Aristotele nacque a Stagira, una cittadina della penisola Calcidica nel nord della Grecia nel 384 a. c. Il padre Nicomaco era medico presso la corte del re dei macedoni Aminta, ma morì quando Aristotele era ancora giovane. Egli fu quindi allevato da un parente più anziano, di nome Prosseno. Nel 367, all’età di 17 anni, andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell’Accademia di Platone, che si trovava all’epoca a Siracusa. Vi rimase per ben 20 anni svolgendo un’attività di insegnamento, sino alla morte di Platone che fu nel 347-348: in realtà se ne sarebbe già andato prima in quanto aveva idee divergenti da quelle del maestro, ma si trattenne fino alla sua morte per il rispetto che aveva nei confronti di Platone. Si allontanò dall’Accademia proprio quando era subentrato Speusippo e tra i motivi del suo allontanamento possiamo annoverare la crescente ostilità che si era venuta a creare ad Atene verso il re macedone Filippo, il quale nel 348 si era impadronito di Olinto nel nord della Grecia. Nel 347 si recò da Ermia, tiranno di Atarneo, che nutriva simpatie per la filosofia platonica e aveva messo a disposizione degli accademici una sede ad Asso, nella Troade, una zona dell’Asia minore. Qui si stabilì Aristotele e poi nel 345 a Militene, sull’isola di Lesbo. In questo periodo egli sposò Pizia, nipote di Ermia, dalla quale ebbe 2 figli, Pizia e Nicomano, entrò in rapporto con Teofrasto, che divenne suo discepolo, e intraprese ricerche biologiche sugli animali. Nel 343 Filippo lo invitò a corte in veste di precettore di Alessandro. Qui rimase a lungo finchò Filippo non fu assassinato da Pausania nel 336 e Alessandro gli succedette al trono. Nel 335 Aristotele fece il suo rientro ad Atene con Teofrasto e svolse attività di ricerca e di insegnamento nel Liceo, un ginnasio vicino al tempio di Apollo Liceo (originariamente fu chiamato “peripato”, passeggiata e luogo di discussione), raccogliendo intorno a sò amici e scolari. Nel 323 però, morto Alessandro in Oriente, prese il sopravvento in Atene la corrente anti-macedone capeggiata da Iperide. La tradizione vuole che Aristotele, accusato di empietà a causa dei suoi difficili rapporti con la monarchia macedone, abbia allora pronunciato la celebre frase: ” Non voglio che gli Ateniesi commettano un secondo crimine contro la filosofia “, alludendo alle vicende di Socrate. Di fatto egli si allontanò da Atene e si ritirò a Calcide, sull’isola di Eubea, dove la famiglia di sua madre aveva possedimenti: qui morì intorno a 62 anni nel 322 a. c. Nominò suo esecutore testamentario Antipatro, che proprio nel 322 ristabiliva il dominio macedone sulla Grecia e su Atene, e lasciò Teofrasto a capo della scuola. Dunque Aristotele vive una generazione dopo rispetto al maestro Platone. Proprio rispetto a Platone ha origini sociali e geografiche differenti: abbiamo detto che non era di Atene e questo aspetto contribuì al fatto che Aristotele desse meno peso alla politica rispetto a Platone, che si sentiva pienamente cittadino della polis. Senz’altro a far sì che desse poco peso alla politica fu anche il fatto che all’epoca la polis stava attraversando un periodo di profonda crisi: infatti nella seconda metà del quarto secolo subentrò il regno macedone (ricordiamoci che il padre di Aristotele fu medico di Filippo e Aristotele stesso fu precettore di Alessandro Magno). Tuttavia quando si dedica alla politica, Aristotele risulta essere ancora molto legato al concetto di polis. Senz’altro Aristotele ò influenzato dall’Accademia dove era stato per molto tempo, sebbene non condividesse pienamente le ideologie (dirà ” amicus Plato, sed magis amica veritas “: egli era molto legato alla figura del suo maestro, ma tuttavia era più attratto dalla verità ). Atene si trova in un momento difficile dove si alternano al potere il partito macedone (al quale Aristotele era vicino) e quello anti-macedone, il cui più grande e accanito sostenitore era l’oratore Demostene. Risulta particolarmente importante l’esperienza a Militene: qui, come detto, si dedicò insieme a Teofrasto a ricerche in ambito biologico e tutte strettamente legate al mondo terreno: si dice spesso che Aristotele sia partito come platonico (seguendo la dottrina delle idee) ma che poi habbia dato una svolta alle sue indagini orientandole sempre di più verso il mondo terreno. Non a caso in una celebre rappresentazione di Raffaello (che possiamo ammirare qui a lato) Platone (ormai vecchio) ò raffigurato con il dito teso verso l’alto e verso il mondo delle idee, mentre Aristotele ò raffigurato con la mano aperta e tesa verso la terra, verso il mondo terreno. E’ a lungo prevalsa l’idea che Aristotele segua uno schema: si ò infatti sempre pensato che le opere legate alla ricerca empirica dovessero essere state scritte nella fase della vecchiaia, quando Aristotele si era ormai definitivamente allontanato dal maestro Platone e dalle sue dottrine incentrate sul mondo intellegibile. E’ invece assai probabile che le opere di ricerca empirica siano state elaborate durante il soggiorno sull’isola di Militene, tra il primo ed il secondo soggiorno ad Atene. Se non risalgono esattamente a quel periodo, appare comunque evidente che risentano di tale esperienza: sono opere piene di osservazioni della vita marina tipica dell’isola. Gli uomini del 500 – 600 che polemizzarono avevano di Aristotele l’idea di un pensiero astratto e, potremmo dire, “libresco”: galileo stesso contrapporrà la lettura del libro della natura a quella dei libri cartacei che gli aristotelici leggevano. In realtà ò una polemica non corretta: ò sì vero che gli aristotelici erano come Galileo li definiva, ma ò altrettanto vero che Aristotele non era così ! Quello di Aristotele non era poi un pensiero così sistematico ( spesso lo si ò contrapposto a Platone stesso, che sondava le stesse cose da più punti di vista) e rigido: non ò affatto vero che non guardasse al mondo ma solo ai libri. Senz’altro i libri gli piacevano e lo affascinavano, ma comunque le opere biologiche rivelano che faceva osservazioni dirette, specialmente a Militene: si recava spesso sulla spiaggia e nelle reti dei pescatori trovava interessante materiale di osservazione; amava anche andare ad osservare dai pastori. i dati di fatto li esaminava, ma chiedeva anche il parere agli esperti in materia (pescatori, pastori): era un uomo molto attento alla realtà . Per esempio scoprì che i cetacei non sono pesci, riuscì a scovare gli organi genitali dei polpi (che si trovano sul collo) e osservò lo sviluppo dell’embrione del pollo prendendo e aprendo uova fecondate. Mentre Platone ha composto un solo dialogo dedicato al mondo empirico (il ” Timeo “), Aristotele ha dedicato più della metà delle sue opere a questo mondo. A differenza del maestro (che riteneva che il nostro non fosse il vero mondo), Aristotele era convinto che l’unico mondo esistente fosse il nostro. Va poi detto che gran parte dei concetti aristotelici sono di derivazione biologica ed ò interessante come dalla biologia derivino concetti filosofici. Platone svolgeva la duplice attività di maestro e di conferenziere, di Aristotele possediamo tutto ciò che ha scritto, ma il problema ò che le cose più importanti non le ha messe per iscritto: come il suo maestro ha scritto per la pubblicazione: scriveva molto bene, ma probabilmente non come Platone. Dai dialoghi composti per la pubblicazione emerge che le sue posizioni non si distinguevano molto da quelle di Platone (può benissimo darsi che siano composizioni che risalgono ad un periodo in cui non si era ancora allontanato da quelle idee): in una di queste opere troviamo di un tale che si reca da un oracolo per chiedere se tornerà mai in patria. Nonostante l’oracolo gli avesse detto che sarebbe tornato in patria, egli morì: probabilmente la patria alla quale si fa qui riferimente non ò nient’altro che l’iperuranio platonico. Prendiamo ora in considerazione un’altra opera, il “Protrettico”, che potremmo definire “invito alla filosofia” ( funzione che lo scritto già rivestiva in Platone): si tratta di un invito rivolto al re di Cipro a dedicarsi alla filosofia tramite un ragionamento “sofistico” e dialettico: la domanda che Aristotele pone ò se si deve filosofare o no. Se non si deve filosofare si dirà che la filosofia ò dannosa, spregevole… insomma si motiverà il perchò non bisogna filosofare: ma così facendo si filosofa, si fa un ragionamento filosofico. Sembra un’argomentazione sofistica ma non lo ò in verità : una filosofia che fa prevalere gli aspetti irrazionali nella realtà lo fa tramite la razionalità (ò il caso di Schopenaur o di Niezsche). Comunque questi dialoghi per la pubblicazione li possediamo solo per frammenti. Probabilmente andò così: Aristotele, come Platone, insegnava a scuola e scriveva, però a differenza del maestro il lavoro scolastico lo metteva per iscritto: quindi accanto agli scritti finalizzati alla pubblicazione vi erano gli appunti per le lezioni. Gli appunti erano più che altro uno schema da seguire e ci doveva comunque essere una componente di oralità . Questo ci aiuta a comprendere perchò fossero così schematici e disordinati. Oltre agli appunti che si tracciava Aristotele, vi erano anche quelli che prendevano i suoi alunni mentre lui spiegava: chiaramente anche questi hanno uno stile ben differente da quello usato nei testi da pubblicare. E’ proprio negli appunti che troviamo il vero Aristotele. Alla sua morte, i due gruppi di opere ebbero destini differenti: 1) quelle rivolte verso la scuola e sotto forma di appunti (dette ESOTERICHE o ACROMATICHE) finirono per cadere in disuso per via della loro “pesantezza” stilistica: l’aggettivo “esoterico” ha a che fare con il mistero 2)quelle finalizzate alla pubblicazione (ESSOTERICHE), fluide e scorrevoli proprio perchò dovevano essere pubblicate, ebbero enorme successo: quelle esoteriche, come detto, erano troppo pesanti e ridondanti (nelle due “Etiche” 3 dei libri sono identici !!! E nella “Metafisica” riprende cose già dette) e finirono per andare perdute. Nella metà del primo secolo Andronico di Rodi ritrovò gli scritti esoterici andati perduti: li ripulì e cercò di tirare fuori un’edizione, riordinando il tutto. I criteri per riordinare delle opere sono parecchi ed uno dei più usati ò senz’altro quello cronologico, che ò neutro e nello stesso tempo coglie l’autore nel suo svilupparsi e perfezionarsi. Ma Andronico preferì riordinare per argomenti, raggruppando tutti i libri che trattavano un determinato argomento insieme: logica, fisica, etica. Tutto questo ebbe due conseguenze: a) A sparire furono le opere essoteriche (quelle volte alla pubblicazione), in quanto si capì subito che il vero Aristotele era quello degli appunti scolastici. b) Ancora oggi abbiamo l’ordine che fu assegnato da Andronico e non quello effettivamente assegnato da Aristotele: non bisogna farsi ingannare, in quanto Aristotele ha scritto opere singole: non possiamo sapere se quello di Andronico fu realmente l’ordine che diede Aristotele (ò molto imbrobabile). Di conseguenza la sistematicità di cui lo si accusava gli derivava da Andronico: infatti Aristotele era aperto e desideroso di confrontarsi con predecessori e contemporanei. L’intero “corpus” aristotelico ò strutturato secondo l’andamento dato: 1) Logica (che Aristotele non chiamava però così: lui inventò la logica ma non la parola; la chiamava “analitica”: si tratta degli aspetti formali dei ragionamenti): i tanti scritti di logica vengono definiti “organon” (strumento della conoscenza): nella sua classificazione delle scienze, Aristotele non inserisce la logica perchò non ha contenuti: il contenuto della logica ò la sua forma stessa. Le due categorie di conoscenza erano la FISICA (in quanto ci sono corpi che cadono: comprendeva anche la biologia) e l’ETICA (intesa in senso lato: politica). Questa ò dunque la tripartizione classica, ma nella logica ci sono anche la retorica e la politica, ma ò sotto il nome di “Metafisica” (ciò che sta al di là della dimensione fisica) che si trovano gli scritti più importanti: Aristotele la chiamava Filosofia prima. Perchò si chiamava metafisica? Inizialmente la filosofia prima venne chiamata metafisica perchò Andronico collocò i trattati di filosofia prima dopo i trattati di fisica: “metà ” in greco, seguito dall’accusativo, significa “dopo” e quindi “metà tà fusicà ” significava ciò che stava dopo le cose fisiche. Da allora nasce quest’idea della metafisica, prima con valenza editoriale, dopo con il significato vero e proprio: le cose al di là del mondo fisico. Qui emergono diversi concetti che però Aristotele elaborava “fisicamente”: a confermare questa tesi ò il fatto che raccogliesse pareri qua e là , oppure che varò la costituzione per gli Ateniesi (egli raccolse 158 costituzioni per avere materiale su cui ragionare per la sua politica: tra l’altro un secolo fa in Egitto questa costituzione ateniese di Aristotele fu ritrovata in un papiro ): non si deve poi scordare la “historia animalium” (che non ò una storia, bensì una descrizione particolareggiata degli animali), che potremmo catalogare come opera zoologica: Aristotele per creare quest’opera aveva raccolto diverse esperienze (l’amico Teofrasto, invece, si occupò di botanica). Nella “Metafisica” Aristotele argomenta che l’uomo per sua inclinazione naturale aspira alla conoscenza e traccia dunque una scala gerarchica della conoscenza ( un pò come aveva fatto Platone ): man mano che si sale ogni gradino ò caratterizzato da un approfondimento rispetto al precedente. Al gradino più basso troviamo 1)la SENSAZIONE: ricordiamoci che Aristotele ha della conoscenza una concezione empiristica: la mente umana prima delle sensazioni ò una “tabula rasa” (una tavola incerata schiacciata e rinnovata): prima dell’esperienza sensuale non c’ò nulla (a differenza di quanto diceva Platone, che era un innatista); in Aristotele c’ò un rifiuto radicale della concezione innatistica: la conoscenza ci deriva interamente dall’esperienza sensuale. Per Platone l’esperienza sensuale c’era, ma era una concausa: era infatti semplicemente un modo per realizzare la reminescenza. L’opposizione Platone – Aristotele ò davvero forte: ancora oggi c’ò chi ò innatista (e sostiene che nasciamo già con alcune cose nella testa) e chi ò empirista (ed ò del parere che la nostra mente ò una tabula rasa). In realtà la filosofia successiva non sarà nient’altro che una variante di posizioni aristoteliche o platoniche. E’ come se questi due grandi filosofi avessero tracciato i due modelli per filosofare. Le sensazioni sono quelle che l’uomo ha in comune con gli animali: per Aristotele ci sono due tipi diversi di anime: un tipo, più complesso, ed un altro, più semplice. L’anima dei vegetali, per esempio, non prova sensazioni, mentre quella dell’uomo e dell’animale prova sensazioni: ò proprio il poter provare sensazioni che funge da punto di partenza per la conoscenza. Aristotele attribuisce grande importanza all’udito (organo con cui si possono ascoltare i discorsi: malgrado Aristotele sia più “libresco” di Platone, in lui non troveremo mai una polemica contro gli scritti: anzi, l’idea che per studiare ci si debba servire di libri ò tipicamente aristotelica ) e questo significa che ai suoi tempi l’oralità era ancora importantissima. Però per Aristotele l’organo di gran lunga più importante era la vista perchò più di ogni altro consente di distinguere gli oggetti: non a caso conoscere significa proprio distinguere, definire: ad un livello empirico la prima separazione ò la distinzione degli oggetti sensibili. Però il grosso limite della sensazione ò che fa cogliere solo il fatto, il che (in greco l'”oti”) e non il perchò (il “dioti”): per arrivare al perchò bisogna seguire un lungo percorso. 2) Al secondo gradino Aristotele mette la MEMORIA: l’intelligenza si può sviluppare se accanto alla sensazione c’ò la memoria: gli animali non riescono a conservare la singola esperienza e così non hanno intelligenza. La memoria consiste proprio nel conservare le singole esperienze, nel ricordare le sensazioni. 3) Al terzo gradino Aristotele pone l’ESPERIENZA: essa non ò la singola sensazione, bensì l’accumularsi di sensazioni grazie alla memoria: questa ò l’esperienza: mettendo insieme una serie di casi singoli si riesce ad arrivare ad una prima forma di generalizzazione. Se si ha avuto a che fare con malattie e cure, si avrà una generalizzazione e si saprà come agire nel caso si ripresentino: mi sono accorto che una medicina giova ad una determinata persona, poi ad un’altra e poi ad un’altra ancora tutti accomunati dalla stessa malattia, anche somministrandola ad un’altra persona otterrò gli stessi risultati. Chi ha esperienza medica e ha visto che certe medicine hanno giovato a più persone con una stessa malattia ò arrivato a dire che a chi ha tale malattia va somministrata tale medicina: questa però non ò ancora la “scienza” vera e propria. Si ha una vera conoscenza quando si può dire che la determinata malattia va curata con una determinata medicina perchò va ad operare su determinate cose, organi… Con la scienza si arriva al “dioti” puro; mentre con l’esperienza intuisco che una determinata medicina giova in certi casi, con la scienza riesco a fornire delle motivazioni: ad esempio, tramite la scienza so che l’aspirina ha un effetto anticoagulante e che di conseguenza posso prevenire e curare l’infarto: non dico più che in certi casi ha funzionato e che quindi anche qui deve funzionare, bensì che avendo un effetto anticoagulante curerà e gioverà a tutti coloro che han l’infarto. Si passa così dall’oti al dioti: quelle persone sono guarite perchò hanno quella determinata malattia e questa medicina la cura. Si passa quindi dal particolare all’universale: il vero passaggio ò quando da un pò di casi riesco a cogliere il significato universale: non parlo più di individui che hanno certi sintomi etc. , ma, per esempio, di diabetici. Da una collezione di casi particolari raggiungo una concezione universale. La scienza grazie all’esperienza mi dice che le malattie circolatorie si curano con l’aspirina e di conseguenza quell’individuo che soffre di cuore deve essere curato con l’aspirina: con una serie di esperienze raggiungiamo la scienza. Aristotele, poi, afferma che coloro che sono esperti, che hanno acquisito tante esperienze, sono migliori rispetto a quelli che hanno studiato e sanno solo il dioti: affinchò la scienza entri in funzione le esperienze sono fondamentali: esse ci consentono di riportare i casi singoli a verità universali. L’esperto ha solo la casistica, lo scienziato solo la scienza, la verità universale: nella pratica l’esperto va meglio fin tanto che lo scienziato non fa esperienze. Un medico che non abbia mai studiato medicina, ma che sia esperto (avendo già curato o operato) ò di sicuro meglio di un medico che abbia studiato tutto ma che non abbia mai avuto esperienze di intervento. Il medico con scienza ed esperienza risulta a sua volta essere il migliore di tutti: l’esperienza ò un insieme di casi da cui si possono trarre conclusioni generali operative: il buon medico deve sapere da casi particolari ricondursi a casi generali e viceversa. La “tekne” sembra essere molto vicina all’esperienza, ma in realtà comporta un coglimento della realtà universale, l’acquisizione del dioti e dell’oti. Da questi singoli casi si trae una verità di carattere generale: perchò in tutti quei casi va così? Nel caso della medicina parliamo di eziologia, perchò si usa una determinata cura: se si sa calare l’universale nel particolare ò già una buona cosa: perchò se io ho un ‘ottima conoscenza dell’universale (che ho ottenuto studiando sui libri), ma poi non so calarla nel particolare, la mia conoscenza ò inutile. In realtà si dovrebbe parlare di scienza applicata, di “tekne”. Aristotele sulle scienze fa una classificazione generale: 1) le scienze applicabili (quelle che mi consentono di produrre qualcosa) 2) le scienze NON applicabili (quelle che non mi fanno produrre niente). A proposito delle “teknai” Aristotele effettua una tripartizione: ci sono le tecniche a)necessarie b)utili c)piacevoli. Esaminiamo le distinzioni: la tecnica di procacciarsi il cibo ò senz’altro necessaria: occorrono conoscenze applicative per sapersi procacciare il cibo (Ippocrate diceva che occorreva pure la conoscenza di come cucinarlo, e questa ò una scienza utile, non fondamentale); come esempio di “tekne” piacevole possiamo portare l’arte culinaria, che mira solo a soddisfare e a dare piacere al palato. La tekne per Aristotele non rappresenta comunque il livello più alto del sapere perchò ò subordinata in ogni caso a fini diversi della conoscenza: ò dall’esperienza che si genera la tekne, ma l’esperienza non ò ancora tekne pura: la tekne ò infatti caratterizzata dall’avere come oggetto della propria conoscenza l’universale: la medicina raggiunge il livello di tecne (e non più di semplice esperienza) quando ò in grado di conoscere che un determinato rimedio non guarisce solamente Socrate e Platone, bensì ogni persona affetta da una determinata malattia. Il che significa che quel rimedio ò efficace nella totalità o universalità dei casi in cui c’ò quella malattia. Anche chi ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio ò stato efficace in una pluralità di casi, ma non sa perchò (ha l’oti, ma non il dioti). Secondo Aristotele al di sopra delle tecniche si colloca una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa: il sapere per il sapere, ossia la conoscenza disinteressata, libera da vincoli, non subordinata a fini esterni ad essa. Questa ò la “sophia”, il sapere più sublime a cui mira la filosofia. Così Aristotele ha definitivamente staccato l’idea del sapere da come era in passato, dove il sapere veniva visto come legato e funzionale all’agire e al produrre. Per poter ricercare questo sapere disinteressato occorre quella che in greco era detta “scholò”, ossia l “otium” latino, il tempo libero da ogni attività lavorativa o pubblica. Dunque se ò vero che tutti gli uomini per inclinazione naturale aspirano al sapere, ò altrettanto vero che solo i filosofi realizzano in senso pieno questo fine iscritto nella natura dell’uomo. Ma perchò questo sapere che in fondo non serve a nulla ò la cosa più importante? E’ proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza: una cosa che non serve ò più nobile perchò non ò legata al rapporto di servitù. Le sensazioni servono all’uomo e ne prova piacere: se per esempio avessimo la possibilità di conoscere la realtà senza vederla, non per questo vorremmo essere ciechi: nella vista consiste un piacere irrinunciabile. Questo “esperimento mentale” conferma le tesi di Aristotele. Comunque Aristotele crea anche una scala di acquisizione cronologica di queste teknai: le scienze necessarie sono le prime che l’uomo deve acquisire, in quanto gli consentono la sopravvivenza, poi deve acquisire quelle utili, che gli offrono comodità non fondamentali, ma importanti, ed infine quelle piacevoli (ed inutili): possiamo riassumere così la scala di acquisizione cronologica: “primum vivere, deinde philosophare “: prima di tutto bisogna pensare alla vita (Aristotele si mostra ancoira una volta legato al mondo terreno). Il fatto che vengano acquisite per ultime, non significa che le scienze piacevoli valgano meno, anzi sono le più preziose in assoluto. Le prime scienze che acquisiamo sono le esperienze, ma le più importanti sono le scienze universali, che consentono una visione di insieme. Come abbiamo detto, le conoscenze piacevoli si sviluppavano nella “scholò”: per noi il non fare niente ò un concetto negativo prima che sul piano morale-assiologico, su quello ontologico: nel non far niente vi ò la mancanza di qualcosa. Per i Greci e per i Latini era diverso: la “scholò” era quella parte dell’esistenza in cui ci si dedicava all’attività studiosa. E’ interessante come Aristotele insista su questa forma di studio disinteressato e affermi ripetutamente che questa sia la più nobile delle vite. Questo ò dovuto a due fattori: 1) la mentalità greca generale (come quella Latina) era propensa ad esaltare l’ozio 2) tra Platone e Aristotele c’ò una grande differenza: secondo Platone si deve arrivare alle conoscenze supreme, al mondo intellegibile; per Aristotele le conoscenze sono sensibili e presenti su questo mondo. Quando delineano il modello di vita da seguire, Platone traccia il percorso volto al raggiungimento del bene in sò (si vede comunque nel mito della caverna che i filosofi devono ritornare sulla terra a governare: il punto di arrivo ò il re-filosofo); per Aristotele non ò così: riconosce il modello dell’uomo cittadino, ma l’uomo più elevato sarà lo studioso, colui che si dedica all’otium e non al negotium: come mai? Ricordiamoci che Aristotele vive dopo Platone, in un’epoca in cui la polis ò in crisi (per Platone e Socrate era scontato che l’uomo ed il cittadino fossero un tutt’uno ): vi ò un progressivo scollamento da Socrate in poi tra uomo e cittadino, che un tempo erano indivisibili: Socrate aveva voluto morire, mentre Platone si era reso conto che la politica fosse ingiusta e aveva spostato la figura del politico nel mondo ideale: Sofocle in persona aveva notato questo progressivo scollamento uomo-cittadino. Per Aristotele non solo l’uomo può essere uomo senza essere necessariamente cittadino, ma anzi nella dimensione in cui non ò cittadino ò migliore: questa teoria avrà gran successo e prenderà piede (pensiamo agli epicurei ed al loro motto “lathe biosas”, ” vivi di nascosto “: l’uomo per essere felice deve vivere lontano dalla politica, in privato ). Quindi possiamo provare a tracciare una graduatoria del graduale staccamento uomo – cittadino: a) in Socrate c’ò piena identificazione b) in Platone c’ò sì identificazione, ma non in questo mondo (in quello delle idee) c) Aristotele apprezza la vita politica, ma non c’ò più l’identificazione tra uomo e cittadino d) in Epicuro c’ò un totale rifiuto della figura uomo- politico associata. Va poi ricordato che Aristotele era uno straniero e non poteva svolgere vita politica: ò quindi evidente che non si sentisse uomo-cittadino, ma tuttavia questo ò l’aspetto meno imprtante che determinò lo scolllamento aristotelico tra uomo e cittadino. Dalla fine del quinto secolo fino al terzo si arriva ad un rifiuto della politica: la filosofia nasce quando le civiltà si sviluppano e un gruppo sociale ( i filosofi ) può vivere senza lavorare. Aristotele distingue due grandi classi di scienze: quelle che hanno come oggetto il necessario e quelle che hanno come oggetto il possibile. Osserviamo qui sotto lo schema generale: Le prime sono dette scienze TEORETICHE e riguardano appunto ciò che ò o ciò che avviene necessariamente sempre o per lo più (in greco “epì polù”) nello stesso modo. Per necessario intendiamo ciò che non può essere o avvenire diversamente da come ò o avviene. Si tratta dunque di domini di oggetti o eventi caratterizzati da una regolarità totale o con scarse eccezioni: la matematica rientra nelle teoretiche perchò 2 + 2 mi darà sempre 4 e non si può fare nulla se non indagare a fondo. Il mondo biologico rientra anch’esso nelle teoretiche ma nella “sezione” epì polù (per lo più ). L’epì polù lo possiamo definire come un surrogato delle scienze matematiche, che vanno sempre allo stesso modo: Aristotele studiò anche le generazioni e si accorse che non sempre riuscivano bene: gli individui di solito (per lo più) vengono in un modo, ma può succedere che vada diversamente e che abbia storpiature, deformità . Come nel caso delle generazioni, così anche nel mondo molti avvenimenti sono accidentali ma non sono studiabili perchò di essi non si può indicare il dioti (il perchò). Il secondo ambito ò invece costituito dalle scienze PRATICHE e POIETICHE: esse concernono ciò che può essere in un modo o nell’altro; questa ò la caratteristica propria dell’ azione e della produzione di oggetti: esse infatti possono avvenire o non avvenire, avvenire in un modo o in un altro. A loro volta azione (praxis, da qui pratiche) e produzione (da poieo, da qui poietiche) si distinguono per il fatto che l’azione ha il proprio fine in se stessa, ossia nell’esecuzione dell’azione stessa, mentre la produzione ha il suo fine fuori di sò, ossia nell’oggetto che essa produce. L’etica ò una scienza pratica: il suo fine ò in se stessa ed ò il comportamento; la poesia ò una scienza poietica perchò mi fa produrre poesie: il suo fine sta al di fuori di sò. Tuttavia Aristotele non ci parla molto delle poietiche perchò non lo interessavano molto: ricordiamoci che per lui la vita migliore ò quella del filosofo, mentre quella dell’artigiano che produce non ò valutata positivamente (come d’altronde non lo era in tutto il mondo greco). L’unica scienza poietica valida ed utile era per Aristotele la poesia, della quale ci parla ampiamente nella “Poietica”, opera che però non ci ò pervenuta interamente: pare che ce ne fosse un altro libro che non fu mai ritrovato e sulla cui ricerca ruota “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Per Aristotele il concetto di poietica era molto legato a quello di tragedia: la poietica infatti la si può estendere a qualsiasi forma di creazione artistica: ò la conoscenza che genera qualcosa. A riguardo dell’opera d’arte e della tragedia erano già state formulate due importanti tesi: a) Gorgia, il cui giudizio era stato fortemente positivo: in assenza di un modello da imitare (per lui l’essere non esisteva e tutto era falso), l’artista ò colui che crea nuovi mondi ed ò tanto più bravo tanto più riesce ad ingannare gli spettatori. b) Platone, il cui giudizio non era certo stato positivo: per lui l’arte e la tragedia erano copie di copie, vale a dire copie del mondo sensibile che a sua volta ò copia del mondo intellegibile. Si aggiungeva poi la crisi sul piano morale: l’arte fomenta e stimola la passioni inducendo i giovani (e non solo) ad avvicinarsi ad esse. Aristotele assume una nuova ed importantissima posizione: egli rivaluta l’arte (ed in particolare la tragedia) sia sotto il profilo ontologico sia sotto quello etico: sul iano ontologico Platone diceva che era imitazione di imitazione, Aristotele fa notare che la tragedia ha per lo più come argomento il mito, che racconta cose non vere: i prsonaggi sono dei “tipi umani”. La tragedia, dice Aristotele, descrive il verosimile: non ci dice cosa ha fatto quella determinata persona in quel frangente, ma cosa farebbe qualsiasi persona in quel caso. Ci presenta non il vero ma il verosimile: questo per Aristotele ò un elemento che conferisce un valore particolare: ricordiamoci che la vera scienza per Aristotele ò scienza dell’universale e non el particolare: la tragedia ha quindi una valenza conoscitiva ed ò molto migliore della storia: la storia infatti non mette mai di fronte all’universale, bensì racconta le gesta dei singoli: mi racconta casi particolari e non universali. La tragedia ha quindi una valenza filosofica perchò mi mette di fronte a casi universali. La tragedia ò imitazione in forma drammatica e non narrativa di un’azione seria e compiuta in sò attraverso una serie di avvenimenti che suscitano pietà e terrore: il suo contenuto ò un mito. Da qui in poi si rivaluterà completamente l’arte che Platone aveva disprezzato. Per dirla alla Platone, l’arte per Aristotele non imita il mondo sensibile, ma le idee stesse: imita infatti l’universale. Esaminiamo ora l’aspetto etico-morale dell’arte: come Platone, così anche Aristotele sostiene la metriopazia ( il controllo, la misura delle passioni) e non l’apazia (la privazione delle passioni ): la valutazione della tragedia da parte di Aristotele ò antitetica rispetto a Platone anche sul piano etico: Platone diceva che stimolava alle passioni e che quindi andava abolita, Aristotele introduce la KATARSI artistica: (parola che deriva dalla medicina, suo padre era medico, e risente del suo interesse biologico: katarsi significa “purga” e più in generale “purificazione”: ò il meccanismo con cui ci si purifica dalle sostanze dannose ): chiaramente ò una metafora. Ma che cosa intende Aristotele per purificazione? Il passo in cui ci parla della katarsi ò molto breve (ricordiamoci che erano appunti) complesso e quindi ò difficile capire se intenda purificazione dAlle passioni o dElle passioni: Se fosse dAlle passioni, sembrerebbe che con la tragedia ci si libera dalle passioni, il che ò una contraddizione; quindi Aristotele intendeva purificazione dElle passioni: nella tragedia infatti vengono messe in gioco passioni negative, spaventose: Platone le rifiutava totalmente perchò pensava che vedendole si stimolassero e nascessero in chi le vedeva; Aristotele, invece, scopre che vedere in scena certe passioni ha l’effetto di oggettivarle e di far sì che l’individuo possa riuscire a controllarle: ancora oggi gli psicologi mirano quando i pazienti sono afflitti da ansie a farle uscire, a tirarle fuori, a far prendere coscienza al paziente delle proprie ansie: il fatto di guardarle in faccia, a tu per tu, consente di controllarle e di razionalizzarle. Vedere sulla scena, in un situazione in cui si oggettiva e si vede con un certo distacco, permette di razionalizzare le passioni. Il processo della katarsi consente all’uomo di vivere meglio le passioni negative, il terrore inducendolo a guardarsene. Ritorniamo ale scienze teoretiche, il cui fine ò la verità e la cui base ò il sapere per il sapere: Aristotele effettua una tripartizione: le scienze teoretiche sono 1) FISICA 2) MATEMATICA 3)FILOSOFIA PRIMA. Parliamo di esse a seconda degli oggetti che studiano. Della fisica Aristotele ne parla come filosofia seconda: essa studia oggetti che esistono di per sò, ma sono mutevoli. La matematica studia oggetti immutabili, ma che di per sò non esistono. La filosofia invece studia oggetti che non si muovono ed esistono di per sò. Per Platone erano sostanze in senso pieno le idee, mentre il mondo sensibile era un essere depotenziato: Aristotele costruisce una filosofia più vicina al senso comune: egli si chiede: ” quali tipi di sostanze esistono? ” Arriverà a dimostrare l’esistenza di cose immmateriali, come Dio, ma egli parte dicendo che senz’altro tutte le cose materiali che vediamo intorno a noi esistono; per Aristotele non esistono da soli e separatamente quelle cose che per Platone esistevano (in particolare quelle caratteristiche quantitative che Platone diceva esistere di per sò), come gli enti matematici, i numeri: per Platone c’era il triangolo in sò e poi gli altri triangoli sensibili. Per Aristotele ò l’opposto: esistono i triangoli materiali e poi quello immateriale, che però non può mai esistere come realtà autonoma. Platone aveva minuziosamente dimostrato che noi quando dimostriamo ci riportiamo all’idea di triangolo. Per Aristotele esistono prima i triangoli materiali e poi quello immateriale: quello “ideale” per Aristotele non ò nient’altro che una nostra creazione, siamo noi che facciamo un’astrazione: esso esiste solo come risultato di un processo di astrazione da noi operata. Due libri hanno la forma di parallelepipedo: Platone direbbe che imitano l’idea di parallelepipedo. Per Aristotele no, ò l’opposto: si fa un processo di astrazione dove poco per volta si tirano fuori le caratteristiche: i due libri non hanno colori uguali, quindi tolgo i colori; hanno scritte diverse, quindi tolgo le scritte; sono imprecisi, tolgo le imprecisioni; privato di tutte le caratteristiche mi rimane solo più la forma di parallelepipedo: il processo consiste essenzialmente nell’asportare via le differenze tra i due libri. Diciamo che la matematica indaga cose che di per sò non esistono perchò le si creano con l’astrazione e cher indaga cose immutevoli perchò il parallelepipedo ò sempre esistito. Per Platone il parallelepipedo esiste nell’iperuranio, per Aristotele nel mondo terreno, nei due libri, per esempio. La fisica studia quel mondo fisico che Platone non amava: le sostanze materiali che di per sò esistono ma sono mutevoli. In particolare la fisica studia gli enti naturali. La filosofia prima ò anche chiamata metafisica (abbiamo già spiegato il perchò) Che cosa studia? Ci sono due modi per definire l’oggetto dello studio della filosofia prima: a) Gli oggetti che esistono da soli come le cose sensibili e sono però immutabili come i numeri della matematica: la filosofia prima assumerà poi le istanze di teologia perchò ò solo la divinità che ò immutabile ed esiste di per sò. b) E’ comunque anche un’ontologia perchò studia pure l’essere in quanto essere (quest’espressione, essere in quanto essere, fu proprio creata da Aristotele). Non si occupa di un tipo particolare di essere. Lo studio degli animali in quanto animali ò la biologia, quello dei numeri in quanto numeri ò la matematica, e così via. La filosofia prima invece studia simultaneamente un solo oggetto (la divinità ) e tutti gli oggetti per la loro caratteristica di essere. Aristotele discute poi dell’infinito nel contesto matematico: egli nega l’esistenza dell’infinito, che negherà anche parlando di cosmologia: il cosmo ò una cosa finita. L’infinito per Aristotele esiste solo potenzialmente, ma non ò mai effettivamente attuabile. Non esiste come realtà fisica e neanche come realtà matematica: esiste solo potenzialmente. Concentriamoci sul contesto matematico: Aristotele sa bene che ogni numero ò aumentabile di una unità : l’infinito numerico ò però solo potenziale: si usano sempre e solo numeri finiti che si possono aumentare di una unità : non c’ò mai in atto un numero infinito, solo potenzialmente c’ò. L’infinito esiste anche nell’infinitamente piccolo (sempre potenzialmente): si può dividere all’infinito, ma comunque in realtà non si trova mai un numero infinito. Bisogna precisare che Aristotele aveva una concezione CONTINUA della realtà e non discreta (come invece aveva Democrito ): per Aristotele i numeri non sono infinitamente divisibili (va detto che all’epoca non si conoscevano le frazioni ). L’infinito potenziale esiste, sia nel piccolo sia nel grande; questo però vale solo per la matematica, perchò invece nel mondo fisico non c’ò neppure in forma potenziale. Le considerazioni di Aristotele sulla matematica sono state importantissime per la storia tant’ò che ancora oggi abbiamo una concezione della matematica che ci deriva da Aristotele: per noi, come per Aristotele, i numeri sono astrazioni e non realtà di per sò esistenti (come era invece per Platone: il due esisteva perchò imitava l’idea di due): per Platone il due di per sò non esiste: lo si ricava tramite quel processo di astrazione che abbiamo prima spiegato: ci sono due libri, due penne… Comunque ancora oggi la questione non ò stata risolta e c’ò ancora chi sostiene che i numeri esistano davvero come realtà a sò stanti, schierandosi così dalla parte di Platone: il ragionamento che li porta a dire che esistano indipendentemente dalla realtà ò riassumibile in questi termini: se nessuno contasse più, i numeri continuerebbero ad esistere? I semiplatonici dicono di sì. Però ad Aristotele la matematica non interessa molto, a differenza di Platone che era legato ai Pitagorici: la fisica aristotelica torna ad essere una fisica puramente qualitativa. Se ci chiedessimo se nella concezione della realtà ò più moderno Platone o Aristotele la risposta non sarebbe facilissima: Aristotele riconosce un’autonomia del mondo fisico (indipendente dal mondo delle idee); però Platone ha un carattere quantitativo nello studio della realtà : lo si può definire un precursore della fisica moderna; per Platone infatti non si può studiare il mondo sensibile senza applicare la matematica. Il motore che avvia la ricerca del sapere ò ravvisato da Aristotele nell meraviglia, nel meravigliarsi e nel chiedere “perchò? “. La meraviglia dà quindi avvio ad una ricerca volta a dare risposta a questa domanda e segna la transizione dal che (l’oti) al perchò (il dioti). Per Aristotele la scienza trova la sua espressione nel linguaggio e precisamente nei discorsi. Nei dialoghi la logica svolge un ruolo fondamentale: essa era stata inventata in epoche precedenti ad Aristotele; pensiamo a Parmenide (identità , contraddizione) o a Platone (soprattutto nel ” Sofista “): però non era ancora chiaro fino in fondo il carattere formale della logica: veniva solo applicata ad aspetti concreti. Aristotele invece ò stato l’inventore di un metodo: la sostituzione delle proposizioni con le lettere (cosa che si usa adesso soprattutto in matematica): a ò un numero qualsiasi, non si sa quale, ma sarà sempre quello. Ciò implica la possibilità di studiare le strutture a prescindere dai contenuti. In realtà la parola “logica” ò stata coniata dagli Stoici ed ha avuto gran successo: la logica ò quella che studia il “logos”, il pensiero. In realtà Aristotele la chiamava ANALITICA (dal greco analuo, ana+luo = scomporre una realtà complessa nei suoi elementi: proprio come le proposizioni sostituite dalle lettere ). Come detto, la logica non rientra nelle scienze perchò non ò scienza, però ò lo strumento delle scienze: mi consente di verificare la coerenza dei passaggi logici: essa di per sò non ha nessun oggetto. Logica deriva da logos, termine che significa tanto discorso quanto pensiero: ò come se prima di parlare ad alta voce si parlasse dentro di noi; lo studio di Aristotele in teoria studia, indaga il pensiero ma in realtà studia il linguaggio perchò non si può avere accesso alle menti altrui per indagare il pensiero. Successivamente la logica diventerà studio dei diversi tipi di discorso. Accanto ai libri di logica, Aristotele ha scritto la “Retorica”: fa notare che noi siamo abituati a pensare che la forma classica del discorso ò quella in cui si predicano il soggetto ed il predicato: esempio “Socrate corre “; “Socrate ò ad Atene”… Le proposizioni costituite da predicato e soggetto sono chiamate APOFANTICHE (o dichiarative: dicono qualcosa di qualcosa): queste proposizioni sono le uniche che possono essere o vere o false: se dico “il libro ò sul tavolo ” può essere vero (se effettivamente il libro ò sul tavolo), ma anche falso (se non ò sul tavolo). Le preghiere, le esclamazioni, le domande, i comandi non dichiarativi: non sono nò veri nò falsi; se dico “oimò ” non ò nò vero nò falso. La retorica può rivolgersi sia al passato (valuto, per esempio, le imprese di un uomo) sia al presente (lodo le caratteristiche di una persona, per esempio) sia al futuro (impartisco comandi): sono i discorsi suasori, dove l’importante ò la tecnica del persuadere; Aristotele però non si rivela molto interessato ai discorsi suasori, che non sono nò veri nò falsi. Dire “Socrate ò un uomo” non ò un ragionamento, ma una proposizione (apofantica) che può essere o vera o falsa. Un ragionamento invece ò una catena di proposizioni e Aristotele lo chiama ” SILLOGISMO ” (sun + lego = ragionamento concatenato); un sillogismo ò costruito da due premesse e una conclusione. Le proposizioni sono anche scomponibili; le parti che costituiscono una proposizione sono il soggetto ed il predicato, e dato che sono gli estremi della proposizione vengono chiamati “termini della proposizione”. Le proposizioni possono essere divise sotto tre aspetti: 1) QUANTITATIVO 2)QUALITATIVO 3) MODALE. 1) Sul piano quantitativo, le proposizioni possono essere universali o particolari. Se dico “tutti gli uomini sono mortali” ò universale; se invece dico “alcuni esseri viventi sono animali” ò particolare. Nel primo caso dico che tutti, senza eccezioni, gli uomini sono mortali. Nel secondo caso dico alcuni. Aristotele nell’ambito delle quntitative riconosce anche le “individuali”, per esempio “Socrate ò uomo ” il soggetto non ha valenza nò universale nò particolare, bensì individuale o particolarissimo. Un termine individuale in una proposizione non può mai fungere da predicato, ma solo da soggetto. Invece, i termini che rientrano a costituire le proposizioni della scienza possono fungere sia da predicato sia da soggetto: sono quindi termini universali (ad esempio “uomo”). 2)Sul piano qualitativo, possono essere affermative o negative: sia le universali sia le particolari possono essere sia negative sia affermative; universale affermativa “tutti gli uomini sono mortali”; particolare affermativa “alcuni esseri viventi sono mortali”; universale negativa: “Nessun uomo ò bianco”; particolare negativa “qualche uomo non ò bianco “. 3) Sul piano modale, le proposizioni possono essere a) possibili b) contingenti c) impossibili d) necessarie: a)non ò in un modo, ma potrebbe esserlo (non piove ma potrebbe cominciare) b) ò l’opposto del possibile: ò in un modo, ma potrebbe non esserlo (piove, ma potrebbe non piovere) c) ciò che non ò che non può essere d) ciò che ò e che non potrebbe non essere. Le modali stanno tra loro a 2 a 2: l’impossibilità ò una forma di necessità : dire che una cosa ò impossibile significa dire che ò necessario che non sia. Nel “Parmenide” di Platone questo concetto emergeva molto bene: la necessità ò ciò che ò e che non può non essere. La logica ci consente di studiare la struttura del pensiero e di cogliere gli aspetti formali, evitando così di incappare in errori formali: essa ci permette di fare ragionamenti coerenti. L’unico modo per non fare errori di ragionamento ò separare la forma dal contenuto. Aristotele dice che le proposizioni possono essere CONTRADDITORIE o CONTRARIE: le contrarie hanno la prerogativa di non poter essere entrambe vere, ma di poter essere entrambe false: per esempio le proposizioni “tutti gli uomini sono bianchi” e “nessun uomo ò bianco” sono tutte e due false, in quanto qualche uomo ò bianco e qualche altro non lo ò. Le contrarie però accettano una via di mezzo: in questo caso la via di mezzo ò “alcuni uomini sono bianchi”: un buon modo per cogliere due proposizioni contrarie ò vedere se hanno una via di mezzo. Le contradditorie invece hanno la prerogativa di essere necessariamente una vera e l’altra falsa: “tutti gli uomini sono bianchi”, “qualche uomo non ò bianco”: se la seconda ò vera, la prima non lo ò. Questa divisione aristotelica tra proposizioni contrarie e contradditorie ò di fondamentale importanza perchò noi nei ragionamenti talvolta traiamo conclusioni sbagliate perchò non abbiamo ben chiaro il funzionamento delle proposizioni: a volte diciamo che una cosa ò falsa e argomentiamo che l’opposto ò vero: questo vale solo per le contradditorie: ò il principio della dimostrazione per assurdo. Se non mi accorgo che le proposizioni sono contrarie e ragiono così sbaglio clamorosamente: ad esempio, ” Stalin ò un imbecille”: questo non mi consente di dire ” Hitler ò intelligente”: sono due contrarie e quindi ci deve essee una possibilità intermedia. Finchò le forme del pensiero sono intrecciate col contenuto, i ragionamenti sono incoerenti: per ragionare bene bisogna separare la forma dal contenuto, un pò come nella matematica con le lettere, dove si vede il ragionamento allo stato puro. La logica si muove su tre livelli 1) TERMINI: come abbiamo detto sono il soggetto ed il predicato: i termini non sono mai nò veri nò falsi, solo le proposizioni possono essere vere o false: se dico “uomo” non ò nò vero nò falso, ma se dico “l’uomo corre” può essere falso; anche se dico una cosa che non esiste come l’ippogriffo, un animale mitologico, non ò sbagliato: infatti costruendo la proposizione potrò dire “l’ippogriffo non esiste ” ed ò giusto, oppure “l’ippogriffo esiste” ed ò sbagliato. 2) le proposizioni, che sono le uniche che possono essere o vere o false. 3) I sillogismi, dati da due premesse e una conclusione: essi non sono nò veri nò falsi, ma coerenti o incoerenti: tutto dipende dalle premesse che avevo in partenza. Ad esempio, prendiamo due premesse sbagliate: “tutte le cose verdi sono vegetali” e “tutte le rane sono verdi”: con il sillogismo arrivo alla conclusione che tutte le rane sono vegetali, ma il sillogismo non ò affatto sbagliato: sono sbagliate le premesse ! La conclusione ò stata tratta correttamente sfruttando le premesse. si chiama premessa maggiore di un sillogismo quella che fornisce informazioni più generali, mentre premessa minore quella che fornisce informazioni più particolareggiate: ad esempio: premessa maggiore “tutti gli animali sono mortali”; premessa minore “tutti gli uomini sono animali”; conclusione “dunque tutti gli uomini sono mortali”. Questo sillogismo viene detto di “prima figura”: le premesse sono universali affermative ed il termine medio ò “animali”, che nella prima frase ò soggetto, nella seconda ò predicato. Il termine “animali” ò termine MEDIO perchò mi consente di collegare tra loro nella conclusione gli altri due termini che compaiono invece ciascuno in una sola delle premesse. Accanto a questa prima figura per Aristotele esistono altri due tipi di figure, che si distinguono in base alla posizione del termine medio come soggetto o predicato nelle premesse. Ciascuna figura a sua volta si può articolare in diversi “modi”, a seconda delle qualità delle premesse (affermative o negative) o della quantità (universali o particolari). Ma solo la prima figura agli occhi di Aristotele ò quella propriamente scientifica: essa infatti consente di rispondere alla domanda centrale della scienza “perchò? “; nel nostro caso se ci si chiede perchò tutti gli uomini sono mortali, la risposta ò insita nel termine medio “animali”. E’ il fatto che gli uomini sono animali a spiegare il fatto che essi sono mortali. Il sillogismo partendo dalle premesse arriva a dimostrare che gli uomini sono mortali. Se le premesse sono vere anche la conclusione ò necessariamente vera. Proprietà del sillogismo ò infatti la trasmissione della verità dalle premesse alla conclusione. Il carattere universale delle premesse consente di raggiungere una conclusione universale e necessario e proprio della scienza ò ciò che ò vero universalmente in tutti i casi. Il termine medio gioca un ruolo fondamentale perchò mi consente di collegare le premesse per trarre la conclusione. Si possono anche analizzare le mansioni dei termini: il medio svolge le funzioni sia di predicato (tutti gli uomini sono animali) sia di soggetto (tutti gli animali sono mortali): ò proprio il fatto che in una proposizione il medio sia soggetto e nell’altra predicato che mi consente di trarre la conclusione corretta. Se il “medio” fosse solo predicato o solo soggetto in tutte e due le premesse non potremmo trarre conclusioni così semplici: se per esempio avessimo queste due premesse “tutti i vegetali sono verdi ” e “tutte le rane sono verdi” finiremmo per dire “tutte le rane sono vegetali”: il medio (rane) ò soggetto in tutte e due le proposizioni. In questo caso teoricamente non lo si può neanche chiamare termine medio. La logica, come detto, ci consente di evitare errori perchò separa le forme dai contenuti; nel passato ci fu chi disse “quel tale ha quel carattere ed ò delinquente” “tu hai quel carattere” “di conseguenza sei delinquente”: ò sbagliatissimi perchò il termine medio (carattere) ò solo predicato. Secondo Aristotele il termine medio serve a spiegare il dioti, il perchò di un qualcosa. Si ò però più volte notato che in realtà le conclusioni spesso non derivano dalle premesse: nel nostro caso per dire che gli uomini sono mortali non ò necessario dire che sono animali e gli animali ono mortali: tutti sappiamo che gli uomini sono mortali anche senza effettuare questo ragionamento. Sappiamo per altre vie che l’uomo ò mortale (per esempio per il fatto che tutti gli uomini esistiti sono morti), però il sillogismo ci fa capire il legame logico tra le varie proposizioni: ci consente di acquisire il dioti e non solo l’oti; sappiamo tutti che l’uomo ò mortale, ma per capire il perchò occorre il sillogismo. Ciò che ci fa capire il perchò (ed in parte vi si identifica) ò il termine medio: il puro e semplice oti (gli uomini sono mortali) non dimostra l’inutilità del sillogismo: ò un pò come un sistema. In altre parole il sillogismo non ci fa capire la verità , ma i nessi tra le verità . Perchò gli uomini sono mortali? La risposta ò nel termine medio: perchò sono animali. La struttura del sillogismo ò DEDUTTIVA: si parte da verità universali per dimostrare realtà particolari. Il termine deduzione deriva dal latino “deduco” (de+duco = tiro giù da una verità che sta più in alto una verità che sta più in basso). Ma che origine hanno le premesse? Possono avere due origini differenti: a) possono essere conclusioni: ogni premessa infatti può essere conclusione di altre premesse: ò comunque un processo che non può andare avanti all’infinito. b) In molti casi le premesse generali derivano da processi induttivi (arrivo cioò da casi particolari a casi più generali); la conoscenza ò un pò come un circolo, ma non vizioso: da casi generali si passa a casi più specifici e viceversa; sarebbe un circolo vizioso se per arrivare a verità generali si dovessero analizzare tutti i casi: ad esempio se per dimostrare che “tutti gli animali sono mortali” dovessi esaminare uno ad uno tutti gli animali esistenti (ed esistiti) sono mortali: ma non ò così ! Aristotele ritiene che mediante processi astrattivi, con un certo numeri di esempi si possa cogliere un’essenza generale comune a tutti gli elementi di una specie: come per Platone, anche per Aristotele esistono realtà universali che vengono compartecipate da tanti individui: per lui però sono forme e non idee: la forma uomo ò in tutti gli uomini: se l’essenza uomo ò caratterizzata dalla mortalità posso arrivare a tirar fuori da un pò di casi che tutti gli uomini sono mortali. Per capire questo non ho bisogno di andare a vedere che tutti gli uomini esistiti sono morti: da singoli casi con l’astrazione e cogliendo le caratteristiche (sfruttando solo quelle comuni) posso arrivare a dire che tutti gli uomini sono mortali: questo anche se analizzo solo tre uomini: tutti e tre han la forma uomo: se son morti quei tre tutti quanti gli uomini sono mortali: passo dal particolare all’universale. Anche Socrate, per dire, anche se adesso ò ancora vivo, ò un mortale perchò tutti gli uomini lo sono: dimostro con l’induzione. Quindi abbiamo detto che non ò un circolo vizioso perchò non vado ad esaminare tutti gli uomini del mondo, ma solo alcuni: arrivo a dire che ò mortale Socrate che non era nel gruppo di coloro che ho analizzato: però arrivo a dire che anche lui ò mortale. Per Aristotele esistono gli UNIVERSALI, che a differenza di quanto era per Platone sono calati nella materia: se in un tale colgo l’essenza universale dell’uomo, questo processo vale per qualsiasi uomo. L’intelletto per Aristotele ha funzione DIMOSTRATIVA: consente, partendo da determinati principi, di arrrivare a conseguenze. Ma abbiamo detto che il sillogismo può essere di vari tipi: quello scientifico ò quello che parte da premesse vere per arrivare a conclusioni vere. Aristotele fa notare che mentre se una premessa le conclusioni sono vere, se invece le premesse sono false non sempre le conclusioni sono false. Ad esempio, posso arrivae a dire che le rane sono verdi dicendo che sono vegetali. Tutte le rane sono vegetali, tutti i vegetali sono verdi, di conseguenza tutte le rane sono verdi. Si può in qualche misura argomentare in modo contrario: quando le conclusioni son false, allora anche le premesse sono false (argomentazione per assurdo), ma se mi trovo di fronte a conclusioni vere non sempre le premesse sono vere. Il sillogismo scientifico presuppone che oltre al dimostrare correttamente, ci sia l’intelletto, il saper cogliere principi: c’ò la dimostrazione come argomentazione, l’intelletto per cogliere principi: la scienza raccoglie ambedue. Il numero di casi per l’induzione non ò sempre lo stesso: per i casi empirici ne occorrono un pò: Aristotele crede di poter stabilire una realazione tra il fatto che un animale sia longevo e il fatto che sia dotato di cistifellea: cita così diverse specie animali e la durata della loro vita. Ma in alcuni frangenti basta un caso solo: ò il caso della geometria. Con l’induzione si arriva a tante cose: per Aristotele attraverso l’intelletto si arriva a principi comuni validi per tutte le scienze, e ad altri validi solo per alcune scienze: i principi della geometria per esempio riguardano solo le qualità spaziali. Facciamo un piccolo riassunto: il sillogismo ò lo strumento principale della scienza: la scienza ò quindi dimostrazione. Ma si può dimostrare tutto? Nasce qui il problema dell’assunzione delle premesse; certamente molte premesse di determinati sillogismi (come abbiamo già detto) sono a loro volta conclusioni di altri sillogismi, ma se si vuole evitare di andare all’infinito alla ricerca di premesse, che debbono costituire il saldo punto di partenza della scienza, occorre rintracciare un tipo di premesse la cui verità non richieda necessariamente una dimostrazione. Occorre quindi uno strumento, diverso dalla dimostrazione, in grado di coglierle nella loro verità . A questa funzione presiede l’intelletto. Esso ò dunque una disposizione non innata, ma acquisibile con l’esercizio, a cogliere l’universale per via non dimostrativa. Esso coglie i primi principi indimostrabili che stanno alla base di ogni scienza per via induttiva. Ecco quindi la distinzione di cui parlavamo tra principi propri di ogni singola scienza (quali per la geometria la definizione degli enti e delle figure geometriche, per l’aritmetica la definizione dei numeri in pari, dispari… ) e i principi comuni a tutte le scienze (per esempio “il tutto ò maggiore della parte” o “Se da uguali sono sottratti uguali, i resti sono uguali): essi hanno una caratteristica non devono essere dimostrati. Ciascuna scienza li usa in relazione agli oggetti specifici di sua competenza: per esempio la geometria in relazione alle grandezze geometriche, l’aritmetica in relazion ai numeri, e così via. Aristotele trova tre principi fondamentali da cui nessuna scienza può prescindere: 1) IDENTITA’ 2) CONTRADDIZIONE 3) TERZO ESCLUSO. 1) A ò A e non può essere non-A 2)Aristotele dà 2 formulazioni a questo principio a)ò impossibile che la stessa cosa sia e non sia al tempo stesso (sembra uguale a quello di identità , ma non lo ò) b) ò impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga nello stesso tempo alla stessa cosa. c)A o ò B o non ò B: non c’ò una terza possibilità : delle due proposizioni contradditorie una deve essere per forza vera. Questi sono i principi generaliossimi della logica: aristotele fa notare che non sono dimostrabili (come abbiamo detto anche noi); a rigore non si possono neppure cogliere bene per via induttiva. Aristotele argomenta in loro favore con la CONFUTAZIONE: non dimostra la verità , ma fa notare che sarebbe impossibile ragionare senza di loro; non solo, ò anche impossibile argomentare contro questi tre principi. E’ un caso di dimostrazione indiretta (quasi per assurdo). Aristotele ò il primo autore che ammetta una autonomia reciproca delle scienze: per Platone esisteva una sola scienza: chi sapeva i principi, sapeva tutto. Con Aristotele incomincia quel processo per cui le varie scienze hanno acquisito autonomia dal sapere centrale e dalla filosofia. In Aristotele la filosofia ò la filosofia, ma poi c’ò l’albero della scienza, dove c’ò un tronco centrale ma anche tante ramificazioni. Aristotele riconosce sì una certa autonomia alle varie scienze, ma come i rami di un albero sono in stretto contatto con il tronco centrale, così le varie scienze sono imparentate con un tronco centrale: la filosofia e la logica: da notare che i principi della logica sono in buona parte gli stessi della filosofia. Prendiamo per esempio le tesi di Parmenide ed in particolare il principio della contraddizione: in termini logici si dice che non c’ò contraddizione, ma sul piano filosofico-ontologico si dice che ò impossibile che lo stesso soggetto abbia caratteristiche contradditorie: per noi come per Aristotele le leggi del pensiero e della realtà sono le stesse. Aristotele fa vedere cose della realtà anche nell’ambito della logica, in forma logica. A quei tempi tutto era diverso: pensiamo ai Pitagorici che si stupivano che ciò che scopriva la matematica corrispondeva alla realtà : il teorema di Pitagora vale su un triangolo astratto (sull’idea di triangolo, secondo Platone ) e poi su quelli reali. In Aristotele la parola DIALETTICA ha significato diverso rispetto a Platone: per Platone era un sinonimo di filosofia, per Aristotele significa “ragionamento che implica una dimostrazione con gli altri”. Posso sì dedurre ed indurre da solo, ma la dialettica implica un rapporto con gli altri: ò quel ragionamento che parte non da ciò che ò vero perchò colto col sillogismo ed il ragionamento scientifico, ma da punti di partenza (premesse) prese per buone nel contesto in cui si parla: Aristotele dice “le premesse usate dai più o dagli esperti o dalla maggioranza degli esperti “: non ò una verità assoluta, ma un modo per cominciare la discussione di una tematica. E’ interessante notare che Aristotele abbia inventato il sillogismo ma che l’abbia usato davvero poco: usa di più gli argomenti dialettici: prende dei punti condivisi da molti e li discute: quando si cimenta nella ricerca delle quattro cause, parte dai punti di vista dei presocratici (coloro che vissero prima di Socrate ). Agli occhi di Aristotele la conoscenza ò una sorta di processo collettivo nel quale si trovano coinvolti gli uomini del passato e del presente. Quindi partiva dalle premesse dei suoi predecessori e ci ragionava sopra discutendo se potevano essere accettate o no. Aristotele crede di partire dai PHAINOMENA (“fenomeni”, ciò che appare all’esperienza): questo conferma il fatto che Aristotele sia un empirista: per lui la mente ò una “tabula rasa” da riempire con le esperienze. Comunque fanno parte dei “phainomena” non solo le esperienze, ma anche le opinioni altrui: Aristotele anche quando studia gli organismi riproduttivi, non si serve solo delle esperienze personali, ma anche dei pareri degli antichi. Lo studia comincia ad essere mescolanza di esperienze personali e ragionamenti con il libro: ò proprio con Aristotele che il libro diventa strumento di sapere: ci fornisce quel materiale di elaborazione degli altri, ciò che ò stato scritto. Ma se per conoscere si usano queste tecniche, il sillogismo che valore ha? Il meccanismo per scoprire la verità ò la dialettica, quello per stabilire i nessi delle realtà ò il sillogismo, che ci fornisce il dioti. A livello teorico abbiamo distinto fisica da metafisica: sia il sillogismo sia la dialettica rientrano nella metafisica, la pretesa di cogliere ciò che sta al di là delle cose fisiche. L’essenza c’ò anche nella fisica. La fisica studia gli oggetti che esistono di per sò ma sono mutevoli (ò l’opposto della matematica); la metafisica studia tutto l’essere in quanto essere ma anche l’essere che esiste ed ò immutabile (la divinità ); in pratica studiamo la metafisica come ontologia: se ò studio dell’essere in quanto essere si occupa anche di oggetti fisici. Ma che cos’ò l’essere? L’essere può essere ricondotto alla sostanza. Dire “che cosa ò l’essere? ” si può ricondurre a “che cosa ò la sostanza? “. Per rispondere Aristotele si pone un problema: ” essere” ha significato univoco o biunivoco? (in realtà “biunivoco” e “univoco” sono termini medioevali) Aristotele risponde che non ò nò univoco nò biunivoco, ha significati analogici; a questo punto Aristotele fa un esempio servendosi dell’aggettivo greco “salutare”: ò salutare tutto ciò che ha a che fare con la salute, il clima, una persona, un cibo… Il ragionamento che ne consegue ò c
- Antica, Romana, Età Cristiana
- Aristotele
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