Cartesio opera come scienziato e filosofo per tutta la prima metà del 1600 e ha grande importanza non solo in ambito filosofico e scientifico, ma pure letterario: è infatti considerato insieme a Pascal il fondatore della prosa francese; caratteristiche del suo stile sono la chiarezza e la linearità , caratteristiche che finiranno poi per influenzare anche l’ illuminismo. Non è affatto sbagliato dire che il linguaggio di Cartesio è il linguaggio della ragione illuministica per diversi motivi. Innanzitutto l’ epoca in cui vive Cartesio è stata definita l’ età del razionalismo, ossia l’ età dell’ indiscussa onnipotenza della ragione umana: è evidente come vi siano analogie con l’ illuminismo, che prende il nome proprio dai lumi della ragione. Tuttavia tra razionalismo e illuminismo possono essere ravvisate anche differenze: il 1600 è l’ epoca in cui si riscopre, dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il medioevo, la ragione umana e come ogni scoperta appena fatta vi è la tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i limiti: ecco allora che nel 1600 i filosofi ripongono tutta la loro fiducia nella ragione in modo acritico, senza domandarsi se essa abbia dei limiti o meno. Nel 1700, invece, dopo cento anni che questa riscoperta è stata introdotta, ci si comincia a chiedere se la ragione abbia dei limiti o meno: certo l’ illuminismo è figlio del razionalismo in quanto si predilige la ragione ad ogni altro strumento di indagine, ma l’ approccio con la ragione stessa risulta diverso, più ponderato e critico. Ma a questo punto sembra che con l’ illuminismo si ritorni al medioevo perchò in fondo già San Tommaso, che nutriva grande fiducia nella ragione, si era chiesto fin dove potesse arrivare. La vera differenza tra illuminismo e medioevo è che mentre per il medioevo la ragione è limitata da Dio stesso, per l’ illuminismo i limiti della ragione sono imposti dalla ragione stessa: questo lo posso conoscere, quest’ altro no. Locke, filosofo preilluminista, definisce la ragione come una candela che ci illumina il cammino; è sì l’ unica luce che possa illuminarci il cammino, ma rimane comunque una luce fioca, che non può tutto. E’ anche interessante la metafora di cui si avvale il più grande filosofo illuminista, Kant, nella Critica alla ragion pura, che dice di aver istituito il tribunale della ragione: la ragione è contemporaneamente sia giudice sia imputato: si vedono i limiti e si dà un giudizio, ma a dare il giudizio è proprio colei che è accusata, la ragione. Ecco allora che per gli uomini del 1700 la ragione non è più un qualcosa di illimitato come era per gli uomini del 1600, ma è tuttavia l’ unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà . Cartesio dal canto suo ha grande fiducia nella ragione umana ed è caratterizzato da quell’ eccessivo entusiasmo tipico dei filosofi del 1600; l’ opera che può essere considerata compendio di tutta la sua filosofia è il Discorso sul metodo, che tuttavia presenta diverse contraddizioni e aporie: numerosi risultano i passaggi del suo ragionamento che presentano difficoltà e possono essere oggetto di critica. Malgrado questo e forse anche per questo, l’ impostazione filosofica di Cartesio è stata predominante per mezzo secolo circa: tutta la filosofia successiva sarà un tentare di risolvere i problemi da lui lasciati in sospeso o affrontati erroneamente. Cartesio viene spesso definito il fondatore del meccanicismo moderno, ossia il vedere il mondo come una grande macchina, come l’ urtarsi di palle da biliardo su un tavolo: Cartesio non fa altro che riprendere quanto già aveva detto Galileo, che oscillava tra un meccanicismo metodico ( nel mondo ci sono qualità e quantità , ma io posso e devo esaminare in termini matematici solo le quantità ) e ontologico ( esistono solo quantità e le qualità non sono altro che il manifestarsi soggettivo di cose oggettive ). Cartesio opta per il meccanicismo ontologico, preferendo l’ idea che esistano solo quantità . Questo passaggio di Cartesio, che accompagnerà tutta la filosofia del 1600, in realtà , non è propriamente legittimo, sebbene egli cerchi di argomentare in suo favore: Galileo stesso, pur avendo avuto il dubbio che tutto sia fatto solo di quantità , non l’ aveva dimostrato un pò perchò non c’ era riuscito e un pò perchò non gli interessava ( lui esaminava il come e non il che cosa e il perchò ). Il Discorso sul metodo non è l’ unico testo di Cartesio e non è neanche il più importante: basti pensare che gli stessi argomenti esposti in modo anche più approfondito li troviamo nelle Meditazioni metafisiche, che tra l’ altro diedero adito a un dibattito internazionale: da tutta Europa vennero spedite lettere a Cartesio, che non rinunciò a rispondere, nelle quali gli si muovevano obiezioni e gli si mostravano incongruenze presenti nelle sue teorie ( Hobbes stesso ebbe modo di scrivergli ). Tuttavia il libro di Cartesio più letto da sempre è il Discorso sul metodo per la sua estrema chiarezza e linearità ( non è un testo particolarmente difficile ) e per la sua brevità : in esso Cartesio fa un riassunto generale e complessivo di tutta la sua filosofia, cosa piuttosto rara per un pensatore. La storia stessa del Discorso sul metodo è piuttosto curiosa: infatti non era stato pensato come libro indipendente, bensì come prefazione a una raccolta di tre saggi scientifici su tre argomenti specifici, saggi che al giorno d’ oggi vengono raramente pubblicati. Questo discorso sul metodo però aveva una valenza ben superiore di quella di prefazione e Cartesio in fondo lo sapeva benissimo; infatti non si tratta di un semplice Discorso sul metodo, ma di un testo ricco di argomenti e di significati: certo vi è anche un’ ampia indagine sul metodo, atteggiamento peraltro diffusissimo all’ epoca ( già Galileo e Bacone avevano fatto qualcosa del genere ): in Cartesio e in molti altri pensatori del 1600 è radicata la convinzione che il problema fondamentale della ricerca della verità fino ad allora sia stato un fallimento proprio perchò il metodo usato era fallimentare: per arrivare alla verità occorre mettersi a monte della ricerca e chiedersi in che modo effettuarla, con che metodo: senza metodo infatti non sarà mai possibile acquisire verità alcuna. Quest’ idea del fare discorsi sul metodo è tipica del 1600 come pure del 1700, dove però più che il problema del metodo ci si porrà quello gnoseologico ( indagare sugli strumenti conoscitivi ). Però in sostanza il problema di fondo rimane sempre quello: bisogna mettersi a monte della ricerca per esaminare gli strumenti con cui condurre la medesima. Kant si porrà la domanda: che cosa posso conoscere? Tuttavia nel Discorso sul metodo affiorano anche altre tematiche, quali l’ autobiografia spirituale di Cartesio stesso: è tipico del pensiero moderno l’ interessamento per l’ interiorità ; non a caso si è soliti fare iniziare l’ età moderna con Petrarca che si richiamava esplicitamente ad Agostino e alle sue Confessioni per avviare una ricerca interiore. La celebre frase di Agostino che riassume il tutto è: ho cercato due cose, l’ anima e Dio. Anche Cartesio in fondo nel discorso sul metodo svolge un’ indagine interiore, sostenendo che prima ancora che cercare la verità occorra cercare il metodo con cui cercarla: l’ indagine del soggetto diventa la premessa dell’ intera ricerca: prima di avviare la ricerca devo indagare all’ interno della mia personalità per trovarvi un metodo adatto. Sempre a proposito dell’ interiorizzazione è bene ricordare che con la fine del medioevo e con l’ inizio del 1500-1600 si era diffusa sempre più la lettura silenziosa ( interiore ), l’ interiorizzazione del tempo e dello spazio e altre cose del genere che devono senz’ altro aver dato il loro contributo. E’ quindi evidente che nel Discorso sul metodo ci sia questo atteggiamento autobiografico perchò in fondo per trovare il metodo bisogna esaminare il soggetto; ciò che al massimo può essere curioso è che ci sia un’ autobiografia come premessa per una raccolta di saggi scientifici. Ritornando al testo del Discorso sul metodo, dopo aver detto che esso ha essenzialmente tre valenze ( 1 indagine sul metodo 2 riassunto della filosofia cartesiana 3 autobiografia spirituale ), entriamo nel dettaglio: il libro è diviso in 4 parti, di cui la prima e la quarta risultano più semplici per via del loro carattere discorsivo. Cartesio esordisce affermando che la ragione è uguale in tutti gli uomini, ma diverso è l’ uso che gli uomini ne fanno. Con questa affermazione Cartesio pare essere un precursore dell’ illuminismo a tutti gli effetti: gli illuministi diranno infatti che esiste un’ unica ragione uguale sempre e ovunque. Però, se esaminata più approfonditamente, l’ affermazione di Cartesio è diversa da quella degli illuministi: se qualcuno fa più strada nella ricerca della verità è perchò conduce la propria ragione meglio di altri: ecco che emerge l’ importanza di cercare e trovare un metodo per poter condurre la propria ragione perchò senza di esso è destinata a fare davvero poca strada; come Bacone, anche Cartesio sostiene che alla verità non si arriva per le straordinarie potenzialità intellettive dei singoli, ma per il metodo che si adotta. In presenza di una ragione uguale per tutti è proprio il metodo che ciascuno ha che porta a risultati diversi. Cartesio, in modo quasi timido e titubante, fa notare che se è il metodo ciò che conta e che conduce alla verità , ebbene lui ne ha trovato uno che a suo avviso funziona piuttosto bene e che intende proporre agli uomini: non vuole imporlo, ma solo proporlo, dicendo che a lui è parso efficace, ma ad altri può sembrare inefficace. Egli propone quindi il suo metodo come un qualcosa fatto a misura per lui e che forse non a tutti andrà bene, ma in realtà è ovvio ( tanto più che l’ ha pensato in termini matematici ) che Cartesio volesse dare al suo metodo una valenza universale, pur non volendo imporlo brutalmente. Poi racconta di aver studiato in un collegio di Gesuiti che gli hanno impartito le prime conoscenze: dice che sono state conoscenze interessanti, ma ne sottolinea i limiti: non gli hanno fatto acquisire una conoscenza chiara e sicura, non gli hanno cioò dato evidenze: proprio il concetto di evidenza è basilare in Cartesio e ha due valenze, 1 ) di conoscenza chiara e lineare, 2 ) di conoscenza espressa in termini rigorosi e fondati. Dice di aver appreso molte cose interessanti nella sua gioventù, ma tutte di dubbia utilità , volte solo a stupire il prossimo: quello che non gli hanno dato è stata proprio quella conoscenza sicura che egli brama di ottenere. La filosofia e la matematica hanno grandi limiti agli occhi di Cartesio: la prima gli pare una disciplina che rende chi l’ acquista in grado di sbalordire gli ascoltatori tramite ragionamenti spericolati e sopraffini, mentre la seconda gli sembra essere utile solo per risolvere qualche problema pratico limitato. Ciò che intende fare Cartesio è dare un nuovo senso alla matematica e alla filosofia cercando di integrarle a vicenda: la filosofia infatti si occupa del mondo reale ma ha il limite di non avere un metodo rigoroso con cui indagare, la matematica ha un metodo rigoroso di indagine ma è legata ad un mondo inesistente, puramente ideale, quasi come un gioco di intelligenza su di un mondo che non c’ è. In altre parole, la filosofia si occupa in modo non rigoroso di cose reali, la matematica si occupa in modo rigoroso di cose non reali. Ecco che allora il problema consiste nell’ accostarle e nel riuscire ad integrarle e Cartesio prova a risolvere il problema partendo dai limiti di entrambe. Dal momento che gli studi libreschi compiuti in gioventù l’ hanno deluso, Cartesio decide di acquisire nuove conoscenze mettendosi in viaggio: siamo nel bel mezzo della guerra dei trent’ anni ed egli si arruola con l’ intento di girare il mondo. Ma rimane alquanto deluso anche da questa seconda esperienza e arriva a questa conclusione: il mondo merita di essere girato quel tanto che ci porta a capire che non è il mondo a darci nuove conoscenze. Certo da un paese all’ altro i costumi dei popoli cambiano, ma il vero arricchimento conoscitivo cui Cartesio perviene dopo questo peregrinare per l’ Europa è che non è nel mondo che si può scoprire la verità . Se non è dai libri nò dal mondo che si può arrivare alla verità , come vi si può arrivare? Cartesio giunge alla conclusione che l’ unico modo per arrivare ad una conoscenza valida ed esauriente è svolgere un’ indagine interiore, scavando dentro se stessi: ecco allora che risulta evidente il richiamo ad Agostino, il quale, come detto, sosteneva di aver ricercato due cose, l’ anima e Dio. Certo gli obiettivi che si prefiggono Cartesio e Agostino sono molto diversi tra loro: Agostino intendeva arrivare a Dio, Cartesio invece vuole approdare ad una fondazione di una metafisica utile per la fondazione di un discorso scientifico: egli parte dall’ io, passa attraverso Dio e arriva al mondo esterno. Durante la guerra dei Trent’ anni, agli inzi dell’ inverno, trova un posto tranquillo dove può ragionare e riflettere in pace: ecco che scava dentro di sò e trova il metodo, che propone senza imporre: non vuole stravolgere le tradizioni in vigore e passare per sovversivo; si limita a raccontare della sua esperienza personale, di come gli sia capitato di trovare un metodo a suo avviso soddisfacente, dopo aver rinunciato agli insegnamenti scolastici e al peregrinare per il mondo. Nel suo ragionare di impostazione agostiniana scopre le regole di questo suo metodo strepitoso e capisce che bisogna azzerare totalmente il sapere antico, che non è riuscito a portare alla verità , pur senza sovvertire la tradizione. Nel suo metodo cerca di recuperare e assimilare due degli insegnamenti che aveva ricevuto ma che da soli non potevano bastare: la filosofia e la matematica, che devono assolutamente essere integrate, in modo da potersi completare a vicenda. Ecco allora che, come un’ illuminazione, gli balenano per la testa le 4 regole del metodo: 1 ) non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: apparentemente sono cose ovvie, ma se ci pensiamo bene Cartesio sta dicendo qualcosa di davvero innovativo: bisogna entrare nell’ ottica di accettare solo ciò che ci appare evidente e inconfutabile, senza accettare qualsiasi cosa che possa essere messa anche lontanamente in dubbio: pare qui evidente l’ influenza su Cartesio dello scetticismo antico; come molti altri autori di quegli anni ( a partire dal Rinascimento ) Cartesio aborre dalla tradizione aristotelica ( tipica soprattutto del medioevo, di un’ epoca buia secondo gli uomini del 1500 ) per riprendere tutto ciò che non è aristotelico. Cartesio dice quindi che tutto ciò che non è evidente va scartato; ma se non ho certezze, arriverò a comportarmi come faceva Pirrone, il quale, visto che non aveva certezze, si faceva mordere dai cani e investire dai cavalli nella convinzione che, in assenza di certezze, ciò potesse essere un bene. Ecco che Cartesio deve comprendere come ci si debba comportare quando non si hanno certezze, nel tempo in cui non sono ancora state trovate: certo egli non arriva a formulare teorie estremistiche quali quelle propugnate da Pirrone, ma arriva a dare le regole per una morale provvisoria: finchò non vengono trovate le evidenze inconfutabili su cui si deve fondare la vera morale, bisogna attenersi alla morale provvisoria, che esamineremo meglio in seguito. Ora il vero problema è trovare qualcosa di davvero inconfutabile su cui non si possa nutrire dubbio alcuno: basterebbe trovare anche una sola cosa di indubitabile, ma dovrebbe essere indubitabile nel vero senso della parola: in questo modo si avrebbe il primo vero mattone stabile per costruire il nuovo edificio del sapere, stabile e non vacillante, come invece si era rivelato quello degli antichi: l’ edificio del sapere degli antichi agli occhi di Cartesio è fatiscente e altamente instabile e l’ unico modo per approdare ad un sapere certo è abbattere questo edificio per costruirne uno nuovo su fondamenta più sicure; si tratta ora di trovare il primo mattone davvero solido per dare il via alla costruzione. Proprio nel dubbio consiste l’ atto dell’ abbattimento della costruzione antica che non si è mai rivelata stabile: ma questo dubitare e buttar giù l’ edificio del sapere classico non va visto in termini negativi, anzi, è il punto di partenza per un sapere davvero valido e certo. In prospettiva Cartesio spera di poter costruire una conoscenza valida anche per la morale dell’ uomo, essendo convinto che da una piena conoscenza delle cose possano derivare i comportamenti che occorre assumere. Ma nella fase in cui l’ antico edificio del sapere viene abbattuto e si fanno i progetti per costruire quello nuovo, l’ uomo dove deve andare ad abitare? Finchò non c’ è il sapere certo, l’ uomo come deve comportarsi? Ecco allora che Cartesio costruirà una morale provvisoria, ossia una serie di regole non razionali, ma ragionevoli, dettate non dalla ragione ma dal buon senso. In questo mettere in dubbio ogni cosa Cartesio ne salverà una sola, come vedremo meglio più avanti: resta ora da chiarire se davvero egli credesse a ciò che diceva; in altri termini, davvero Cartesio ha messo in dubbio in cuor suo tutto quanto, compresa l’ esistenza del mondo fisico e la validità delle verità matematiche? Davvero crede di poter dubitare che 2 + 2 = 4? La risposta è insita nella distinzione tra dubbio psicologico ( non so effettivamente se sia così o no ) e dubbio metodico ( sono convinto che le cose stiano così, ma non so dimostrarlo razionalmente, e anzi, provandoci potrei addirittura metterle in dubbio ). E’ evidente che il dubbio di Cartesio sulle verità matematiche e sul mondo fisico sia di tipo metodico: egli è convinto che il nostro mondo esista e che 2 + 2 = 4, come d’ altronde lo siamo tutti. Tuttavia Cartesio avanza la curiosissima ipotesi del genio maligno: chi non ci dice che siamo stati creati da un genio malvagio che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarci, per farci credere che 2 + 2 = 4, per farci prendere per certe cose false? Senz’ altro è un’ ipotesi non ragionevole, ma molto interessante. Senz’ altro Cartesio non credeva all’ esistenza del genio malvagio ( e arriverà infatti anche a negarla in termini razionali ), resta ora da capire perchò egli avanzi quest’ ipotesi. Egli lo fa essenzialmente perchò è sua intenzione riformare la conoscenza in termini assolutamente certi e inconfutabili, è come se volesse abituarsi a non prendere nulla per certo, bensì a sottoporlo ad un’ accurata indagine della ragione. E’ solo dubitando di tutto che si arriverà ad una certezza davvero indubitabile ed evidente, sulla quale poggerà un sapere certo; a proposito di evidenza, Cartesio introduce due concetti per spiegarla: chiarezza e distinzione. Un’ idea è chiara quando è autotrasparente, quando la contemplo e mi risulta subito manifesta in tutti i suoi aspetti: la contemplo e la concepisco perfettamente nella sua globalità , senza che nulla mi resti oscuro. Un’ idea distinta deve essere appunto distinta, separata da tutte le altre idee: si deve manifestare isolata e proprio per questo meglio coglibile. Quindi una cosa è evidente quando è chiara e distinta. Ma quale è lo scopo di questo dubbio metodico? Per comprendere immaginiamo di avere nelle nostre conoscenze aree bianche ( cose che conosciamo ), aree grige ( cose che conosciamo imperfettamente ) e aree nere ( cose che non conosciamo ): con il suo dubitare esasperato Cartesio finisce proprio per arrivare a considerare nere tutte le aree grige: tutto ciò che non è evidente, certo, inconfutabile, va scartato senza esitazione. In altre parole, Cartesio scambia la quantità con la qualità : si priva di un sacco di certezze e di cose ovvie spostando le conoscenze dell’ area grigia all’ area nera, ma questa perdita quantitativa è tutta a favore della qualità : avrò meno certezze, ma quelle che avrò saranno salde e insmontabili; da qui si deve ripartire per costruire il nuovo sapere. Ritornando alle altre regole del metodo: 2 ) dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente; 3 ) condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra; queste due regole le affrontiamo insieme perchò presentano analogie e uno stretto rapporto di parentela: sono di chiara derivazione algebrica e geometrica. Quando siamo di fronte ad un problema complesso il metodo migliore per risolverlo è suddividerlo, smontarlo in passaggi semplici fino ad arrivare a verità semplicissime ma inconfutabili. Una volta fatto questo, avendo cioò smontato il problema in tante piccole parti, lo si deve ricomporre con le tante piccole verità ottenute: è chiaramente lo stesso procedimento di un’ espressione algebrica e ciò cui Cartesio si riferisce sono le parentesi tonde, quadre e graffe che isolano passaggi semplici facenti parte del tutto. I singoli passaggi sono semplici, basta non fare errori di distrazione e nel rimontare il problema e il gioco è fatto: così bisogna agire con i pensieri. 4 ) Fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla: l’ errore classico che si può commettere in un’ espressione algebrica è quello del segno, ossia mettere un segno invece di un altro: ma è un errore non dovuto ad una carenza mentale, bensì ad una dimenticanza, un errore di memoria potremmo dire: quello che Cartesio vuole dire con questa quarta regola è di fare una revisione dopo aver suddiviso il problema in piccole parti e, svolte, averle rimesse insieme per evitare di fare errori di dimenticanza, proprio come in un’ espressione algebrica. Ecco allora che una volta risolto il problema che ci eravamo prefissi di risolvere, non dobbiamo fermarci, bensì dobbiamo controllare di non aver tralasciato nulla e di non aver commesso errori. Con gli esempi di tipo matematico Cartesio non intende dire che il suo metodo consiste nel risolvere ogni problema della vita con i numeri, anche perchò sarebbe assurdo; vuole invece suggerirci di usare il metodo che usiamo in matematica per modellare qualsiasi altro ragionamento. Che la matematica potesse andare benissimo come strumento di indagine della realtà fisica l’ avevano già sostenuto Galileo e tanti altri scienziati del 1500 – 1600; Cartesio condivide in pieno l’ idea di esaminare in termini rigorosi ( quindi matematici ) la realtà fisica, ma fa ancora un passo avanti: dice che il mondo è fatto esclusivamente di quantità e per questo l’ unico mezzo per studiarlo e interpretarlo è la matematica, la forma di ragionamento più efficace e rigorosa di cui disponiamo. Ecco allora che Cartesio porta alle estreme conseguenze ciò che in Galileo era solo un dubbio: le qualità non esistono nella realtà , sono solo modi di manifestarsi delle quantità sui nostri sensi: quelli che noi chiamiamo odori non sono altro che atomi con una loro forma specifica che vanno a urtare i nostri organi sensoriali dandoci le sensazioni qualitative e soggettive degli odori. Ma Cartesio fa un ulteriore passo avanti, dicendo che la matematica va impiegata per esaminare il mondo fisico, ma il metodo matematico deve invece essere usato dappertutto, perfino nei pensieri: Cartesio nota come la matematica abbia portato l’ uomo a risultati apprezzabili più di qualsiasi altra scienza: se la matematica funziona così bene, perchò non estendere l’ intero metodo matematico alla realtà ? E dire metodo matematico non significa dire che si debba usare la matematica ( i numeri ) per spiegare ogni cosa ( sarebbe infatti assurdo provare a dimostrare l’ esistenza di Dio in termini matematici ), bensì dobbiamo applicare il metodo matematico, come prescrivono la seconda e la terza regola del metodo cartesiano: ogni problema va scomposto in tante parti più semplici e poi ricomposto per poter così arrivare alla verità . Ogni nostro pensiero, secondo Cartesio, per essere condotto in modo preciso deve essere impostato e risolto con il metodo matematico; ecco allora che nel 1600 verrà usato il metodo matematico perfino in politica e in metafisica. Ma quali sono gli strumenti di cui l’ uomo dispone per avvalersi di questo metodo matematico e, più in generale, della sua ragione? Cartesio ravvisa essenzialmente tre strumenti: 1 ) intuizione; 2 ) dimostrazione; 3 ) sensazione; l’ intuizione e la dimostrazione sono due metodi di inferenza ( ossia di passaggio da un’ idea all’ altra; idea per Cartesio è qualsiasi oggetto della mente ): le inferenze sono immediate ( 2 + 2 = 4 ) o mediate ( una sfilza di numeri complessi = 3 ); dire che 2 + 2 = 4 è un’ inferenza ( il segno = mi fa passare immediatamente dall’ idea 2 + 2 a quella 4 ): non appena accosto le due idee ( 2 + 2 e 4 ), vedo immediatamente che sono la stessa cosa, senza doverci ragionare sopra: non occorre un vero e proprio ragionamento, ma un colpo d’ occhio mentale. Nelle inferenze mediate ( un’ espressione lunghissima uguale a un numero, per esempio ) c’ è l’ identità tra le due idee, ma non è immediatamente coglibile, occorre un ragionamento e non basta più il colpo d’ occhio mentale; è solo col ragionamento ( e non con l’ intuito immediato ) che arrivo a scoprire che effettivamente c’ è identità tra le due idee: vi arrivo dopo una lunga serie di passaggi, ossia dopo una dimostrazione. Ma ogni dimostrazione, fa notare Cartesio, deriva da un’ intuizione. In altre parole, il problema che si pone Cartesio è di arrivare a conoscenze evidenti, assolutamente inconfutabili: l’ intuizione a noi dà l’ idea di qualcosa di arazionale, che si può capire anche senza essere dimostrato, una sorta di sesto senso. Ma nel vocabolario filosofico non è questo il significato della parola intuizione: essa deriva da un verbo latino che propriamente significa vedere: intuire quindi è vedere un verità con gli occhi della mente: pensiamo a Platone e al mondo intellegibile delle idee. Abbiamo un’ intuizione quando ci troviamo di fronte a verità immediatamente coglibili ( 2 + 2 = 4 ): vengono accostate due idee divise dall’ uguale e si coglie subito che sono la stessa cosa, senza ragionare. Però quando abbiamo espressioni complesse non possiamo cogliere immediatamente la verità dell’ idea di destra e di quella di sinistra: occorre una dimostrazione, ma una dimostrazione non è altro che una catena di intuizioni; ecco allora che lo scopo del metodo è di ottenere la risoluzione delle dimostrazioni in intuizioni, il che equivale a seguire la seconda regola del metodo, quella che dice di dividere i problemi complessi in problemini semplici: devo scomporre il problema finchò non ottengo microproblemi elementari ( potremmo definirli atomi ) intuitivi. Ed è esattamente quello che facciamo per risolvere espressioni algebriche complesse. Allora avrò solo più fasi intuitive che sommate danno la dimostrazione. E va detto che la validità delle singole intuizioni si trasmetterà alla complessiva dimostrazione, purchò si applichi la quarta regola del metodo, quella che prescrive di revisionare quanto fatto: ho diviso il problema in tanti problemini, li ho svolti intuitivamente, poi li ho riuniti per risolvere il problema iniziale: devo però stare attento a non commettere errori. Gli errori non possono nò mai potranno derivarci dall’ intuizione: che 2 + 2 = 4 lo sanno tutti e nessuno la penserebbe diversamente; come risolvere l’ espressione ( che non è altro che un insieme di operazioni quali 2 + 2 = 4 ) non tutti lo sanno. L’ errore pertanto non nascerà mai nel fare 2 + 2, ma potrà nascere quando ricostruisco il problema ridotto in tanti problemini svolti correttamente: potrò ad esempio sbagliare e scrivere – 4 anzichò + 4: ecco allora che l’ errore non è altro che uno svarione della nostra memoria, una dimenticanza. Di per sò, infatti, applicando le regole del metodo e scomponendo tutti i problemi in problemi più semplici, coglibili con l’ intuizione, e evitando gli errori di memoria ( comunemente detti di distrazione ) non si dovrebbe mai sbagliare e si dovrebbero riuscire a risolvere allo stesso modo i problemi più semplici e i più complessi. Ma entra anche in gioco la prima regola del metodo: non dobbiamo prendere nulla per buono, bensì dobbiamo accettare solo ciò che è evidente. Ma che cosa è evidente? Per noi è evidente ciò che ci è testimoniato dai sensi: il quaderno è blu e così via. Per Cartesio no, egli riprende in un certo senso la tradizione scettica e dice che i sensi possono ingannarci; per Cartesio l’ evidenza è propria del pensiero razionale e trova nella matematica il suo punto più elevato. Per capire che cosa Cartesio intendesse per fallacia dei sensi, serviamoci dell’ esempio del chiliogono, il poligono di mille lati: una figura geometrica semplice, quale il triangolo, possiamo sia pensarla ( ossia avere in mente la definizione e il concetto: un poligono di tre lati ) sia immaginarlo ( ossia vedere un triangolo disegnato nella nostra testa come lo vediamo su un foglio di carta ); però man mano che moltiplichiamo i lati del poligono si apre la forbice pensiero-immaginazione: quando arriverò al chiliogono saprò sempre pensarlo perfettamente ( è un poligono a mille lati: sono chiarissimi i concetti di mille, di poligono e di lati, chiari alla pari che nel triangolo ), ma non più immaginarlo, ossia costruirlo mentalmente. In altri termini, tutto quanto è presente nel concetto di chiliogono è chiarissimo per noi ( ci è chiaro allo stesso modo in cui è chiaro a Dio ) e ci è anche chiarissima la distinzione di questo poligono di mille lati rispetto a uno di 999 lati; ma l’ immagine, il disegno mentale che abbiamo di un chiliogono è differente da quella di un poligono a 999 lati? Certamente no; anzi, addirittura se li vedessimo raffigurati su un muro non coglieremmo distinzioni. Il chiliogono immaginato non è nò chiaro nò evidente, mentre quello pensato è sia chiaro sia evidente: ecco allora che i sensi ci ingannano ( non cogliamo la differenza ” fisica ” tra chiliogono e poligono a 999 lati ) e l’ evidenza è solo della ragione ( saprò sempre concettualmente che cosa è un chiliogono ). Una volta determinati questi precetti, Cartesio li applica alla matematica: la geometria è asservita all’ immaginazione, egli dice, fondata non sul calcolo e sull’ astrazione, ma sull’ empirico, tant’ è che a volte per dimostrare che il raggio è metà del diametro lo si dimostra piegando in due il foglio di carta sul quale è stata disegnata la circonferenza; per Cartesio in geometria si deve impiegare l’ algebra, ossia le quantità fisiche vanno unite a quelle astratte; ecco allora l’ importanza di Cartesio come matematico: gli dobbiamo infatti l’ invenzione del piano cartesiano, che non è altro che un’ applicazione delle sue idee, ossia di unire fisico ad astratto. Ma Cartesio vuole applicare la matematica, o meglio, il metodo matematico, che gli pare essere il più efficace, sull’ intera realtà . D’ altronde egli porta i ragionamenti di Galileo alle estreme conseguenze, arrivando a dire che il mondo fisico è fatto in termini meccanicistici, in termini di estensione e movimento: ecco che se il mondo è fatto di quantità , allora la matematica e il suo metodo andranno benissimo per esaminarlo ! E’ ovvio che se il mondo fisico va visto come un insieme di quantità ( le qualità sono solo modi di manifestarsi soggettivi delle quantità ) sarà pienamente risolvibile con formule matematiche. Tutto questo ha poi un’ importante conseguenza: se si può indagare il mondo fisico con la matematica, allora il mondo fisico è potenzialmente evidente proprio perchò la matematica non sbaglia mai ( che 2 + 2 = 4 è vero sempre e neanche Dio potrebbe cambiarlo ). Cartesio arriverà comunque ad ammettere l’ esistenza di un mondo spirituale, nel quale non rientrano le quantità : diventa chiaramente assurdo usare la matematica in un mondo spirituale e mettersi, per dire, a misurare e a pesare le anime; tuttavia, pur non potendosi usare la matematica, si può comunque usare il metodo matematico. Cartesio col metodo matematico arriverà a mettere il primo mattone inconfutabile per costruire l’ edificio del sapere: scomponendo i problemi, non prendendo nulla per certo, facendo revisioni egli arriverà alla certezza di esistere come entità pensante ( res cogitans ); da qui, sempre muovendosi su basi matematiche, egli arriva ad alcune intuizioni: Dio e il mondo fisico; nel dire che penso, dunque esisto, evidentemente non si possono usare numeri o formule matematiche, tuttavia il metodo matematico sì e Cartesio lo usa: prende per buono solo ciò che è evidente ( di esistere come soggetto pensante ). In altre parole, Galileo aveva detto che si possono indagare in termini rigorosi ( matematici ) solo le quantità ; Cartesio dice che esistono solo le quantità e che comunque il metodo matematico va usato proprio perchò è il migliore in ambiti anche non propriamente fisici ( la spiritualità o la metafisica, ad esempio ). Cartesio è convinto che ci si debba comportare in modo conforme a come è il mondo, ossia l’ etica deve derivare dalla conoscenza, in altre parole essa è l’ ultima delle scienze perchò il come comportarsi ci deve derivare da come è fatto il mondo. Tuttavia, finchò il nuovo edificio del sapere fondato sull’ evidenza non è ancora stato costruito, dove si deve andare ad abitare? Come bisogna comportarsi finchò non si sa con certezza come è fatto il mondo? Sì, perchò se sul piano teoretico l’ etica è l’ ultima delle scienze, sul piano concreto essa è la prima. Mentre non si sa come sia il mondo e quindi come ci si debba comportare seguendo la ragione, cosa si deve fare? Si era posto lo stesso problema lo scettico Pirrone, il quale, non sapendo che cosa fosse bene e che cosa male si faceva mordere dai cani e investire dai carri; Cartesio certamente non intraprende la strada di Pirrone, bensì dà delle regole per una morale provvisoria, dettata non dalla ragione, ma dal buon senso: finchò la ragione non mi dice come devo comportarmi, devo attenermi a queste regole, anche perchò sarebbe assurdo fare come Pirrone o addirittura non comportarsi proprio ( il che, tra l’ altro, è impossibile perchò se anche decido di non comportarmi e mi chiudo in casa, mi sto già comportando in qualche modo ); queste regole di morale provvisoria che Cartesio dà consistono essenzialmente nel non stravolgere la tradizione, attenersi agli usi, ai costumi e alla religione in vigore nel proprio paese, evitando gli estremismi e optando per l’ aurea via di mezzo; ecco che qua pare evidente l’ influsso di Aristotele, che predicava la mesothes ( la moderazione ); se devo scegliere tra bianco e nero, Cartesio consiglia di scegliere grigio perchò così, se anche il giusto sarà il nero, non avrò mai sbagliato del tutto. Ma in realtà c’ è una differenza tra Aristotele e Cartesio: per Aristotele la mesothes era il frutto di un accurato esame della ragione, per Cartesio la via di mezzo è solo un precetto del buon senso valido fin tanto che la ragione non mi insegnerà come è fatto il mondo e da lì potrò dedurre come comportarmi: non è la ragione a dirmi di evitare gli estremismi, ma il buon senso; magari poi, invece, la ragione potrà insegnare diversamente. Ecco che emerge la personalità mite e pacata di Cartesio, un uomo che voleva evitare di andare contro chicchesia e che prescriveva di seguire la tradizione per non creare disordini; in un certo senso, sempre restando nella metafora dell’ edificio del sapere fondato sull’ evidenza, le regole della morale provvisoria sono come case provvisorie ( containers ) in cui abitare finchò la ragione non mi dia il palazzo del sapere evidente. Se la prima regola della morale provvisoria prescrive di abbracciare posizioni moderate, la seconda prescrive invece di portare fino in fondo ciò che si è intrapreso senza demordere, una sorta di autocoerenza: non dobbiamo interrompere ciò che abbiamo iniziato per fare qualcos’ altro, ma dobbiamo essere coerenti con noi stessi e assumerci le nostre responsabilità . La metafora usata da Cartesio per esprimere il concetto è quella della foresta: immaginiamoci di esserci persi in una foresta e di non avere certezze su dove sia la via d’ uscita: l’unica cosa da fare è scegliere una strada seguendo gli indizi e l’ istinto e proseguire su quella strada finchò non si arriva all’ uscita della foresta; l’ errore consiste proprio nel cambiare strada di continuo senza mai portare a termine quella iniziata. Ecco che prima che il nuovo palazzo del sapere venga costruito, siamo come in un bosco in cui non abbiamo certezze e la cosa migliore da fare è scegliere una strada e non abbandonarla fino alla fine. La terza regola della morale provvisoria presenta molte analogie con le filosofie ellenistiche: prescrive di cercare di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; in sostanza, prescrive di evitare lo scontro con la realtà : ciò che da noi dipende è solo la nostra interiorità ; non c’ è nulla di cui siamo interamente padroni se non dei nostri pensieri, dice Cartesio: non potrò mai cambiare il mondo, ma potrò cambiare il mio atteggiamento nei confronti del mondo: potrò, ad esempio, cambiare i miei desideri scegliendo di mantenere solo quelli realizzabili. In altre parole occorre rendersi conto che il mondo va così e non lo si può cambiare, però possiamo cambiare il nostro rapporto con lui, adeguandoci e non scontrandoci con esso: gli Stoici usavano una metafora efficace a riguardo del mondo e dell’ uomo: l’ uomo è un cane legato al carro ( che è il mondo ): l’ uomo intelligente segue il carro e non oppone resistenza, l’ uomo sciocco oppone resistenza e tira in direzione opposta rispetto al carro, con il risultato che viene portato dal carro come tutti gli altri cani e soffre ancora di più. In altre parole la terza regola della morale provvisoria può essere sintetizzata nelle parole dello stoico Epitteto: Non devi adoperarti perchè gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena. La quarta parte del discorso sul metodo è dedicata alle questioni metafisiche: Cartesio parte dall’ io, passa per Dio e arriva al mondo esterno; in altre parole per Cartesio le cose più certe, in ordine dalla più certa alla meno certa, sono: l’ esistenza di lui stesso come res cogitans, l’ esistenza di Dio e quella del mondo fisico. Il punto di partenza su cui si fonda la metafisica cartesiana, di netta matrice matematica, è il dubbio: non a caso si può accostare l’ andamento del pensiero di Cartesio a quello di Agostino, anche lui attentissimo a non prendere nulla per buono; Agostino era riuscito ad uscire dal dubbio scettico in questo modo: è vero che posso dubitare di ogni cosa, ma devo per forza ammettere di esistere come soggetto dubitante; da questa unica verità Agostino entrava in contatto con la Verità divina e il gioco era fatto. Cartesio agisce in modo simile: il suo obiettivo è abbattere l’ edificio traballante del sapere per edificarne uno solido: tutto ciò di cui non abbiamo certezza assoluta dobbiamo scartarlo allo stesso modo di ciò di cui non abbiamo neanche una vaga conoscenza; anche cose che siamo abituati a prendere per buone ma di cui non abbiamo certezza vanno eliminate alla pari di quelle di cui non sappiamo nulla. Ecco che allora si mette tutto in dubbio, ma è un dubbio strano, quasi paradossale: finchò Cartesio, sulle orme degli Scettici, mette in dubbio le cose testimoniate dai sensi si può essere d’ accordo; Cartesio fa notare come i sensi ci ingannino al massimo, più che in ogni altra occasione, nel sonno quando ci pare di star facendo qualcosa anche se in realtà stiamo dormendo o quando ci troviamo in situazioni assurde e paradossali. Tuttavia Cartesio fa notare che anche nei sogni, nei momenti in cui i sensi ci ingannano di più, anche se ci troviamo in mondi inesistenti e in situazioni fantastiche le verità matematiche rimangono sempre quelle: potrò trovarmi in un’ isola inesistente su un pianeta inesistente, ma che 2 + 2 = 4 è vero anche nei sogni ! Questo dimostra come l’ evidenza dell’ intelletto sia maggiore di quella dei sensi ( vedi l’ esempio del chiliogono ); tuttavia Cartesio non si ferma qui, ed ecco che arriviamo all’ assurdo; chi mi dice di non essere stato creato da un genio malvagio che mi ha costruito tale da ingannarmi anche su cose che credo certe? Ossia, chi non mi dice che questo genio malvagio non mi abbia creato convinto che 2 + 2 = 4, ma in realtà 2 + 2 = 5? Chiaramente è un’ ipotesi molto tirata, oseremmo dire ridicola, alla quale ovviamente Cartesio non credeva, ma che comunque, sul piano filosofico – concettuale, non può essere esclusa ! Certo, sul piano della certezza empirica siamo tutti convinti che non sia così, ma sul piano concettuale l’ ipotesi del genio cattivo non può essere esclusa a priori. Mettere in dubbio perfino le certezze matematiche significa che, una volta trovato qualcosa di indubitabile, l’ edificio del sapere poggerà su fondamenta davvero stabili; in altre parole, Cartesio vuole evitare che nel suo edificio del sapere rimangano ” tarli ” che possano in un secondo tempo far vacillare l’ edificio e dubita davvero di tutto. Sul fatto che i sensi possano ingannarci Cartesio poteva anche dubitare davvero, ma sul fatto che 2 + 2 = 4 è totalmente da escludere che egli dubitasse: il primo è un dubbio psicologico, il secondo metodico; in altre parole, sul fatto che i sensi ingannino egli dubita, sul fatto che la matematica inganni egli vuole dubitare. Tuttavia, quando arriverà al nuovo edificio del sapere Cartesio riprenderà le cose su cui aveva dubitato e alcune saranno dimostrate valide altre erronee; in altri termini col suo metodo Cartesio tutto ciò che non è chiaro lo mette in zone nere; quando arriva ad una certezza bianca, riprende il tutto e certe cose le fa diventare bianche, altre le lascia nere. E Cartesio arriva ad una certezza davvero inconfutabile: se dubito vuol dire che penso e se penso vuol dire che esisto: cogito, ergo sum. Tuttavia non mancarono le critiche mosse a questa verità apparentemente inconfutabile ed è bene ricordarne soprattutto 3: la prima critica mossa a Cartesio è di plagio. Lo si accusava in sostanza di non aver scoperto nulla di nuovo con il cogito ergo sum, bensì di aver solamente ripetuto ciò che già aveva detto parecchi anni prima Agostino. Cartesio non tardò a rispondere a questa critica dicendo che era vero che in fin dei conti diceva lo stesso di Agostino, ma che lui c’ era arrivato per conto suo, senza neppure leggere Agostino ! Anzi, gli faceva piacere che qualcun’ altro fosse arrivato alle sue stesse conclusioni perchò ciò significava che il suo era un ragionamento lineare cui tutti gli uomini potevano pervenire. Resta però da chiarire se Cartesio fosse sincero quando diceva di non aver plagiato Agostino, anzi, di non averlo neppure mai letto. Gli studiosi di oggi sono propensi essenzialmente per una via di mezzo: Cartesio era solito frequentare ambienti di frati agostiniani e quindi quelle teorie dovevano ronzargli nelle orecchie, doveva già averle sentite dire da qualcuno ed ecco che finì per assorbirle e farle sue inconsciamente, pur senza aver mai letto Agostino. D’ altronde il punto d’ arrivo di Cartesio e di Agostino è simile, come simile è il metodo, ma diverso è l’ obiettivo: Agostino intende fondare una teologia salda, Cartesio vuole fondare una metafisica meccanicistica. La seconda critica mossa a Cartesio era di aver derivato il cogito ergo sum da un sillogismo, ma di averlo espresso, paradossalmente, in forma non sillogistica. Ecco che, gli si faceva notare, se il sillogismo è espresso per intero regge, ma se vengono occultati dei passaggi ( come si accusava Cartesio di aver fatto ) non regge più ! In realtà il sillogismo completo doveva essere: tutto ciò che pensa esiste; io penso; dunque esisto. In altre parole, Cartesio prende per certo senza dimostrare che il fatto di pensare implichi una esistenza; Cartesio ha tolto dal cogito ergo sum la premessa maggiore ( tutto ciò che pensa esiste ) e così il cogito ergo sum, la prima pietra dell’ evidenza per costruire il nuovo edificio del sapere, si rivelerebbe instabile. Ma Cartesio fa notare che il rapporto tra pensare ed esistere è immediatamente intuibile, non deve essere mediato da ragionamenti ( sillogismi ); è immediato e subitamente coglibile al pari della verità che 2 + 2 = 4. Nessuno oserebbe pensare che 2 + 2 non è uguale a 4 così come nessuno oserebbe pensare che ciò che pensa non esiste. La terza critica mossa a Cartesio è che in realtà lui presenta il cogito ergo sum come punto di partenza per la conoscenza certa, ma in realtà a fondamento della conoscenza vanno posti i principi logici ( identità : A = A; contraddizione A non è = non A; del terzo escluso A o è A o non è A ). Cartesio risponde che tutto dipende dai punti di vista; i principi logici su cui dovrebbe fondarsi la conoscenza stando agli avversari di Cartesio in un certo senso fondano la conoscenza perchò mi dicono che cosa una cosa è e che cosa non è, ma non mi garantiscono l’ esistenza della cosa ! In altre parole, i principi della logica vanno benissimo per ragionare e indagare, ma per essere certo degli oggetti su cui indagare occorre il cogito ergo sum. Sarebbe infatti assurdo indagare con i principi logici qualcosa di cui non si è nemmeno certi se esista o meno ! Prima bisogna appurarsi se esista ( con il cogito ergo sum ) e poi bisogna indagare ( con la logica ). Dopo il cogito ergo sum, Cartesio fa un passaggio di enorme importanza per la metafisica, ma di dubbia stabilità : è uno dei passi più contestati e meno solidi di Cartesio. Una volta detto che esisto con il cogito, resta da chiarire che cosa sono; dopo il quod est del cogito ergo sum bisogna passare al quid est; il fatto di pensare ha portato Cartesio all’ evidente certezza di esistere come cosa pensante ( res cogitans ): da qui Cartesio deduce di esistere come pensiero, ossia come anima. Però Cartesio non ha del tutto ragione: perchò dire che esisto per il fatto di pensare non significa che io esista solo come entità pensante. Sicuramente come entità pensante esisterò, ma magari non solo come entità pensante: magari avrò un corpo, un’ esistenza materiale e non solo spirituale come anima. L’ errore di Cartesio in altri termini sta nel passare da una cosa che pensa a una cosa pensante, che come unica caratteristica ha il pensare. Dell’ esistenza del mio corpo non ho certezza ( il cogito ergo sum mi dimostra l’esistenza intellettuale ), ma non ho neanche certezza dell’ inesistenza del corpo per dire che sono un pensiero senza corpo ! Perchò mai devo essere un pensiero invece che un essere materiale che pensa? Questa è l’ aporia cartesiana, il non prendere nulla per certo, neanche l’ esistenza del proprio corpo, per poi finire col prendere per certa l’ inesistenza del proprio corpo ! Sempre nel 1600 Locke da buon cristiano riprenderà le tesi di Cartesio ma non accetterà l’ esistenza come pensiero, bensì dirà di avere il pensiero, ma di non essere pensiero; egli dice di avere la convinzione di possedere un corpo perchò così dice il cristianesimo. Cartesio non sa ancora dell’ esistenza di un mondo fisico ( non l’ ha ancora dimostrato ), ma distingue tra res cogitans ( la cosa pensante ) e res extensa ( la sostanza estesa ); so di esistere come sostanza pensante ( non so nulla del mio corpo ), ma ho concepito separatamente la sostanza pensante. Non so ancora se esista una sostanza estesa, ma se arriverò a dimostrare che essa esiste, avendo potuto concepire la sostanza pensante perfettamente diversa e distinta da quella estesa, avrò un mondo fatto di due realtà nettamente distinte dove la caratteristica della res cogitans sarà il pensiero, quella della res extensa l’ estensione. In altre parole, Cartesio sa di esistere come res cogitans ( come pensiero ), non è certo che la res extensa esista, ma se esiste sarà totalmente purificata dalla spiritualità così come la res cogitans è totalmente altra cosa dalla res extensa. Tutto questo discorso metafisico e spirituale porta Cartesio ad una metafisica meccanicistica, che vuole la materia totalmente diversa dallo spirito. In altri termini, Cartesio con la questione della res cogitans dà una fondazione a priori del meccanicismo, elimina cioò dal mondo fisico tutto ciò che non risulta riconducibile ad aspetti quantitativi: nel mondo quantitativo tutto è ridotto ad estensione ( la parte occupata dalla materia ) e movimento ( gli spostamenti nello spazio dell’ estensione ). La fondazione meccanicistica di Cartesio, dicevamo, è a priori perchò afferma il carattere meccanicistico proprio perchò opposto alla realtà spirituale. La res cogitans è nettamente diversa dalla res extensa e di conseguenza il mondo materiale ( che è caratterizzato dalla materia, la res extensa ) sarà privo di spiritualità . La grande novità introdotta da Cartesio e che va ben al di là della tradizione aristotelica, è che Aristotele non aveva spaccato in due il mondo come invece fa Cartesio; per lo Stagirita tutto ( tranne Dio, l’ anima e le intelligenze celesti ) è fatto di sinoli ( unione di materia e forma ); dire che l’ intero mondo è fatto di sinoli non significa affatto dire che vi sono due sostanze, una materiale e una immateriale accoppiate: anzi, la separazione di materia e forma in un sinolo è solamente concettuale e anche un ente semplicissimo, quale una pietra, è sinolo di materia e forma. In altre parole sinolo è una sostanza che allo stesso tempo è materia e forma. Non a caso un essere animato è tale nella misura in cui è sinolo di materia e forma. Per Platone invece sì che vi sono due sostanze diverse che si accoppiano momentaneamente e questo lo porta inevitabilmente all’ immortalità dell’ anima, che invece in Aristotele può difficilmente essere giustificata: l’ anima per Platone è qualcosa di radicalmente diverso dal corpo e mentre per Aristotele una volta che il corpo muore anche l’ anima non può che perire perchò si rompe il sinolo corpo, per Platone invece l’ anima, una volta morto il corpo, vive meglio da sola. Sotto questo aspetto Cartesio è decisamente platonizzante: per lui in primo luogo il mondo è costituito da realtà animate e realtà inanimate o, per essere più netti, di realtà di pura materia e di realtà di puro spirito; ecco quindi che Cartesio si distacca decisamente dalle posizioni monistiche rinascimentali di Giordano Bruno, che vedeva ogni ente come sostanza fatta di materia e forma ( che finivano per identificarsi ). Il mondo di Cartesio è fortemente dualistico: da un lato troviamo la res extensa ( la materia ), pura, senza forma, senza spirito, movimentata ed estesa e dall’ altro lato troviamo la res cogitans, che è l’ esatto contrario della res extensa: è senza estensione ed è puramente spirituale. Cartesio, sulle orme di Platone, dice che nell’ uomo queste due realtà totalmente diverse sono momentaneamente accoppiate. Dire che sono totalmente diverse e accoppiate solo momentaneamente implica l’ immortalità dell’ anima, cosa che Cartesio, da buon cristiano, sosterrà strenuamente. Quella di Cartesio si potrebbe definire metafisica meccanicistica ma non materialistica, visto che accanto alla materia c’è anche la spiritualità . Ma la cosa strana è che il fondamento di questa metafisica è a priori: dubito, penso e quindi esisto come res cogitans; ma Cartesio fa un passo avanti: dal fatto che esisto e sono una cosa che pensa ( ho intuito di esistere proprio dal fatto di pensare ) Cartesio arriva a concludere di essere sostanza pensante, sostanza la cui caratteristica fondamentale è il pensiero: detto in altri termini, Cartesio non si limita a dire che abbiamo il pensiero, bensì dice che siamo soltanto pensiero. Secondo Cartesio dal fatto che possiamo cogliere in modo evidente ( chiaro e distinto ) la nostra esistenza intellettuale, deriva inevitabilmente che siamo sostanze la cui essenza è il pensiero. Abbiamo anche parlato di res extensa contrapposta a res cogitans, ma in realtà Cartesio non è ancora arrivato a dimostrare l’ esistenza della res extensa, del mondo materiale: ha solo dimostrato ( o meglio intuito immediatamente ) che intellettualmente esistiamo ( cogito ergo sum ). Ma quando Cartesio dice che esistiamo come pensiero che cosa intende con la parola ” pensiero “? Egli non intende soltanto l’ attività intellettuale ( matematica, geometria, ecc. ) ma anche quella mentale ( percepire i colori, ad esempio ). Questo permette di capire come il suo ragionamento ( apparentemente assurdo ) in fondo sia sensato. Cartesio è certo dell’ esistenza dell’ io ma anche delle idee che percepisco ( dove idea sta per ogni qualsivoglia contenuto della mente: tanto pensare un triangolo quanto percepire il colore blu ) proprio perchò vengono percepite dal mio intelletto il quale, a differenza dei sensi, si fa ingannare ben più difficilmente; ma il problema che si pone Cartesio è se dietro alle idee che cogliamo esistano anche le cose reali: se vedo un libro blu e percepisco il colore blu nella mia mente sono certo che il blu esista, ma non sono affatto certo che esista il libro ! Dicendo di essere res cogitans Cartesio arriva a dire che tutto ciò che percepisco esiste ma esiste solo come contenuto del mio pensiero, non è detto che esista anche nella realtà . L’ esistenza delle idee delle cose materiali è certa; quel che non è certa è l’ esistenza delle cose materiali di cui percepiamo le idee. Quindi Cartesio non sa ancora se il mondo materiale esista ( le idee delle cose materiali però esistono ); in qualità di res cogitans egli è convinto della propria esistenza ( come soggetto pensante ); non sa se il mondo esiste ma se esiste, comunque, esisterà per forza come res extensa perchò essa è l’ opposto della res cogitans; Cartesio ha già dimostrato che il pensiero, lo spirito è totalmente depurato dalla materia e quindi a sua volta la materia sarà totalmente depurata dallo spirito: distinguendo una cosa resta distinta anche l’ altra. Cartesio ha dimostrato l’ esistenza del pensiero nella sua purezza, non sa se la materia esista, ma se esiste egli è convinto che vada concepita come estensione e movimento, assolutamente libera e indipendente dal pensiero. In realtà Cartesio sembra aver intrapreso un grossolano circolo vizioso: decide di fondare la sua argomentazione sull’ evidenza, vede che funziona e decide di prendere sempre come criterio di verità solo l’ evidenza ( chiarezza + distinzione ): sceglie di usarla, dice che la sua dimostrazione è andata bene con l’ evidenza e da ora in avanti userà quella; ma in realtà è andata bene perchò l’ ha scelta di proposito lui ! Naturalmente non mancarono le obiezioni e lui fece notare comunque che in realtà non c’ è bisogno di concepire astrattamente il concetto di evidenza per cogliere la verità del fatto di esistere: è immediata e intuitiva: penso e per forza devo esistere; sono certo di pensare e quindi di esistere anche senza far appello all’ evidenza. Però ciò che ha portato Cartesio a prendere per buona la verità ” penso dunque esisto ” è stata proprio l’ evidenza di questa verità , chiara e distinta; e allora Cartesio da lì in poi ha scelto di affidarsi all’ evidenza: prenderà per buone solo le cose chiare ed evidenti. Il percorso della metafisica cartesiana è antitetico rispetto a quello dell’ empirismo tradizionale: si parte dall’ io, si arriva a Dio e poi si torna al mondo sensibile. Ne consegue che Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non potrà far perno sul mondo sensibile ( come invece faceva, ad esempio, Tommaso con le sue 5 prove ) visto che non ne ha ancora dimostrata l’ esistenza, bensì dovrà dimostrare l’ esistenza di Dio in base all’ io. Tuttavia Cartesio può anche permettersi di usare le idee delle cose sensibili: non sa se il mondo esista, però le idee del mondo presenti nella sua testa devono per forza esistere come contenuto del suo pensiero; nel 1900 il filosofo Edmund Husserl userà i concetti di noesis e noema: noesis è l’ azione del pensiero noema è l’ oggetto del pensiero; penso a un triangolo: l’ atto di pensare è noesis, il triangolo pensato è noema. Ebbene Cartesio si può avvalere per dimostrare l’ esistenza di Dio sia della noesis sia dei noemata, entrambi presenti nel pensiero di me che esisto appunto come pensiero ( res cogitans ). La dimostrazione Cartesiana è così riassumibile: se dubito non sono perfetto perchò ciò che è perfetto non può dubitare; ma non posso concepire il concetto di imperfezione se non in base a quello di perfezione; se sono imperfetto e posseggo l’ idea della perfezione, essa deve derivare da qualcosa che sta al di fuori di me che sono imperfetto: Dio. E’ il dubbio del cogito ergo sum che mi mette di fronte alla coscienza della mia imperfezione: se dubito è ovvio che non sono perfetto: ma per concepire l’ imperfezione bisogna conoscere anche la perfezione: come farei infatti a definire imperfetta una cosa senza sapere che cosa invece è perfetto? In altre parole l’ effetto non può essere più grande della causa: io che sono imperfetto non posso causare a me stesso come effetto il concetto di perfezione: ci deve essere un ente che non sono io e che è perfetto che mi dia l’ idea di perfezione. Questa dimostrazione sembra molto astratta, ma in realtà c’ è un nucleo esistenziale: l’ uomo non soffre solo nel momento in cui muore ( come fanno gli animali ), ma per tutta la sua vita perchò non fa che pensare alla morte; l’ uomo è in altri termini costretto e capace a soffrire molto di più rispetto agli altri animali: non ha solo la paura, ma anche l’ angoscia. In realtà queste considerazioni le farà poi Pascal, ma tuttavia in Cartesio sono sullo sfondo: riflettiamo sulla nostra finitezza e sulla nostra imperfezione e questo ci fa soffrire; questa nostra finitezza che sentiamo è una sorta di prova dell’ esistenza di Dio, anzi, più che una prova un argomento, fondato sul fatto stesso di sentire la nostra imperfezione; sentire la propria imperfezione vuol dire avere l’ idea di perfezione ( Dio ) ed è segno del destino ultraterreno dell’ uomo: l’ uomo non è realizzato nel corpo, che è imperfetto e finito, ma nell’ anima, che è infinita e immortale. Qualcosa di simile era già presente a suo tempo in Platone: l’ uomo non è sapiente nò ignorante, ma si trova in uno stato di medietà che lo colloca a metà strada tra animali e dòi. In realtà ci fu qualcuno che fece notare che l’ argomentazione usata da Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non funzionava: noi finiti abbiamo l’ idea di infinito quindi l’ infinito ( Dio ) deve averci dato quest’ idea. Ma tra infinito e idea di infinito c’ è una bella differenza, così come c’ è una bella differenza tra qualsiasi cosa e l’ idea stessa di quella cosa: un libro ha un tasso di essere ben superiore rispetto all’ idea di libro. Si obiettò a Cartesio che in realtà lui confondeva l’ idea di infinito con un’ idea infinita: l’ infinito per definizione è infinito, ma l’ idea di infinito no, proprio perchò è un’ idea, un segno finito. E’ un grave errore parlare dell’ idea di infinito come dell’ infinito stesso. Cartesio fece notare che effettivamente tra idee e cose c’ è una bella differenza ontologica: le idee hanno una x in meno di essere rispetto alle cose di cui sono idee proprio perchò le cose hanno essenza ed esistenza reale, le idee hanno essenza ma non esistenza reale. Ma nel caso dell’ infinito tutto cambia proprio perchò siamo nell’ infinito: Cartesio intendeva dire che è vero che il cavallo ontologicamente pesa di più dell’ idea di cavallo, ma è altrettanto vero che l’ idea di infinito ( pur essendo un’ idea ) ontologicamente pesa di più del cavallo ( e di qualsiasi altra cosa finita ). Ma in realtà bisogna ammettere che Cartesio non aveva ragione perchò una cosa è l’ infinito, un’ altra l’ idea di infinito: l’ infinito è effettivamente infinito, l’ idea di infinito è finita proprio perchò è un segno, un’ idea. Ma Cartesio non si limita a fornire una sola prova dell’ esistenza di Dio, bensì ne fornisce tre. La seconda prova presenta analogie con la prima poichò si fonda anch’ essa sull’ idea di perfezione che abbiamo noi che siamo imperfetti. Cartesio si domanda quale è la causa, ossia che cosa crea noi che non siamo perfetti. Le possibilità sono due: o ci creiamo da soli, siamo cioò causa di noi stessi, oppure siamo creati da qualcosa a noi esterno. Ma ciò che porta Cartesio a dire che non possiamo esserci creati da noi, bensì dobbiamo essere stati creati da qualcosa di esterno è che se fossimo noi stessi la causa di noi stessi, ci saremmo creati perfetti, ma perfetti non siamo perchò dubitiamo, quindi ci deve aver creato qualcosa a noi esterno: Dio. E’ evidente che nessuno, potendosi creare e avendo l’ idea di perfezione insita nella sua testa, sarebbe così stupido da crearsi imperfetto, da non incarnare l’ idea di perfezione nel suo corpo ed è quindi ovvio che non siamo noi stessi a crearci. La differenza tra le due prove dell’ esistenza di Dio finora citate è che la prima spiega la causa dell’ idea di perfezione, la seconda la causa della nostra esistenza: in entrambi i casi l’ artefice è Dio. In tutti e due i casi comunque si parte da effetti per risalire a cause ( l’ idea di perfezione chi l’ ha causata in noi? la nostra esistenza chi l’ ha causata? ); sono tutte e due prove a posteriori, che partono dall’ esistenza di qualcosa per risalire all’ esistenza di qualcos’ altro; nessuna delle due parte dall’ esistenza del mondo ( anche perchò Cartesio non sa ancora se esso esista ), bensì partono dall’ io, che è di evidente esistenza ( cogito, ergo sum ). Tuttavia si può accennare al fatto che non mancarono anche in questo caso le obiezioni mosse a Cartesio: gli si faceva notare che lui diceva che non ci siamo creati altrimenti ci saremmo attribuiti perfezione assoluta ( ma non l’ abbiamo: il fatto di dubitare implica imperfezione ); ma gli avversari dicevano: ” e perchò non potrebbe essere che abbiamo tanta potenza da crearci, ma non abbastanza da darci la perfezione? “: in altre parole si sosteneva che noi potremmo avere la potenza di crearci ma non di darci la perfezione. Ma Cartesio ribatteva ( e a ragion veduta ) che se uno avesse così tanta potenza da crearsi, ossia di passare dal nulla all’ esistenza, allora avrebbe anche la potenza per darsi la perfezione: ci vuole ben più potenza per crearsi che non per darsi la perfezione ! Il passaggio dal nulla all’ essere è di gran lunga più difficile e richiede molta più potenza rispetto a quello dall’ imperfezione alla perfezione: se son così potente da darmi esistenza, non mi mancherà di sicuro la potenza per darmi la perfezione. L’ unico essere che si dà esistenza e perfezione è proprio Dio, spiega Cartesio. La terza prova dell’ esistenza di Dio fornita da Cartesio è una rivisitazione della prova ontologica di Anselmo da Aosta: l’ idea di perfezione deve per forza avere esistenza; l’ essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza, diceva Anselmo. Cartesio però riproponeva la prova anselmiana in termini matematizzati: l’ esistenza di Dio deriva dalla sua essenza come le proprietà del triangolo derivano dalla definizione di triangolo. Si può notare come tutte e tre le prove cartesiane dell’ esistenza di Dio par
- 1600
- Filosofia - 1600