caso di Pitagora, che per primo si ricordò con la sua esperienza del teorema che gli viene attribuito: in realtà lui non l’ha inventato, se l’ò solo ricordato per primo). Oltre a sostenere la preesistenza dell’anima, Platone era anche convinto della sua immortalità e della sua eternità : l’anima ò viva per definizione e un corpo ò vivo o morto a seconda che abbia o meno un’anima; l’anima, quindi, dà e toglie la vita. E’ un qualcosa che partecipa all’idea di vita e che di conseguenza non può partecipare a quella di morte, come il numero 3 partecipa all’idea di dispari e non può partecipare a quella di pari. Per Platone ciò che può corrompere l’anima ò l’ingiustizia; essa però non può distruggerla: se l’ingiustizia, che ò il suo male peggiore, non ò in grado di annientarla, ò chiaro che neanche i mali minori ce la faranno. L’anima, essendo increata, ò anche eterna ed immutabile. Per Platone vivere significa prepararsi alla morte perchò il distacco dell’anima dal corpo va preparato moralmente: bisogna liberarsi dalle passioni legate al corpo superandole (un pò come era per i Pitagorici e per gli Orfici: occorreva purificarsi). Dal punto di visto gnosologico, l’anima disincarnata coglie facilmente le idee nell’Iperuranio; in Platone compare la frase “omoios teo”, che significa ottenere un tale perfezionamento da diventare tutt’uno con la divinità : dice questo nel Teeteto dove dice testualmente che ” non ò possibile che i mali scompaiano del tutto perchò ò una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al bene, nò possono avere sede tra gli dei, ma si aggirano nella natura mortale e in questo nostro mondo qui. E’ per questo che bisogna anche sforzarsi di fuggire di qui a lassù al più presto. E fuga ò rendersi simili a Dio secondo le proprie possibilità : e rendersi simili a Dio significa diventare giusti e santi, e insieme sapienti “. Va poi ricordato che Platone aveva identificato diversi livelli di conoscenza, i cui 2 più importanti sono quello della conoscenza sensibile (doxa), basato su un sapere sensibile, instabile e dettato dalle opinioni, e della conoscenza intellegibile (episteme), sicura, certa e basata su cause vere e proprie. A noi viene da pensare che la differenza tra la doxa e l’episteme ad esempio quando osserviamo un libro consista nel conoscerlo meglio o peggio; pensiamo che guardandolo si abbia una conoscenza sensibile e superficiale, mentre esaminandolo da un punto di vista geometrico se ne abbia una intellettuale. Platone invece ò convinto che ad ogni livello di conoscenza corrisponda un oggetto preciso: non ò che cogliamo il libro prima con i sensi e poi con l’intelletto. Per Platone dopo che esaminiamo attentamente il libro in modo sensibile, esso ci rievoca con le sue forme geometriche l’idea di parallelepipedo, che ò totalmente differente dal libro stesso. Infatti il libro partecipa all’idea di parallelepipedo, cioò la imita, ma non lo ò: quando in matematica si dimostra su un parallelepipedo disegnato, in realtà si dimostra sull’idea stessa di parallelepipedo: le regole di dimostrazione valgono per tutti i parallelepipedi perchò in realtà vanno riferite solo all’idea del parallelepipedo; d’altronde le misure che risultano dalla dimostrazione non potranno mai essere esattamente compatibili con quelle del nostro disegno: lo sono esclusivamente con quelle dell’idea (quando noi diciamo di disegnare un triangolo rettangolo, diciamo un’assurdità perchò ò impossibile che un angolo risulti esattamente di 90°: in realtà esiste solo l’idea di triangolo rettangolo). Di conseguenza ci sono anche 2 soggetti conoscitivi: a conoscere il libro ò la sfera del sensibile(il corpo), mentre a conoscere il parallelepipedo ò la sfera dell’ intellegibile(l’anima). Tutto questo dimostra che vi ò una stretta parentela tra l’anima e le idee, che non a caso Platone dice essere costituite dello stesso materiale metafisico ed entrambe eterne: vale a dire che sono immutabili. Che cos’ò la dottrina delle idee? La parola “idea”, innanzitutto, deriva dalla radice greca “id-“che ò a sua volta riconducibile al verbo “orao”, vedere: ò quindi qualcosa che si può vedere ma non con gli occhi, bensi’ con l’intelletto; la percezione degli oggetti sensibili risveglia il ricordo delle idee dell’iperuranio, le quali permettono di misurare l’inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse. Cosi’ qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l’idea della bellezza nella sua perfezione ed immutabilità . L’idea di bellezza, per esempio, ò il modello ed il criterio in base al quale possiamo denominare belli determinati oggetti: infatti ò perchò già possediamo l’idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti. Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l’indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni ( un dialogo in cui troviamo un Socrate proiettato alla ricerca di definizioni è, per esempio, l’ ” Ippia Maggiore “, che ruota tutto intorno alla ricerca del bello ), ossia di risposte corrette alla domanda: “Che cos’ò x? “(dove x sta per bello, giusto… ). Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l’idea in questione(per esempio l’idea di bellezza, di giustizia… ). L’idea ò dunque un “universale”: ciò significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l’idea si predica, dicendoli per esempio belli o giusti, sono casi o esempi particolari rispetto all’idea: una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di bellezza, non sono la bellezza. Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento, soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse; proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere, qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. L’attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, ò descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell’ idea del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero. L’idea ò quindi dotata di esistenza autonoma, nò dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata; essa ò ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano. La partecipazione all’idea, per esempio, di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello. Si usa solitamente dire che le idee abbiano una triplice valenza: 1) Ontologica (dal participio del verbo essere greco): due cavalli, per esempio, si assomigliano perchò compartecipano all’idea. L’idea rende conto di ciò che una cosa ò. Le cose sono infatti quel che sono perchò imitano le idee. 2)Gnosologica (dal verbo greco “gignosco”, conoscere): noi conosciamo le cose perchò facciamo riferimento all’idea di uguaglianza: nella realtà empirica l’uguaglianza non esiste; essa esiste in un’altra dimensione. Due uomini si assomigliano perchò partecipano entrambe all’idea di uomo. 3)Assiologica (da “axiologia”, la scienza che studia i valori): l’idea ò il modello (in Greco “paradigma”) imitando il quale ogni cosa tende al bene, che ò lo scopo di ogni cosa: per un cavallo il bene sarà correre veloce. Ovviamente le imitazioni non potranno mai essere uguali al modello; questo avviene per diversi motivi: uno che merita di essere ricordato ò che le idee nell’iperuranio non avevano nò forma, nò colore, nò dimensioni… quindi se disegnamo un triangolo bianco ò già diverso dal modello che non aveva alcun colore e che paradossalmente li aveva tutti. Platone sostiene quindi la causa finale: secondo lui la causa il motivo per cui avviene una cosa ò il suo fine stesso; la causa finale di una casa ò farvi abitare della gente: ci sono però anche delle “concause”(che noi definiremmo “la condizione senza la quale… “), in questo caso i mattoni, il cemento… la vera causa finale però ò l’idea stessa, sul modello della quale la casa viene costruita: il fine della casa infatti ò essere fatta sul modello dell’idea di casa, cioò nel migliore dei modi: il meglio di ogni categoria corrisponde infatti alla sua idea. I sofisti avevano individuato solo una causa riferita alla materia; Platone non accetta questo e dice, servendosi di una metafora legata alla tecnica della navigazione, che la loro “prima navigazione” era fallita, e che quindi lui si serve della “seconda navigazione”, quella che si usa quando non c’ò vento e ci si serve dei remi: ò una navigazione più faticosa, ma più sicura. Della “seconda navigazione” Platone ce ne parla nel “Fedone”: Socrate racconta che in gioventù era stato attratto dalla scienza naturale, che era tipica dei sofisti (non a caso Aristofane nelle sue commedie ce lo presenta come un sofista con la testa fra le nuvole)ma poi se ne era allontanato per dedicarsi alla vera filisofia e aveva così effettuato la seconda navigazione. Anassagora, fra i filosofi naturalisti, sembrava, con la sua dottrina del âNousâ, aver trovato la vera causa delle cose. Ma a questa affermazione, di per sè eccellente, Anassagora non seppe dare adeguato fondamento. Infatti, il âNousâ avrebbe dovuto spiegare come tutti i fenomeni siano strutturati in funzione del meglio, presupponendo quindi una precisa conoscenza, da parte del âNousâ, del Bene e del Male. Ma Anassagora non ha saputo fare questo e ha continuato ad assegnare agli elementi fisici – le âomeomerìeâ – un ruolo di causa determinante. Gli elementi fisici sono solo una causa ausiliare, non la vera causa. Ma se vogliamo spiegare la «vera causa» noi non possiamo riferirci a cause fisiche; la vera causa, ossia la causa reale, ò lâIntelligenza che opera in funzione del meglio. Occorre guadagnare quel «meglio», ossia quel «Bene», in funzione di cui opera lâintelligenza, il quale sta al di là del fisico e del sensibile; occorre quindi guadagnare il piano dellâessere intelligibile, metasensibile, ovvero lâessere «metafisico». La verità delle cose sta appunto nelle realtà intelligibili, che Platone ha chiamato âIdeeâ, pure forme, eterni modelli delle cose, rispetto alle quali le cose sensibili sono un mezzo o strumento di realizzazione, non quindi lâessenza delle cose, ma ciò mediante cui lâessenza si realizza nella sfera del sensibile. Questa scoperta delle Idee come vero essere, intelligibile, incorporeo, immutabile, in sè e per sè esistente, ò stato in passato considerato il vertice speculativo del pensiero platonico (oggi noi sappiamo che Platone, nelle «Dottrine non scritte», si ò spinto ancora oltre con la teoria dei Principi primi e supremi. ). Hegel scriveva addirittura che proprio nella formulazione della dottrina delle Idee sta «la vera grandezza speculativa» di Platone, «grazie alla quale egli segna una pietra miliare nella storia della filosofia e quindi nella storia universale»(Hegel, âLezioni sulla storia della filosofiaâ. Socrate (e anche Platone) non solo si era allontanato dai sofisti, ma addirittura cercava di far comprendere ai suoi concittadini che il loro metodo era sbagliato: essi non danno motivazioni razionali e partono dal presupposto (in particolare Protagora) che non esista una verità : l’uomo ò misura di tutte le cose); per di più i sofisti si fanno pagare per i loro discorsi raffinati e privi di verità ; per dimostrare la loro bravura effettuano dimostrazioni assolutamente paradossali (vedi quella di Lisia); Platone non può tollerare che “vendano”il sapere: ò una cosa sbagliatissima e a riguardo si esprime nel “Protagora”; va però detto che per lui la vita era facile: era nato ricco e non aveva problemi economici: ma non tutti si trovavano nella sua stessa condizione. L’errore consiste soprattutto nel considerare il sapere alla pari delle altre cose, vendibile come esse: il rischio nell’acquisto degli insegnamenti ò molto più grande rispetto a quello, per esempio, del cibo, con il quale abbiamo un rapporto di “incorporazione”: i cibi, però, si possono portare a casa in recipienti e analizzarli con calma, mentre le cognizioni le si devono mettere alla prova su se stessi, sulla propria anima; il che può essere tanto un bene quanto un male ed in entrambe i casi non si può più tornare indietro: ò un processo irreversibile. Acquisire nuove conoscenze, infatti, significa cambiare in un senso lineare ed inevocabile, e non semplicemente soddisfare un bisogno che si ripresenta ciclicamente e che deve essere soddisfatto per la sopravvivenza. Il rapporto che si instaura tra il commerciante ed il cliente ò di manipolazione: chi vende si interessa solo di sfruttare a proprio vantaggio un bisogno altrui o addirittura di suscitare negli altri un bisogno che non hanno. Socrate dice poi che ad Atene, città democratica per eccellenza, tutti hanno voce in capitolo quando ò il momento di prendere le decisioni, mentre nelle altre arti (per esempio la medicina) c’ò una divisione del lavoro che porta ad affidare le scelte tecniche a persone competenti e non a chiunque. Di conseguenza per gli Ateniesi la politica non ò insegnabile; infatti se tutti hanno voce in capitolo e dicono la loro, significa che tutti la conoscono già e non occorre insegnargliela, meno che mai a pagamento. Protagora replica affermando che lui insegna l’arte politica, che consiste nell’amministrare con senno tanto la propria casa quanto le questioni pubbliche. Platone passa dal concretismo sofistico all’astrattismo. Nella teoria delle idee traspare una sorta di ambiguità , che nasce dalla diversità delle valenze ontologiche ed assiologiche: infatti l’idea dovrebbe rendere conto di ciò che una cosa ò, e di ciò che dovrebbe essere: il che ò contradditorio, ma perchò non siano contrastanti bisogna supporre che l’essere ed il dover essere siano lo stesso. Ciò nella realtà ò chiaramente impossibile, e Platone lo sapeva bene. La condizione pare essere che l’essenza di ciascuna cosa stia nel tendere a realizzare una determinata idea. L’essere ò quindi concepito come stato dinamico e di tensione. Platone ha una concezione trascendente della realtà : ogni essere che appartiene al mondo fisico, secondo Platone, ha la propria essenza fuori di sò: si trova nell’idea. L’idea sta quindi oltre l’esistenza fisica; noi uomini non siamo al 100%100 dentro di noi; una delle parti più importanti si trova fuori. Chiaramente le parole che Platone mette in bocca a Socrate non sappiamo se siano effettivamente di Platone o di Socrate: man mano che matura Platone tende sempre più a elaborare e a reinterpretare i discorsi di Socrate, mettendogli in bocca proprie idee. Va senz’altro ricordato che Platone fu il fondatore di una scuola (l’Accademia)dove veniva fornita un’impostazione culturale che spaziava nei campi più vasti e che si prefiggeva di selezionare coloro che avrebbero dovuto continuare gli studi per poi governare rettamente, oltre ad insegnare il bene(che non si identifica con il piacere: la filosofia fornisce bene all’anima, la retorica piacere; ò questo il tema trattato nel “Gorgia”. I beni sono molteplici, ma il bene vero e proprio ò per l’uomo ò quello che riguarda la sua anima. Da questo punto di vista la filosofia si costituisce come medicina, come terapia dell’anima. Dove si può apprendere il bene? Non di certo nella città , che ha condannato ingiustamente Socrate, il suo uomo migliore; la vera sede per cercarlo diventa la scuola filosofica): si basava quindi sulla selezione. Per arrivare al potere non bastava essere figli di governanti, bensi’bisognava dimostrarsi idonei di svolgere tale ruolo. Tutti gli studenti venivano quindi messi alla pari e a creare le distinzioni tra loro era solo il merito del singolo. Questo ben rispecchia gli orientamenti politici aristocratici (la parola stessa “aristos”migliore+”crazia”forza, indica che il potere dev’essere in mano a chi se lo merita ed ò superiore agli altri) di Platone. Le due materie che venivano maggiormente trattate erano la matematica e la filosofia: la prima, che era volta alla conoscenza degli enti matematici, eleva l’anima umana dal mondo sensibile a quello intellegibile, portando all’astrazione; la seconda perchò fornisce le conoscenze della realtà vera, di quei modelli perfetti della realtà cui tende l’anima umana. La “REPUBBLICA” ò l’opera in cui affiorano maggiormente tutti i temi di Platone: ò un libro composto a sua volta da 10 dialoghi dove in particolare emerge il pensiero politico platoniano; come abbiamo già detto Platone era rimasto molto deluso dalla politica della sua città che aveva condannato il suo uomo più giusto e per lui lo stato ideale ò quello in cui l’uomo giusto può trovare il suo collocamento senza essere tormentato; molto deluso era anche rimasto dall’incontro con il tiranno di Siracusa e si accorge quindi che il suo concetto di stato ò inattuabile, puramente ideale: come ogni altra idea, anche quella di stato va imitata, sebbene sia impossibile riuscirvi totalmente. Si dice spesso che lo stato platoniano sia una utopia, vale a dire un qualcosa che non sta da nessuna parte. Netta pare la distinzione tra il primo “libro” della repubblica, probabilmente scritto in gioventù, e gli altri: ò il dialogo tra Socrate ed un sofista, che dà una definizione di giustizia: essa per lui ò il diritto del più forte; egli sostiene, come molti altri sofisti, che gli uomini per natura nascono diversi, chi più forte e chi più debole, ed ò solo la legge che li fa uguali: per lui la legge non ò nient’altro che un’ingiustizia dei più deboli nei confronti dei più forti, che dovrebbero dominare per natura. Per il sofista il modello d’uomo ideale ò il tiranno, colui che ha fatto valere la sua superiorità sui più deboli: il tiranno ò l’uomo più felice e potente. Il primo libro termina con la confutazione di Socrate delle tesi del sofista: per lui ci deve essre per forza una giustizia, in quanto l’ingiustizia che predicava il sofista non può esserci, perchò tende ad eliminarsi da sò: Socrate porta l’esempio dei briganti, ingiusti per eccellenza; anche dopo che hanno commesso ingiustizie rubando, per dividersi il bottino dovranno pur applicare qualche norma. A partire dal 2° libro Socrate imposta il suo discorso cambiando prospettiva, sostenendo che il modo migliore per esaminare l’uomo giusto sia vedere le cose più in grande: dov’ò che esiste più in grande il concetto di giustizia? Certamente nello stato; Socrate mirerà a dimostrare l’opposto del sofista: per lui l’uomo ingiusto non ò il più felice. Socrate aveva già più volte affermato che la giustizia rende automaticamente felici: nel libro 10° della Repubblica Platone ci spiega attraverso un mito escatologico ( che possiamo in qualche modo paragonare a quello presente nel Gorgia, il mito dei morti ) che la giustizia conduce alla felicità anche nel mondo ultraterreno. Tuttavia Socrate dovrà anche confutare la critica mossagli dall’ aristocratico Glaucone, che sostiene che si è giusti solo per timore di essere scoperti; non solo, ma chi è ingiusto conduce una vita molto più felice rispetto al giusto. Glaucone argomenta servendosi del celebre mito di Gige, il pastore che imbattutosi in un anello capace di rendere invisibile chiunque se lo fosse infilato, da giusto che era divenne ladro e omicida, diventando ingiusto proprio perchò non poteva essere scoperto; Socrate potrà ribattere servendosi della super-idea del bene. Socrate imposta poi il suo discorso tratteggiando lo stato ideale, partendo da zero: uno stato nasce secondo lui da esigenze materiali e per soddisfare dei bisogni; dal momento che ci sono diverse tecniche per soddisfarli, occorre selezionarle. A suo parere uno stato per funzionare deve avere tre classi sociali: 1)i governanti. 2)i difensori. 3)i produttori. Ogni classe deve svolgere le sue funzioni, che non sono però di ugual livello, sebbene siano tutte fondamentali; ò una chiara prospettiva aristocratica. In realtà la classe dei governanti si costituisce tramite la selezione di difensori che maturando diventano governanti: la forza fisica cede il passo a quella intellettuale e morale. Questa tripartizione ebbe enorme successo nella storia: nel Medioevo, per esempio, la società era suddivisa in oratores, bellatores e laboratores. E le donne che funzione avevano? Platone ò stato il primo ad affermare che non ci siano propriamente lavori maschili e lavori femminili; tuttavia era convinto che in ogni campo gli uomini fossero superiori e riuscissero meglio. La città ideale di Platone ò aristocratica, cioò governata da coloro che risultano essere i migliori ed i più idonei a svolgere tale compito; i migliori vengono selezionati in base al loro talento e non al fatto che i loro genitori potessero essere governanti; tuttavia egli ammette che ci sia una sorta di ereditarietà : ciò non significa che i giovani venissero selezionati per la loro discendenza, ma ò un dato di fatto che coloro che mostrano maggiori attitudini per il governo sono proprio i figli dei governanti. Per selezionare occorre effettuare 2 lavori: 1)la selezione vera e propria, 2)sviluppare le propensioni dei selezionati. In realtà lo stato delineato da Platone ò lo stato spartano idealizzato: a quei tempi presso gli aristocratici era visto come il top dell’organizzazione. Ma Platone tratteggia anche le possibili degenerazioni statali e proprio tra queste ci sarà lo stato spartano che era in realtà dominato non da aristocratici, ma da militari e proprietari terrieri. Secondo Platone ad ogni classe sociale spetta una virtù; poi ce n’ò una comune a tutti e tre i gruppi: in tutto sono 4 le virtù (anche nel Cristianesimo ci sono le virtù, 4 cardinali e 3 teologali: le 4 cardinali l’uomo le possiede per natura, le 3 teologali deriverebbero dalla divinità e sono fede, carità e speranza) e si suddividono così: 1)sapere2)coraggio3)temperanza4)giustizia. I governanti, come abbiamo già detto, devono essere filosofi e quindi la loro virtù ò il sapere; quella dei difensori ò il coraggio che serve loro per difendere strenuamente lo stato; i produttori devono invece essere dotati della temperanza, devono cioò sapere che vi ò chi governa e chi lavora; ò una virtù che in realtà appartiene un pò a tutti, ma soprattutto a loro che devono obbedire. In termini moderni la temperanza ò il consenso: se non c’ò una diffusa convinzione del fatto che ci sia chi governa e chi lavora lo stato non può reggere. Bisogna tenere a mente che Platone sta sì parlando per bocca di Socrate per delineare la giustizia statale ideale ma solo per tratteggiare l’uomo giusto: si serve dello stato per poter operare su un modello più grande. La “Repubblica” viene spesso letta solo in chiave politica sebbene la politica sia in secondo piano: il tema centrale ò proprio l’uomo giusto e la sua formazione. Per esempio descrive le degenerazioni statali per delineare parallelamente quelle umane; a sostenere la tesi che sia un libro il cui fulcro ò l’uomo ò il 10° libro che con un mito escatologico spiega che ne sarà dell’uomo giusto nell’aldilà . Nella “Repubblica” Platone ripropone la tripartizione dell’anima che corrisponde esattamente a quella statale, dettata dal fatto che non in tutti gli uomini prevale la stessa parte dell’anima: quella razionale (l’auriga) dominerà nei governanti, i quali ricercano il sapere razionale; quella irascibile (il cavallo bianco)prevale nei difensori, che agiscono mossi da orgoglio; quella concubiscibile (il cavallo nero) avrà la meglio sui produttori. Possiamo così comprendere perchò Platone la chiami temperanza: le varie parti dell’anima capiscono che bisogna tenere a bada, temperare, quella concubiscibile. Platone definisce un uomo più forte di se stesso quando la parte razionale tiene a freno le altre, vale a dire quando l’auriga ha la meglio. La giustizia ò la 4° virtù: si ha giustizia quando ciascuno svolge le proprie mansioni e non pretende di svolgere ruoli che non gli spettano. Sparta era una oligarchia militare e quindi era ingiusta in quanto svolgevano le mansioni di governanti persone non idonee e a detenere il potere non sono necessariamente i migliori. Atene, città democratica, era anche messa peggio: era retta dalla 3° classe, i produttori; Platone definisce la democrazia il governo degli incompetenti, dove bisogna ascoltare il parere di qualsiasi stolto e dove ciascuno pensa solo a se stesso. Lo stesso vale per l’uomo: l’uomo giusto non si lascia trascinare dai piaceri (tanto meno da quelli fisici) ed ò felice perchò la giustizia stessa fornisce un piacevole senso di benessere; la parte irascibile (cavallo bianco), vincolata dall’orgoglio, si vergogna dei piaceri e aiuta l’auriga a tenerne l’anima distante. Per Platone il tiranno ò schiavo della parte peggiore di se stesso, del cavallo nero: ò quindi ingiusto perchò nel contesto dell’anima non spetta al cavallo nero di comandare ed infelice perchò privo di giustizia. Un dubbio che può sorgere ò come si ottiene il consenso o temperanza che dir si voglia: Platone dà una spiegazione tramite un mito, che può quindi anche rivestire una funzione politica: per convincere afferma che gli uomini siano stati forgiati con 3 diversi metalli (oro, argento, ferro): ci sono quindi differenze naturali tra gli uomini e quindi la tripartizione ò necessaria e giustificata. Si ha consenso quando si ha una ideologia diffusa: la parola ideologia ha una lieve sfumatura negativa, come se si affermasse qualcosa non proprio corretto ma fatto passare per buono: ò proprio il caso del mito platonico con valenza politica; Platone parla anche in questo caso di menzogne buone e necessarie per il consenso. Per lui, comunque, quando lo stato ò felice, allora anche tutti i gruppi lo sono. Secondo le concezioni liberali e moderne ò l’opposto: quando i singoli stanno bene, anche lo stato procede felicemente. Platone, per motivare quanto detto, si serve di una concezione “organicista”: se il nostro organismo sta bene, allora ogni singolo membro sta bene. dire concezione organicista, non significa che le singole parti debbano per forza essere subordinate alla totalità : Platone dice che da un lato conta il tutto, ma che dall’altro se il tutto ò felice anche le parti lo sono. Come possono essere esse felici? Platone non si limita alla precedente argomentazione organicista; egli pone dei limiti allo stato: non deve essere troppo ampio perchò uno stato ò tale solo quando i suoi abitanti hanno la consapevolezza di formarlo; uno stato troppo esteso ò anche difficilmente controllabile. Platone vedeva lo stato come una grande famiglia basata sull’armonia e sulla solidarietà : per creare questa situazione bisogna a suo avviso eliminare la famiglia naturale in modo che gli abitanti dello stato considerino propri familiari gli altri abitanti; bisogna poi eliminare la proprietà che frammenta la società . E’ un comunismo radicale ed estremista dove bisogna addirittura vivere insieme; lo scopo ò far sì che i cittadini concepiscano un forte senso di solidarietà : ciascuno lavorerà e difenderà lo stato come farebbe con la propria famiglia. Probabilmente Platone prese spunto dalla società spartana arcaica e militare improntata sul governo oligarchico-militare. Questo comunismo per Platone deve riguardare solo alle due classi superiori, che devono governare. Bisogna eliminare gli interessi personali in modo tale da evitare che i governanti tutelino i propri interessi accecati dalla smania di denaro, tralasciando quelli altrui. L’obiezione di fondo che solitamente si muove, al di là dell’estremismo, ò che i governanti, condannati ad una scelta così rigida, condurrebbero una vita tristissima. La società ò fortemente gerarchizzata e sul piano materiale sono avvantaggiati i produttori, che vivono normalmente e possono arricchirsi. Quindi può sembrare che i ceti superiori siano infelici; in realtà i governanti ed i guardiani che poi lo diverranno hanno un talento naturale e sono già stati selezionati ed educati dallo stato; da questa educazione trarranno enormi vantaggi e saranno poi chiamati a governare, sebbene contro la loro volontà : infatti vengono educati alla sapienza e alla conoscenza, che comprenderanno essere le cose più importanti ed utili di tutte; dello stato non gliene importa nulla, così come non gli importa delle ricchezze materiali: la sapienza rappresenta una ricchezza morale molto più importante e duratura. Verranno però poi chiamati a governare proprio perchò non vogliono!Secondo Platone infatti lo stato va amministrato da chi non vuole farlo, da chi ha raggiunto un alto livello di educazione e ha compreso che ciò che più conta ò il sapere, e non da chi vuole amministrarlo, in quanto lo farebbe solo per interessi personali. Vivranno quindi la maggior parte della loro vita dedicandosi alla cultura, ma saranno poi costretti a governare per un pò: lo devono allo stato che li ha allevati e mantenuti negli studi. E’ un dovere morale. Guardiamo ora alle singole classi sociali. i governanti (ed i difensori) nel complesso fanno ciò che desiderano, svolgono cioò la loro vita dedicandosi al sapere (il periodo in cui governano, come abbiamo detto, ò breve); ai produttori non interessa il sapere e sono felici di arricchirsi materialmente e perseguire questi strumenti inferiori di felicità . Quindi ò una società (ideale) felice anche nelle sue singole parti. Platone viene anche criticato per aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli, la cui vita non conta nulla di per sò, se non in funzione dello stato: si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri: l’ eugenetica (dal Greco eu, bene, +gignomai, nasco, =nascere bene); lo stato sceglie gli individui da far accoppiare in modo tale da avere una discendenza perfetta. Un filosofo di posizioni liberali, Popper, criticava la società di Platone, perfetta e totalitaria, ed era in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare: Popper era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perchò l’uomo stesso ò imperfetto per natura. La società aperta ò inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione: una società perfetta non ha motivo di fare questo. Platone insiste invece sull’immutabilità : la società per lui ò perfetta così com’ò e non deve assolutamente cambiare. Popper ha però commesso un errore dimenticandosi nella foga che Platone parla di un’idea statale: un’idea, per definizione, non ò mai realizzabile: ò solo un punto verso cui muovere. Nelle “Leggi”, opera incompiuta, Platone delineerà lo “stato secondo”: dal momento che quello delineato nella “Repubblica” ò puramente ideale, Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in seguito ed ò considerata il punto di partenza de
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