Goffredo (Gottfried) Leibniz lavora negli ultimi anni del 1600 e nei primi del 1700; figlio di un professore universitario, egli nasce a Lipsia, in Germania, nel 1646. Il suo pensiero è per molti versi anomalo rispetto alle idee prevalenti all’epoca, un’epoca in cui dominava il rigido meccanicismo cartesiano. Leibniz è uno di quei pensatori che può essere definito “genio universale” nel vero senso della parola: è stato grande matematico, fisico, scienziato e filosofo. Scopritore del calcolo infinitesimale, creatore di una più complessa calcolatrice rispetto a quella inventata da Pascal, escogitatore di apparati per facilitare il lavoro dei minatori, Leibniz ebbe una cultura che spaziò nei campi più vasti. E non mancano gli aneddoti sulla sua vita: si racconta che per effettuare le osservazioni scientifiche sugli insetti, egli fosse solito raccoglierli, introdurli nel suo laboratorio e, una volta terminata l’osservazione al microscopio, riportarli laddove li aveva prelevati. Questo tra l’altro testimonia un diverso atteggiamento nei confronti del mondo animale rispetto a pensatori come Cartesio, convinto che gli animali altro non fossero che macchine. Anche Leibniz, come moltissimi altri pensatori del Seicento, tenta di trovare una soluzione al problema lasciato in eredità da Cartesio sul rapporto tra res cogitans ( spiritualità ) e res extensa (materialità ): Leibniz risolverà la questione in modo diametralmente opposto a Hobbes, sostenendo che esista solo la res cogitans: l’unica realtà esistente, per il pensatore tedesco, finisce per essere la realtà spirituale e quella che comunemente chiamiamo “materia” non è altro che un modo di manifestarsi secondario della res cogitans. Tra gli interessi di Leibniz vanno sicuramente annoverati anche il diritto e la diplomazia; quando il duca di Hannover divenne re di Inghilterra tradì il suo ex servitore Leibniz per premiare un inglese, Newton; infatti in quegli stessi anni sia Leibniz sia Newton avevano scoperto il calcolo infinitesimale; si doveva però decidere a chi attribuire la paternità e il nuovo re di Inghilterra, al fine di ingraziarsi gli Inglesi, scelse Newton, sebbene Leibniz avesse effettuato la scoperta un pò prima del pensatore inglese. Goffredo soffrì molto per l’ingiustizia patita, ma ciononostante rimase uno spirito essenzialmente ottimista, capace di vedere del bene in ogni cosa e sostenitore della teoria secondo la quale il nostro mondo sarebbe il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare. D’altronde egli era anche uno studioso di Dio, un teologo luterano, e tra i suoi interessi e progetti religiosi vi era quello di realizzare una vera e propria concordia religiosa a livello europeo: il principio sul quale voleva istituire questa concordia pacifica era quello dell’unità del molteplice, di ascendenza platonica; questo progetto utopico dà poi l’idea della concezione leibniziana del mondo: esso, oltre ad essere il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare, è sì estremamente variegato e molteplice, ma tuttavia allo stesso tempo è anche in qualche misura unitario. Si ricorda sempre l’asserzione leibniziana: se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta, si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto: dietro l’apparente disordine e caos del mondo per Leibniz si nasconde sempre e comunque un grande ordine. Se il pensatore tedesco non scrive grandi trattati che fungano da compendi del suo pensiero filosofico lo fa esclusivamente per mancanza di tempo: era sempre indaffarato in esperimenti scientifici o calcoli matematici. Egli preferisce scrivere operette snelle, quali la Monadologia, optando sempre per la lingua francese, tipica dei personaggi colti. L’unico vero trattato corposo sono i Nuovi saggi sull’intelletto umano, contrapposti al Saggio sull’intelletto umano dell’inglese Locke: con quest’opera enciclopedica Leibniz muove una serrata critica contro l’empirismo lockiano, abbracciando posizioni innatistiche di forte sapore platonico. Ed è proprio in questo caso che emerge la grande correttezza dell’uomo Leibniz: poco tempo prima che potesse pubblicare i suoi saggi, moriva il suo avversario filosofico Locke e Leibniz si rifiutava di dare pubblicazione alla sua opera, proprio perchò l’ormai defunto Locke non avrebbe potuto difendersi. Questo episodio dimostra la grande correttezza di Leibniz, esempio di genialità intellettuale ma allo stesso tempo modello di humanitas e di rispetto. In ambito strettamente filosofico, i problemi cui Leibniz prova a dare una soluzione sono essenzialmente due: 1 ) in primo luogo egli intende dare una risoluzione definitiva alla questione delle due res, facendo scomparire la res extensa e dominare la res cogitans; 2 ) in secondo luogo egli si occupa di gnoseologia, facendosi latore di tesi a favore dell’innatismo; un innatismo che risente della tradizione platonica, ma che comunque presenta aspetti di modernità , che saranno poi spunti per Freud e per la psicologia moderna. Accennavamo al fatto che in fondo Leibniz è un pensatore anomalo se inserito nel contesto culturale del Seicento: in quegli anni, caratterizzati dall’imperare della fisica matematizzata e del cartesianesimo egli riduce tutto, materia compresa, a spiritualità ; le sue stesse origini tedesche contribuiscono a renderlo un pensatore difficilmente inseribile nel 1600: la Germania dell’epoca era una realtà periferica e i suoi grandi pensatori risultavano sì interessati alle grandi tematiche del secolo, però allo stesso tempo nutrivano simpatia nei confronti della tradizione filosofica scolastica; Leibniz stesso confessa di preferire Aristotele a Cartesio per quel che riguarda la fisica. Ma ciò che può sembrare un forte limite alle sue vedute culturali, in realtà si trasforma in un elemento a suo vantaggio: Leibniz vivendo in una realtà ancora legata alla tradizione scolastica quale è la Germania del 1600, può vedere con nitidezza i limiti del cartesianesimo e del meccanicismo, riuscendo a cogliere con facilità i suoi elementi più bislacchi e stridenti con la realtà . Il nucleo ispiratore della filosofia leibniziana consiste nel non negare la validità del meccanicismo all’epoca imperante, bensì nel considerare la medesima come limitata ad una parte superficiale della realtà , al di sotto della quale vi è a sua volta un’altra realtà più profonda che va avanti con leggi che esulano dal meccanicismo. Per comprendere il ragionamento leibniziano è bene tenere a mente quello cartesiano, da cui Leibniz muove: penso dunque sono; dal fatto di intuire la mia esistenza dal fatto di pensare Cartesio concludeva in modo indebito di esistere come res cogitans, come cosa interamente spirituale, che non ha nulla a che vedere con la materia (res extensa); materia (res extensa) e spiritualità (res cogitans) sono due sostanze nettamente distinte, che vanno avanti ciascuna secondo le sue leggi. Nel mondo fisico della res extensa vige il meccanicismo più radicale, nel mondo spirituale predomina invece il libero arbitrio. Tuttavia il problema scaturiva dal dover ammettere un contatto tra i due mondi, spirituale e materiale, contatto che è inevitabile nel corpo umano: la res cogitans, con il suo libero arbitrio, decide di alzare il braccio e la res extensa braccio, seguendo le rigide leggi del meccanicismo, si alza. Ma come si può ammettere un contatto tra i due mondi? La prima grande aporia è che se il contatto può solo avvenire per urti materiali, come su un tavolo da biliardo, è evidente che tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa) non ci potrà mai essere contatto proprio perchò è assurdo ipotizzare degli urti materiali tra un corpo e un’anima; ma l’altro problema, altrettanto difficile da risolvere, è insito nell’eterogeneità tra le due sostanze: nella res cogitans vige il libero arbitrio, nella res extensa il meccanicismo: messe a contatto si inquinerebbero l’un l’altra; eppure vanno messe a contatto altrimenti non si potrebbe spiegare l’alzarsi del braccio in seguito alla decisione presa. In fondo chi ammette il meccanicismo si vede costretto a negare la libertà e il finalismo, riconducendo tutto a cause efficienti e necessarie: ed è proprio quel che fa Spinoza. Cartesio, invece, in maniera alquanto ingenua vuole mantenere sia il meccanicismo sia la libertà umana; tuttavia le difficoltà che derivano da questa riflessione ingenua sono insormontabili: se la res cogitans può influenzare la res extensa salta il meccanicismo perchò è come dire che l’anima decide così e il corpo si muove di conseguenza, in modo meccanico: è ridicolo proprio perchò vi è un accostamento impossibile tra finalismo e meccanicismo; come può un atto libero del pensiero inserirsi nel più radicale meccanicismo fisico? La soluzione proposta da Leibniz a riguardo consiste essenzialmente nel dare ragione a Cartesio per quel che riguarda la validità di entrambe le concezioni (finalistica e meccanicistica) e nell’approdare ad una concezione dinamicistica della realtà , caratterizzata dalla convivenza di meccanicismo e libertà di perseguire i propri fini. Tuttavia il pensatore tedesco pone le due concezioni su diversi livelli, sostenendo che tutto dipenda dal livello di analisi della realtà : ciò che ad un certo livello di realtà risulta materiale e meccanicistico, se visto con maggiore attenzione e più in profondità (una profondità metafisica) risulterà spirituale e governato da leggi assolutamente aliene al meccanicismo. Ecco allora che il meccanicismo non è altro che una manifestazione secondaria di cose che, nella loro essenza più profonda, non funzionano meccanicamente. Lo stesso Immanuel Kant si muoverà in un’ottica piuttosto simile a quella di Leibniz arrivando a dire che per il fenomenico vale il meccanicismo, ma che per la cosa in sò, invece, valgono la libertà e il finalismo. In ambo i pensatori vi è l’idea che le cose a prima vista vadano in modo meccanico, ma che se osservate con maggiore attenzione e più in profondità siano rette dalla libertà e dal finalismo. Ma se per Cartesio erano leggi che investivano diversi ambiti della realtà , per Leibniz sono invece diverse leggi (viste in chiave più o meno complessa) che valgono negli stessi ambiti della realtà , proprio perchò egli non accetta l’esistenza della res extensa e riduce tutto a res cogitans, a spiritualità . Il concetto fondamentale dal quale si espande a raggiera l’intera filosofia di Leibniz ò quello di monade, sebbene egli fino agli ultimi anni del 1600 abbia preferito impiegare quello di sostanza individuale. La monade o sostanza individuale che dir si voglia esprime unità , ma non si tratta di un’unità in senso matematico quanto piuttosto in senso metafisico. Leibniz mutua questo termine dal filosofo italiano Giordano Bruno, il quale, sulla scia degli antichi Pitagorici, si era ingegnato a trovare dappertutto valori simbolici, individuando per ogni ambito della realtà un elemento primario che fungesse da unità : nei numeri, per esempio, l’elemento unitario era costituito dall’ 1, nel sistema solare dal Sole. In realtà in Leibniz il concetto di monade ha un’origine plurima, come se riflessioni di diverso tipo avessero portato il pensatore tedesco ad un’unica meta. Egli approda per la prima volta al concetto di monade ragionando in termini fisici: egli accetta la possibilità di conoscere a livello fisico l’intera realtà in termini meccanicistici, come realtà estese che si spostano nello spazio; tuttavia è convinto che al di sotto di queste realtà che si muovono in termini meccanicistici vi sia qualcosa di più profondo, una forza che mette in moto ogni cosa: questa forza Leibniz la chiama monade. Tuttavia il pensatore tedesco perviene al concetto di monade anche attraverso un altro percorso, di tipo logico: egli distingue tra verità di fatto e verità di ragione; le verità di ragione sono quelle che possono essere anche chiamate “verità espresse da proposizioni identiche”, quando cioò il predicato è già implicito nel soggetto. Se dico che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi, in realtà è già insito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi. Le verità di ragione sono dunque deducibili dall’essenza stessa del soggetto e il predicato non mi dice nulla di nuovo, anzi, esprime cose identiche a quelle espresse dal soggetto, è cioò una tautologia. Con questo però Leibniz non intende asserire che nelle verità di ragione i predicati sono inutili; al contrario egli era solito constatare amaramente che disprezziamo le cose ovvie, dalle quali tuttavia emergono cose che ovvie non sono: spernimus ovvia ex quibus tamen non ovvia secuntur. E in effetti enunciare verità implicite nel soggetto non può essere assurdo, altrimenti sarebbe assurda l’intera matematica, che altro non ò se non un grande lavoro di esplicitazione. Per dirla con Aristotele, pensatore particolarmente caro a Leibniz, tutto ciò che nel soggetto è già presente potenzialmente deve essere portato in atto con i predicati. Le verità di fatto, invece, sono quelle del tipo: “Cesare attraversò il Rubicone”. A differenza delle verità di ragione, qui il predicato non dice ciò che è già nel soggetto e se sappiamo che Cesare ha varcato il Rubicone, lo dobbiamo solo agli storici che ce l’hanno testimoniato empiricamente. Il fatto che Cesare abbia varcato il Rubicone non deriva dall’essenza stessa di Cesare, come invece dall’essenza del triangolo derivava che la somma degli angoli interni è di 180 gradi; nel caso delle verità di fatto come quella del passaggio del Rubicone da parte di Cesare occorre che si verifichi effettivamente: posso esaminare l’essenza di Cesare finchò voglio, ma fin tanto che non avrà varcato il Rubicone non posso dedurre dalla medesima che egli lo varcherà : occorre che si verifichi il fatto. Per le verità di ragione non è così, non occorre che si verifichino dei fatti: mentre Cesare potrebbe essere Cesare anche senza attraversare il Rubicone, il triangolo non potrebbe essere tale se non avesse la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi: se non l’avesse non sarebbe un triangolo. Vi è quindi una nettissima distinzione tra le verità empiriche di fatto e quelle logico-matematiche di ragione; tuttavia è opportuno fare una precisazione: riduciamo il soggetto Cesare e il predicato “ha attraversato il Rubicone” ad una formulazione puramente logica: chiamiamo A Cesare e X l’aver varcato il Rubicone; l’espressione “Cesare ha varcato il Rubicone” la si può anche esprimere come “Cesare è qualcuno che ha varcato il Rubicone” e, a sua volta, come “Cesare è Cesare che ha varcato il Rubicone”. Nella verità di fatto non posso però dare per scontato che X sia già implicito in A, ossia che l’aver varcato il Rubicone sia implicito nell’essenza del soggetto Cesare, altrimenti degenererei in una verità di ragione. Dunque Cesare (A) è Cesare(A) che ha varcato il Rubicone(X); A=A è valido per il principio di identità ; ma A=X non si può fare: la X è un qualcosa che si aggiunge alla A e non è implicita in essa; l’espressione “Cesare è Cesare che ha varcato il Rubicone” diventa A=A+X, un’uguaglianza che ha senso solo nel caso in cui X=0: ma se X=0 significa che l’aver attraversato il Rubicone non è avvenuto o che la X è già implicita in A. X deve sempre per forza essere diverso da 0 (so che Cesare l’ha varcato il Rubicone!): l’espressione cui mi trovo di fronte è quindi A=A+X, che è inevitabilmente sbagliata perchò va contro il principio di identità . Dicendo che X è diverso da 0 bisogna ammettere che il fatto di aver attraversato il Rubicone si sia verificato e debba essere aggiunto all’essenza del soggetto Cesare. Dopo questo complesso ragionamento, Leibniz arriva alla conclusione che la differenza tra le verità di fatto e di ragione è più apparente che reale; tuttavia entra ora in gioco l’atteggiamento che caratterizza la filosofia di Leibniz, quello scavare ininterrotto per arrivare a verità sempre più profonde, nella convinzione che le cose vadano diversamente da come sembrano andare. Le verità di fatto, come è logico pensare, possono essere o non essere: Cesare ha attraversato il Rubicone, ma avrebbe benissimo potuto non attraversarlo senza per questo mutare la sua essenza; questo discorso però non vale per le verità di ragione: la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 gradi e non potrebbe essere altrimenti, perchò sennò non staremmo parlando di un triangolo. In fin dei conti, spiega Leibniz, la differenza tra i due tipi di realtà è solo apparente e se indaghiamo con accuratezza scopriamo che le verità di fatto non esistono: dire che A=A+X implica che X sia uguale a 0; X deve cioò essere già implicito in A, ossia deve essere lo sviluppo implicito di A, proprio come accade nelle verità di ragione. Non esiste la situazione con una sostanza cui accadono delle cose, ossia dove vi è la sostanza in sò e, successivamente, ad essa si aggiungono delle cose, come, nel caso della sostanza Cesare, l’aver attraversato il Rubicone. Occorre dunque interpretare il predicato “ha attraversato il Rubicone” come sviluppo dell’essenza del soggetto Cesare, un qualcosa senza cui Cesare non sarebbe Cesare: se Cesare non avesse attraversato il Rubicone sarebbe diverso e quindi non sarebbe Cesare, sarebbe altra cosa. L’aver attraversato il Rubicone ò implicito nell’essenza di Cesare proprio come ò implicito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi. Ma allora che cosa è che differenzia le verità di fatto da quelle di ragione, due tipi di verità che in principio ci parevano nettamente distinti? La differenza sta nel fatto che mentre le verità di ragione hanno soggetti universali (il triangolo), quelle di fatto hanno soggetto individuale (Cesare). Ed è per questo che non è corretto affermare “l’uomo attraversa il Rubicone”, ma è giustissimo dire che “l’uomo è un animale razionale”: nel primo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini un predicato non a tutti comune (l’aver varcato il Rubicone); nel secondo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini una caratteristica a tutti comune (l’essere forniti di ragione). Resta ora da chiarire in che senso faccia la differenza l’universalità o l’individualità del soggetto cui le verità si riferiscono; per comprenderlo occorre riprendere il concetto di astrazione: per ottenere il triangolo astratto universale devo prendere degli oggetti individuali in carne ed ossa a forma di triangolo e devo spogliarli di ciò che li differenzia, togliendo ad esempio i colori, la materia, le scritte… in modo tale da ritrovarmi con il triangolo in sò, ossia il poligono a tre lati. Il triangolo astratto differisce da quelli materiali proprio per via delle pochissime caratteristiche che ad esso ineriscono; esso è tutto contenuto in esse. Il triangolo in carne ed ossa, invece, (immaginiamo di avere un triangolo di legno) di caratteristiche ne ha parecchie, anzi ne ha infinite. Pensiamo a tutte le imprecisioni presenti nel legno, ai colori… Il triangolo universale cui perveniamo con il processo di astrazione, dunque, ha un numero limitato di caratteristiche ed è pienamente esauribile da una mente finita quale è la nostra; il triangolo individuale, invece, possiede infinite caratteristiche non coglibili da una mente limitata come la nostra. Quindi potrò conoscere con la mia mente finita l’idea di triangolo, dotata di poche caratteristiche, alla pari di come la conosce Dio, ma delle infinite caratteristiche che ineriscono all’essenza di Cesare in carne ed ossa potrò conoscerne solo alcune, a differenza di Dio, il quale invece potrà conoscerle tutte, una ad una. Con le verità di ragione posso conoscere gli universali alla perfezione proprio perchò di essi posso cogliere tutte le caratteristiche: nel caso del triangolo, posso cogliere con facilità che ha 3 lati e che la somma degli angoli interni è di 180 gradi. Nel caso della verità di fatto, invece, se potessi conoscere tutte le caratteristiche che ad essa ineriscono, potrei anche conoscere tutto ciò che deriva da quella sostanza (Cesare); potrei dedurre dalla sostanza Cesare il fatto che abbia attraversato il Rubicone, che sia stato ucciso dai congiurati, che abbia conquistato la Gallia… però con la mia mente limitata posso solo conoscere le caratteristiche della sostanza Cesare (come l’aver varcato il Rubicone) sulla base dell’esperienza, grazie a qualcuno che me lo dice perchò l’ha visto coi suoi occhi, proprio perchò non posso conoscere tutte le caratteristiche che danno l’essenza. Mentre Dio sa a priori che Cesare attraverserà il Rubicone, io lo so a posteriori, ossia dopo che il fatto si è verificato empiricamente. Ed ecco che torniamo al punto di partenza: la differenza tra verità di ragione e di fatto è solo apparente; certo per me l’espressione “la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi” è una verità di ragione, mentre quella “Cesare ha attraversato il Rubicone” è di fatto; ma se esamino più approfonditamente il tutto scopro che per Dio sono entrambe verità di ragione: ogni cosa per Lui è verità di ragione, ovvero il predicato è sempre implicito nel soggetto ed Egli può estrarlo da ogni essenza (sia universale sia individuale) senza problemi; noi invece possiamo estrarre il predicato solo dalle realtà universali, quale è il triangolo. Ritornando al problema iniziale riguardante le monadi, Leibniz sostiene metaforicamente che esse non abbiano finestre: le monadi si sviluppano tutte dal proprio interno, nel senso che non può succedere nulla a loro che provenga dall’esterno: tutto ciò che capita ad una monade è uno sviluppo della sua stessa potenzialità . Il fatto che Cesare abbia attraversato il Rubicone non ò quindi un qualcosa che succede in un dato momento a Cesare, bensì è uno degli sviluppi tutti interni alla sostanza “Giulio Cesare”: fa parte della sua essenza l’attraversare ad un certo momento il Rubicone. A noi può sembrare una verità di fatto, ma questo è dovuto solo alla nostra visione limitata che vede le cose a posteriori e non riesce ad abbinare il passaggio del Rubicone all’essenza Cesare. Ecco allora che le cose che capitano ad ogni sostanza provengono interamente e necessariamente dall’interno della sostanza stessa, quasi come un’autoarticolazione. La monade, che finisce per essere ogni qualsivoglia sostanza individuale, si configura come un centro di forza capace di sviluppare tutta una serie di caratteristiche. E se per la realtà che ci circonda vale il meccanicismo, per le monadi esso non vale più proprio perchò esse diventano una sorta di centro di creazione di nuove caratteristiche, una sorta di tensione continua nella quale costruiscono continuamente se stesse, facendo emergere dalla propria natura tutte le caratteristiche che di volta in volta vengono ad assumere. Quindi non è un processo meccanico, è molto più simile allo svolgersi della nostra vita interiore: un continuo crearsi, aggiungersi, svilupparsi di cose insite nella nostra natura stessa. E in effetti per Leibniz le monadi (tutte quante) sono sempre rigorosamente entità spirituali, non res extensa, ma res cogitans: il fatto che siano spirituali deriva dal fatto stesso di essere, come suggerisce la parola stessa, un’unità : in Leibniz è radicata l’idea che al di sotto della realtà fisica che muove in termini meccanici vi sia una forza che dà il moto e anche l’idea che tutto avvenga all’interno, come un’autoarticolazione; da giovane egli aveva abbracciato con entusiasmo l’atomismo, che gli pareva essere una spiegazione valida dell’intera realtà , vista come l’aggregato di particelle elementari e che ciò che veramente esiste sono solo le caratteristiche quantitative. Poi aveva fatto una serie di considerazioni che lo avevano condotto a ritornare sui suoi passi e a mettere in discussione l’atomismo: in primo luogo, sotto il movimento meccanico del tutto deve esservi una forza (la monade); in secondo luogo il concetto stesso di atomo concepito come realtà materiale è inaccettabile: qualsiasi cosa materiale, ossia dotata di estensione, per quanto piccola possa essere sarà sempre e comunque ulteriormente divisibile in parti più piccole, magari non in termini materiali, ma comunque con l’immaginazione potrò sempre e comunque scomporre ulteriormente. Viene a cadere il concetto di atomo in senso materiale: con la parola atomo (a + temnw ) si indica appunto una porzione di materia non ulteriormente divisibile, ma è impossibile che esista. La concezione atomistica per poter funzionare fino in fondo non può appoggiarsi sugli atomi materiali (che Leibniz ha dimostrato sempre ulteriormente scomponibili) e deve rinunciare al materialismo: paradossalmente, l’atomismo per esistere deve per forza essere un atomismo spiritualistico: la monade è un atomo spirituale, l’unico che possa veramente esistere. La realtà nel suo complesso viene concepita dal pensatore tedesco come l’insieme di atomi che aggregandosi costituiscono il tutto e contemporaneamente si precisa che essi sono dei “punti” spirituali e non materiali. E la materialità allora che cosa ò, visto che in ultima istanza tutto è spirituale? La risposta di Leibniz è che le monadi nella loro essenza profonda sono tutte spirituali, ma che non tutte sono ugualmente perfette: la forza, la creatività , la capacità produttiva di ogni singola monade è diversa, si colloca su una scala gerarchica. Vi saranno allora monadi più perfette e altre meno perfette e la materialità non è altro che il modo particolare con cui appaiono a noi le monadi meno perfette. La materialità ò allora quel tasso di passività che caratterizza le monadi meno perfette. Tutte le monadi presentano un’attività , ciascuna di esse ò lei stessa un centro di attività più o meno perfetto a seconda del tipo di monade che la svolge: quindi man mano che la monade è meno perfetta e dunque più passiva, tende a manifestare la sua attività sotto forma di materialità . Ora va senz’altro notata una cosa, già in parte accennata: se per Cartesio gli animali erano delle macchine prive di anima, per Leibniz invece essi sono degni di grande rispetto e interesse; e questo interesse non può che derivargli dalla sua passione per Aristotele, il quale vedeva in ogni ente (anche il più infimo) esistente una combinazione proporzionata di materia e forma, senza porre differenze qualitative nette tra gli enti, nel senso che qualsiasi cosa è pur sempre una combinazione di materia e forma; certo negli uomini il tutto era più complesso e perfetto. Per Cartesio il mondo era spaccato in due: da una parte la res extensa, la pura materialità , dall’altra la res cogitans, pura spiritualità ; Aristotele, unendo ovunque materia e forma, presentava meno dualità . E non a caso lo Stagirita aveva elaborato la famosa scala naturae con la quale sottolineava come dalle realtà più basse fino all’uomo non vi fosse una distinzione netta, ma solo una crescente complessità della forma (l’anima). E Leibniz è d’accordo con Aristotele sul fatto che vi siano diversi livelli della realtà più o meno complessi, ma che derivano bene o male dalla stessa cosa. Un animale o una pianta per il filosofo tedesco non sono poi radicalmente differenti da un essere umano, come aveva sostenuto Cartesio: tuttavia se per Aristotele la gradualità era data dal fatto che tutto fosse fatto da materia e forma combinate in modo più o meno complesso, per Leibniz la materia come realtà autonoma non esiste, esiste solo come infima manifestazioni della realtà spirituale costituita dalle monadi. Occorre a questo punto distinguere i due possibili monismi cui si può aderire: ve ne è uno che consiste nel dire che esiste un’unica sostanza, e un altro che sostiene che esiste un unico tipo di sostanza. Indubbiamente Giordano Bruno e Spinoza possono definirsi monisti sotto ambo gli aspetti, riconoscendo non solo l’esistenza di un’unica sostanza, ma anche l’esistenza di un solo tipo di sostanza. Il monismo di Leibniz consiste nell’ ammettere un unico tipo di sostanza, ma non un’unica sostanza, ve ne sono anzi una miriade (le monadi). Ma questa miriade di monadi per il pensatore tedesco è stata creata da una sola monade infinita, che è Dio. Si può effettuare un’ulteriore osservazione: se la realtà è costituita da monadi, ne deriva che una semplice penna è divisibile in un numero infinito di particelle, ciascuna delle quali è una sostanza, proprio perchò si dicono sostanze, secondo Leibniz, solo quelli che vengono comunemente intesi come atomi, porzioni di materia non ulteriormente divisibili. Ma ogni cosa materiale, per quanto piccola, sarà sempre ulteriormente divisibile: ne deriva che esistono sostanze solo microscopiche, a livello atomico, e tutto il resto è un composto di sostanze: la penna teoricamente non è una sostanza, ma un aggregato di sostanze microscopiche. Tuttavia c’è un problema di fondo: se divido una realtà inorganica come una pietra ottengo due pietre, tre pietre, quattro pietre… ma se divido una sostanza animata come un gatto non ottengo due gatti, tre gatti, quattro gatti! Per Leibniz questo fatto nasconde una verità metafisica recondita: le realtà inorganiche hanno un solo livello di sostanzialità , cioò hanno solo le monadi materiali, sono un semplice aggregato di monadi materiali: quella che chiamo comunemente pietra è un puro e semplice aggregato di tante monadi materiali pietre che mi generano la pietra che mi sta davanti; ma per il gatto le cose non stanno così: esso non è l’unione di tanti gatti microscopici! Certo esso è un aggregato di monadi materiali come la pietra, ma in più, come suggeriva già Aristotele, è dotato di un qualcosa che organizza le monadi materiali in maniera tale da farne un qualcosa di più che una semplice somma di monadi materiali, come invece è la pietra: il gatto sarà dunque la somma di particelle materiali organizzate dall’anima. Pare dunque che un certo conflitto tra materia e spiritualità sia in qualche misura presente anche nel pensiero di Leibniz: ma è un conflitto solo apparente perchò le particelle inorganiche e l’anima che costituiscono il gatto in fondo sono di natura sostanzialmente identiche, anche se uno (l’anima) ad un livello più elevato e complesso. Quell’elemento organizzativo che abbiamo chiamato “anima” Leibniz preferisce chiamarlo monade dominante: essa è ciò che caratterizza gli esseri animati e ne riorganizza le parti materiali. La monade dominante ha l’importante ruolo di dominio e di organizzazione delle altre monadi; ma per Leibniz in fondo è corretto parlare di sostanza anche quando ci si trova di fronte ad un aggregato di monadi retto dalla monade dominante. Anzi, a suo avviso un gatto è una sostanza (unità di monadi aggregate dalla monade dominante), una pietra no (un aggregato casuale di monadi prive di un qualcosa che le ordini e ne faccia una cosa sola). Nel caso della pietra la sostanza è reperibile esclusivamente nelle singole monadi che aggregate mi danno la pietra: ognuna di esse sarà una sostanza. Questo ci consente di comprendere l’esempio di Giulio Cesare e del Rubicone: la monade dominante (anima) riuniva e riorganizzava le altre monadi per dar vita alla sostanza Cesare; è detta dominante proprio perchò assurge ad un ruolo di dominio delle altre monadi che insieme ad essa compongono la sostanza in questione. Proprio in quegli anni si affermava il microscopio, strumento grazie al quale si potevano osservare gli insetti nella loro piccolezza e scoprire che vi è vita anche laddove non si pensava che vi fosse: si vedevano sempre animaletti e corpuscoli in movimento. Questo indusse Leibniz a ritenere che un qualche cosa di analogo alla vita sia bene o male presente dappertutto, anche nelle realtà più minute. E in effetti a confermare l’idea tipicamente leibniziana della continuità della realtà , senza differenziazioni tra umano e non umano, vivente e non vivente Leibniz afferma che tutte le monadi sono dotate di percezione e solo l’anima umana e alcune anime animali sono dotate di appercezione. Tutte le monadi, nel loro essere di natura spirituale sono dotate di percezioni: tuttavia occorre spiegare che cosa Leibniz intenda per “percezione di una monade”. Dire che si ha percezione di un libro vuol dire che nella propria mente si ha un’immagine di esso, ma un essere inanimato come una monade come può avere percezioni? Leibniz risponde a questa domanda sostenendo che ogni monade, essendo in rapporto con il mondo, è una rappresentazione di esso: immaginiamo di avere un atomo; esso è legato con rapporti di forza e di vicinanza ad altri atomi, i quali a loro volta sono legati ad altri: ebbene, se conoscessimo le caratteristiche e le relazioni di un atomo, allora potremmo conoscere l’intero mondo, di cui l’atomo stesso è una rappresentazione: il mondo infatti non è altro che un insieme di atomi tra loro uniti e conoscendone uno insieme ai suoi molteplici rapporti equivale ad avere una rappresentazione dell’intero mondo. In altre parole, dall’atomo considerato si arriva all’atomo del mondo a lui più distante. Allo stesso modo le monadi, che sono degli atomi spirituali, proprio in quanto legate le une con le altre, sono rappresentazioni e percezioni dell’intero universo: da una monade posso immaginare l’intero universo proprio perchò essa è legata ad altre monadi, le quali sono legate ad altre che sono legate ad altre ancora e la somma di questi legami mi dà proprio l’universo. Tuttavia vedere una monade e vedere l’universo non sono la stessa cosa: ogni monade, infatti, è l’intero universo da un unico e limitato punto di vista; e l’universo in fondo non è altro che la somma di tutti i punti di vista delle singole monadi. Per spiegare il concetto Leibniz si avvale di un esempio significativo: immaginiamo di osservare una città dalle alture circostanti: avremo una veduta complessiva, che coinvolge l’intera città , ma si tratta comunque di un solo punto di vista. E la città in fondo, proprio come nel caso dell’universo, è l’insieme di tutti i punti di vista. Ecco allora che ogni monade è una rappresentazione dell’intero universo, da un limitato punto di vista però. Altra immagine che rende bene l’idea del rapporto monade-universo è quella della proiezione ortogonale: immaginiamo di avere più piani e un oggetto tridimensionale: proiettiamo i suoi punti su ciascun piano: ogni proiezione ortogonale è una rappresentazione, ovvero ogni punto dell’oggetto corrisponde ad un punto del piano, ma tutte le proiezioni ottenute, pur essendo del medesimo oggetto, risulterebbero tra loro differenti: così le monadi rappresentano in modi differenti lo stesso universo. Ne consegue che quello che avviene nella monade è esattamente quello che avviene nell’universo e nella realtà che ci circonda. Ora, se le monadi sono rappresentazioni della realtà , esse debbono per forza anche essere percezioni della realtà , ossia modi di cogliere quel che nella realtà avviene. Ogni monade, come dicevamo, ha percezione (perchò rappresenta) dell’universo sotto un unico punto di vista, ma la monade che conta più di tutte (Dio) raccoglie in sò tutti gli infiniti punti di vista sull’universo. Le appercezioni, invece, sono percezioni dotate di autocoscienza. Ne è dotato l’uomo, ma anche molti altri animali: per Leibniz non vi è quella netta distinzione sostenuta da Cartesio tra uomo e animale. In altre parole, chi ha appercezioni non solo si rappresenta il mondo, ma ha anche coscienza di percepirlo. Se Leibniz dice che ogni cosa ha percezioni, non vuole con questo degenerare nell’animismo, ossia nell’attribuire vita ad ogni cosa, anche agli enti inanimati: vuol semplicemente dire che la struttura di base è uguale per tutti (tutto ha percezioni), ma che le appercezioni le hanno solo le realtà dotate di anima, ossia quelle realtà che hanno la monade dominante, che unisce e regna sulle altre monadi. E d’altronde Aristotele aveva fatto un discorso analogo per quel che riguarda i tre tipi di anima da lui ravvisati: tutti, animali uomini e piante, hanno l’anima vegetativa; gli animali in aggiunta hanno quella sensitiva e l’uomo, oltre alla vegetativa e alla sensitiva, dispone pure della razionale. Discorso simile per Leibniz: tutti abbiamo le percezioni, ma non tutti le appercezioni: esse sono un qualcosa di più che si aggiunge alle percezioni, è l’avere coscienza di percepire. Tuttavia le monadi che hanno appercezioni sono dotate anche di livelli percettivi non riconducibili all’appercezione, ossia percepiscono cose senza averne coscienza: certamente ho appercezioni nel caso in cui percepisco un libro, ad esempio: percepisco il blu, la forma a parallelepipedo, le scritte e ne ho coscienza. Tuttavia secondo Leibniz percepiamo anche cose di cui non abbiamo coscienza, ossia riceviamo la percezione di certe cose senza neanche accorgercene. Questa concezione tutta leibniziana è di fondamentale importanza perchò porta il pensatore tedesco a prendere le distanze una volta per tutte da Cartesio e da Locke: per questi due pensatori, infatti, idea era ogni oggetto del pensiero e, di conseguenza, non erano ipotizzabili idee non pensate: se l’idea è l’oggetto del pensiero, un’idea non pensata non c’è. Per questi due pensatori dunque il contenuto del pensiero si identificava con quello di cui si ha coscienza: tutto ciò che percepisco, di quello ho coscienza perchò se non sapessi di percepirlo non potrebbe esistere come idea visto che l’idea è l’oggetto del pensiero. Tuttavia Leibniz nota, con due secoli di anticipo rispetto a Freud, che non è detto che di ogni contenuto del nostro pensiero dobbiamo avere coscienza. Freud parlerà di inconscio, alludendo ad una sorta di deposito di idee da cui attingiamo di continuo, ma a cui non pensiamo di continuo. E d’altronde non è per il fatto di pensare ad un libro che io ho percezione solo di quello: nel deposito della mia testa avrò mille altre idee, anche se al momento non ci sto pensando. Sia per Leibniz sia per Freud, dunque, non è vero che le idee o sono coscienti o non ci sono: anzi, si può giustamente affermare che la maggior parte delle idee non sono conscie. Leibniz queste idee di cui non si ha coscienza le chiama piccole percezioni, piccole nel senso che non sono abbastanza forti per superare la soglia della coscienza: le avrà l’uomo, ma anche le piante. D’altronde quando si ha la febbre e si prova dolore ovunque è per via dell’abbassamento della soglia del dolore, ovvero abbiamo coscienza di ciò di cui solitamente non abbiamo coscienza. Leibniz suffraga le sue tesi con diversi esempi: immaginiamo una persona che abita da molto tempo nei pressi di un corso d’acqua e una persona che ci abita da poco tempo: mentre la seconda sarà disturbata dal rumore dell’acqua corrente, la prima non se ne accorgerà neanche e non per via di un’improvvisa sordità , bensì per il fatto che ciò che nell’altra persona è appercezione in lei è solo percezione: a livello fisico la percepisce, ma rimane sotto la soglia della coscienza. Altra immagine di cui si avvale il pensatore tedesco è quella del mare: il suo rumore è causato dal rumore di ogni singola goccia che lo compone, però noi siamo coscienti del rumore delle onde, ossia del complesso, ma non di quello delle singole gocce d’acqua, che però ci deve comunque essere: altrimenti non vi sarebbero le onde. La concezione secondo la quale possiamo percepire cose senza averne coscienza (senza appercezione), consente a Leibniz di spiegare molte altre cose centrali nella sua filosofia: in primis se ne avvale per argomentare contro l’empirismo e a favore dell’innatismo. Leibniz, infatti, sulle orme di Platone, è convinto che la nostra mente non sia una tabula rasa (come credevano gli empiristi), bensì che essa, non appena nasciamo, porta già dentro di sò potenzialmente alcune informazioni. Ora, il ragionamento dell’empirista Locke era il seguente: un’ idea per definizione non può esistere se non pensata: esistono solo le idee nella misura in cui vengono pensate dalla mente umana. Ma con questa definizione di idea, diventa autocontradditorio parlare di innatismo ! Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco e alle quali non penso e poi, crescendo, le acquisisco portandole in atto con l’ esperienza? E’ contradditorio ammettere l’ esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino proprio perchò le idee esistono solo come oggetti della mente. Ora Leibniz con la distinzione tra percezioni e appercezioni ha già assestato un primo colpo al ragionamento dell’ampirista inglese: non di tutto ciò che percepiamo abbiamo coscienza e quindi possono esserci nella nostra mente idee che non sappiamo di avere. Certamente Leibniz è pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e pertanto risolve il tutto in un “innatismo virtuale”, facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti è diverso da quanto il filosofo inglese sostiene: non nasciamo con delle idee in testa, bensì con degli elementi di potenzialità e l’ esperienza serve proprio a far emergere, a chiarificare e a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita e in tutti gli uomini: l’ idea di uguaglianza, spiega Leibniz, ce l’ abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’ uguaglianza, per portare cioò in atto quell’ idea che nella nostra testa era solo in potenza. Il pensatore tedesco riprende poi il motto di origine medioevale di cui si avvalevano gli empiristi: se essi dicevano che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, Leibniz corregge e dice che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse: non c’è nulla nel nostro intelletto che non sia passato dall’esperienza, se non l’intelletto stesso. Apparentemente può sembrare una tautologia, ma, come Leibniz sempre sosteneva, dalle cose ovvie derivano cose che ovvie non sono: da pacifista e amante dell’armonia quale era, il pensatore tedesco vuole criticare (nei Nuovi saggi sull’intelletto umano) le tesi di Locke con garbo, facendogli notare come in realtà la pensino allo stesso modo. Certamente quel che riceviamo dall’esterno è il materiale della conoscenza, tuttavia l’intelletto, cui Locke stesso aveva attribuito grande importanza, non deriva dall’esterno, dall’esperienza sensoriale. Locke diceva che riceviamo idee semplici (blu, forma parallelepipedo, costituzione atomica… ) tramite l’esperienza in modo passivo, e poi l’intelletto riorganizza attivamente il materiale per dar vita ad idee complesse (l’idea di libro). Ora, anche per Leibniz in fondo le cose vanno così, però egli è convinto che non sia corretto affermare che tutto deriva dalla sensazione: l’intelletto riceve il materiale della conoscenza e lo rielabora, ma l’intelletto è innato, non ci deriva dall’esperienza. Locke ha ragionato correttamente e ha solo sbagliato nel dichiararsi empirista: il suo ragionamento stesso è da innatista perchò riconosce l’esistenza di un qualcosa che non passa dall’esperienza (l’intelletto). Locke sarebbe un empirista, se non addirittura un sensista, se dicesse che tutta la conoscenza passa per i sensi, ma non lo dice: sarà poi Condillac nel periodo illuministico a sostenere questo. Ecco che allora nei Nuovi saggi sull’intelletto umano Leibniz, come aveva fatto Locke, sostiene che si nasca con un qualcosa (l’intelletto) che non si acquisisce con l’esperienza, ma è innato: d’altronde, se non vi fosse l’intelletto a riorganizzare le idee, nella nostra testa avremmo solo un’accozzaglia di impressioni sganciate tra loro e ricevute passivamente. Ma, per fortuna, siamo dotati dell’intelletto, che riorganizza le idee semplici percepite (colori, forme, suoni) in idee complesse (il libro, la casa… ): per usare un’espressione che verrà usata poi da Kant ma che esprime perfettamente la concezione leibniziana, pensare significa unificare. Come accennavamo, la soluzione gnoseologica di Leibniz consiste in un innatismo virtuale: egli non apporta modifiche di rilievo e in fondo la sua posizione è identica a quella assunta secoli addietro da Platone. Con innatismo non vuole dire che si nasce con delle idee presenti nella testa, altrimenti non si spiegherebbe l’acquisizione di conoscenze progressiva del bambino. Leibniz, proprio come Platone, sostiene che si possiedono sì delle idee a partire dalla nascita, ma solo a livello virtuale: Platone parlava di reminescenza, convinto che ognuno di noi nella vita passata abbia acquisito delle conoscenze ormai dimenticate e il conoscere in questa vita non è altro che ricordare le cose apprese nell’altra. Leibniz non parla di esistenza umana prenatale, ma tuttavia è convinto che si nasca con una potenzialità ideale nella mente, ossia con dei concetti innati virtualmente: perchò essi diventino coscienti occorre l’intervento dell’esperienza. Platone faceva l’esempio dell’idea di uguaglianza: vediamo due cose uguali perchò già conosciamo l’idea di uguaglianza ed è l’incontro di due cose uguali che ci fa ricordare l’idea di uguaglianza. E’ l’esperienza che fa emergere le idee innate: e Leibniz usa il concetto di percezione per spiegarlo. Le idee innate non sono altro che piccole percezioni di cui non abbiamo coscienza: nasciamo con l’idea di uguaglianza, però è evidente che quando siamo bambini appena nati non sappiamo cosa sia l’uguaglianza: perchò si renda conto di che cosa è l’uguaglianza la percezione deve varcare la soglia della coscienza, deve cioò diventare appercezione tramite l’esperienza. Leibniz si avvale dell’esempio della statua e del blocco di marmo: l’esperienza è esattamente come uno scultore che lavora il marmo: quando deve scolpire la statua, sceglie la pietra, il blocco in cui le forme da lui desiderate sono già implicite nelle venature del marmo stesso; lo scultore lavorando sul marmo fa emergere la statua a forma di uomo, tuttavia la forma del corpo è già presente nel blocco, ma non è pienamente manifesta: perchò passi ad un’esplicita manifestazione ci vuole lo scultore che tiri fuori definitivamente la forma. Così l’idea di uguaglianza, già insita nella nostra testa dalla nascita, per venir fuori ha bisogno dell’esperienza. Nel discorso di Leibniz vi è una novità interessante, che sembra anticipare il discorso che poi farà Kant: Kant si configurerà come risolutore del problema riguardante il rapporto innatismo-empirismo, rapporto che in fin dei conti finiva per diventare una guerra eterna e irrisolvibile proprio per le argomentazioni insmontabili che possono tutti e due usare: l’empirista dirà che le cose le acquisiamo dall’esperienza, l’innatista farà notare che l’attività conoscitiva parte da punti di partenza innati, e così via. L’idea di fondo che porterà Kant a trovare una soluzione è già in fondo implicita in Leibniz ed è la constatazione che nel processo conoscitivo agiscono due realtà diverse, la materia e la forma della conoscenza: e già Leibniz parlava di intelletto unificatore (innato) e materia conoscitiva (empirica): in fondo per Leibniz conoscere non è altro che ricevere materiale conoscitivo e ritrovarsi ad avere nella testa un insieme di dati organizzati in una certa maniera: se il materiale della conoscenza ce lo fornisce l’esperienza, lo strumento organizzativo di questo materiale (l’intelletto) è innato. E la spinosa questione verrà proprio risolta così da Kant, ossia rendendo conciliabili due cose che apparentemente non lo sono (innatismo ed empirismo) sottolineando come ciò che viene acquisito è diverso dal modo in cui viene acquisito. E, per tornare alla metafora dello scultore, la statua costruita era già tutta nella mente dello scultore o viene tutta dall’esterno? La risposta sta proprio nell’unione di innato ad empirico: la statua in parte stava già nella testa dello scultore (il modo in cui costruire) e in parte è derivata dall’esterno (il marmo con cui costruire). Ne consegue che la conoscenza è un processo di costruzione, ossia di raccolta materiale e rielaborazione del medesimo. Il merito di Kant è di aver chiarito una volta per tutte questo discorso, ma in fondo esso era già implicito in Leibniz, anzi lo era già in Platone. In realtà perfino un empirista Locke ci era arrivato e doveva riconoscere come nella teoria del suo avversario Leibniz vi fosse un pò di verità , così come Leibniz doveva riconoscere che nelle teorie empiristiche di Locke non tutto fosse sbagliato. Ecco allora che Leibniz fa notare che come concetti virtuali lui non intende concetti di contenuto, ma piuttosto concetti astratti, di tipo logico- matematico: è innato non il singolo contenuto di conoscenza (l’idea di uomo, di cavallo… ), ma la struttura logica e formale, ad esempio il concetto di uguaglianza: esso acquisisce contenuto nel momento stesso in cui scorgo empiricamente due cose o più uguali. Questa idea, comunque, era già sullo sfondo anche nel periodo della maturità di Platone: nel Parmenide egli si diceva convinto che non potesse esistere l’idea di “uomo” o di “cavallo”, ma, al contrario, era convinto che esistessero le idee astratte come i numeri, l’uguaglianza, la giustizia… Sull’altro versante, quello dell’empirismo, Locke aveva fatto un discorso simile: conoscenza vuol dire riorganizzare le idee semplici con l’intelletto per dare vita ad idee complesse. Ed allora Leibniz gli fa notare che in fondo la pensano allo stesso modo: tutto deriva dall’esperienza tranne l’intelletto, che costituisce l’armamentario formale per acquisire la conoscenza. Emerge bene come empirismo e innatismo siano ambedue presenti nella conoscenza: l’intelletto è innato, ma il materiale su cui esso lavora no! Basta sintetizzare il tutto, come farà Kant, e il problema è risolto. Bisogna tuttavia fare una precisazione: conoscenza e monadi dominanti sono apparentemente in contrasto: infatti la monade dominante governa tutte le altre monadi materiali, noi abbiamo dei concetti (ad esempio l’uguaglianza) virtualmente presenti nell’anima (la monade dominante) e poi con l’esperienza portiamo a coscienza queste idee pervenendo alla conoscenza. Tuttavia così dicendo pare che si debba ammettere un rapporto tra monade ed esperienza, tra monade e monade: infatti la monade dominante ha delle strutture ed esse con l’aiuto e l’interazione dell’esperienza emergono. Ma le monadi non hanno finestre, la loro attività è tutta interna e non vi è contatto con l’esterno. L’apparente aporia viene superata se prestiamo attenzione alla solita divisione in livelli della realtà , tipica di Leibniz: c’è una monade dominante, poi ci sono monadi che ci danno l’esperienza e che ci portano alla conoscenza, ad idee chiare e distinte. Tuttavia non può esservi un rapporto causale tra monade dominante (anima) e monadi materiali (la realtà che ci circonda) proprio perchò ogni monade non ha finestre, è un’unica attività di coscienza. Tuttavia sappiamo che la conoscenza deve esserci. Ora, da un punto di vista più profondo, tra la monade dominante e quelle materiali del corpo, e tra le monadi dell’universo esterno e la mia mente che di esso ha percezioni, c’è corrispondenza ma non causalità : ecco allora che la monade dominante ha volontà di alzare il braccio, e le molteplici monadi materiali del braccio si alzano una ad una in modo tale che il braccio si alzi. Allo stesso modo, quando il libro è posto sul tavolo, corrispondentemente avviene una percezione nella mia mente, pur non essendovi causalità : non ho la percezione del libro a causa del fatto che il libro è posto sul tavolo! Il che ci porta ad una conclusione: l’innatismo virtuale vale fino ad un certo livello, ma se ci si spinge più in profondità perde il suo valore; si arriva ad un innatismo totale ed assoluto: se le monadi non hanno finestre, quel che avviene nella mente procede senza rapporti con l’esterno e quindi se percepisco il blu del libro non è per il fatto che il libro agisce sulla mia mente (le monadi non hanno finestre!), ma perchò nella mente si verifica qualcosa per cui ad un certo punto percepisco il blu: la causa non è l’azione del libro, è lo stato precedente nella mia mente. Queste considerazioni in primis portano Leibniz ad un innatismo assoluto, in secundis lo conducono ad avvicinarsi più del previsto all’Occasionalismo: infatti, se non può esservi rapporto causale tra monadi, come si giustifica la corrispondenza tra i fatti? Ossia, come mai quando il libro viene collocato sul tavolo, io lo percepisco? Tuttavia se il libro non è la causa del mio percepimento del suo blu, non è detto che non vi sia corrispondenza tra libro e percezione del blu: anzi, deve per forza essere così. Non è a causa del mio pensare di alzare il braccio che esso si alza: gli occasionalisti dicevano che è in occasione del mio pensare di alzare il braccio che Dio interviene e mi alza il braccio; Leibniz non arriva a tanto, e approda ad un occasionalismo generalizzato. Per spiegare le sue posizioni egli si serve del celebre esempio degli orologi: immaginiamo di avere due orologi che devono tra loro corrispondere proprio come devono corrispondere il fatto che penso di alzare il braccio ed esso si alza e il fatto che viene messo sul tavolo il libro e io lo percepisco: un orologio rappresenta il mio pensare di alzare il braccio, l’altro l’alzarsi del braccio: in altre parole, un orologio rappresenta la res extensa cartesiana (non libera, meccanica e materiale), e l’altro la res cogitans (libera, spirituale e non materiale). Tuttavia, più in generale, i due orologi che devono tra loro corrispondere significa anche che ogni monade è una rappresentazione di tutte le altre, senza però che vi sia rapporto causale: senza interagire o toccarsi, esse si rappresentano a vicenda. In realtà Leibniz impiega questa strana metafora per far apparire meno bislacca la sua teoria e per far invece risultare ridicole quelle altrui, altrimenti più sensate. I due orologi (le monadi, che rappresentano sia la res extensa sia la res cogitans, visto che in ultima istanza tutto è riconducibile a monadi) vengono costruiti da Dio, il grande orologiaio, il quale vuole che segnino sempre la stessa ora, ossia che siano corrispondenti: Egli può fare tre cose diverse per adempiere il suo compito: 1 ) può stare sempre attaccato agli orologi per sincronizzarli di continuo, ossia per farli corrispondere: e questa è la tesi degli Occasionalisti, secondo i quali vi è un continuo intervento di Dio volto a far corrispondere res extensa a res cogitans e viceversa: decido di alzare il braccio e Dio, in occasione della mia decisione, mi alza il braccio. 2 )Dio può collegare i due orologi con una cinghia, in modo che le lancette di uno trainino quelle dell’altro: questa è la tesi di Cartesio, il quale voleva far corrispondere la res cogitans alla res extensa: decido di alzarmi con l’anima che è libera, e il corpo si muove secondo le regole del meccanicismo. E’ una cosa che ne produce un’altra. 3 ) Infine Dio può fare un’altra cosa, la più degna di un buon orologiaio come lui: costruire i due orologi in maniera perfetta, in modo che, dato l’impulso iniziale, vadano avanti sincronizzati all’infinito, senza dover ricorrere all’intervento di qualcosa o di qualcuno. Questa terza è la posizione di Leibniz, apparentemente molto strana, ma facilmente comprensibile con la metafora degli orologi: la tesi leibniziana è quella dell’ armonia prestabilita. Il pensatore tedesco ha già abbattuto il problema dell’eterogeneità delle due res, riconducendo tutto a res cogitans: la materia stessa è una forma meno raffinata di spiritualità . Ora per far sì che le monadi siano tra loro corrispondenti, senza ricorrere al rapporto di causalità , basta ammettere che siano state tutte preordinate in modo tale che si corrispondano perfettamente: Dio le ha create tutte in modo tale che, create come sostanze individuali, procedano per conto loro, senza finestre, corrispondendosi perfettamente. Ecco allora che penso di alzare il braccio con la monade dominante, ed esso si alza perchò le monadi son fatte in modo tale che al pensare quella cosa succeda quell’altra cosa. Allo stesso modo vedo una cosa e la conosco: il libro viene appoggiato sul tavolo e in corrispondenza a quel gesto vi è la mia percezione del colore blu presente nel libro. Certo, è una concezione alquanto bislacca, che comunque con l’immagine degli orologi risulta assai chiara e comprensibile, molto più persuasiva delle altre. Ora però emerge un nuovo livello di realtà : fino ad ora vi erano il mondo superficiale, che abitualmente chiamiamo “materiale”, ma che è fatto di res cogitans come tutto il resto: qui impera il meccanicismo e la non libertà , e quello più profondo, più spirituale, quello delle monadi come centri di forza che dal loro interno generano tutti i successivi stati di forza. Però adesso, continuando a scavare in profondità , viene fuori un altro livello: sotto il primo strato di necessità meccanica e sotto il secondo di libertà spirituale, ve ne è un altro in cui le monadi, a differenza della definizione data in precedenza, hanno una finestra aperta verso Dio: infatti, con l’immagine degli orologi abbiamo dimostrato la corrispondenza tra le monadi, ma essa funziona proprio perchò tutte quante sono in rapporto causale con Dio: è lui che le ha causate, in modo tale che vi sia corrispondenza reciproca. Questo nuovo strato, però, sembra caratterizzato, come il primo, dalla necessità : Dio ha fatto le monadi così proprio perchò abbiano corrispondenza, ossia ha prestabilito con una decisione di dare loro tale corrispondenza. Tuttavia Leibniz ci tiene a precisare che in questo livello, sul piano metafisico, la libertà non viene messa in discussione: da estimatore della Scolastica, egli riprende le parole di un grande pensatore medioevale, Duns Scoto: Se Dio non fosse libero, nulla al mondo lo sarebbe. Per Leibniz una cosa è libera se è contingente, ossia se c’è ma potrebbe anche non esserci. Per Duns Scoto la contingenza e la libertà procedono a cascata da Dio, ammesso che egli sia libero: se Egli è libero, tutto ciò che da Lui deriva non può che essere libero, ossia può esserci ma potrebbe anche non esserci, proprio perchò Dio è stato libero di farlo. Il che significa che il problema ultimo della libertà è vedere se Dio è libero oppure no: se Egli è libero lo è anche tutto il resto, quindi occorre indagare se Egli è libero, tralasciando tutto il resto. E’ quindi opportuno tralasciare gli altri livelli per esaminarne un quarto, quello di Dio. Vanno però effettuate alcune puntualizzazioni: cosa significa dire che una cosa è possibile? Per Leibniz la possibilità è la non contradditorietà logica: egli adduce l’esempio del peccato originale di Adamo: sarebbe stato possibile sia un mondo in cui Adamo peccasse, sia un mondo in cui Adamo non peccasse: non vi è alcuna contradditorietà logica. Sarebbe stato invece impossibile un mondo in cui Adamo peccasse e non peccasse. Per fare un esempio più ovvio: è impossibile che 2 + 2 = 5, vi è un’enorme contraddizione logica alle leggi del pensiero. Tuttavia non è impossibile che un asino voli, proprio perchò non è una contraddizione logica, sebbene sia una cosa che si discosti molto dall’esperienza comune. In altri termini, si può pensare ad un asino volante, ma non che 2 + 2 = 5: non potrà mai essere concepita come identità logica. Ciò che è impossibile è contradditorio e non è pensabile; ciò che invece è possibile è non contradditorio e quindi pensabile. Partendo da queste riflessione di origine medioevale, Leibniz ritiene che la mente di Dio sia la regione dei possibili, il luogo dove stanno i possibili. Se possibile è pensabile, allora le cose sono possibili nella misura in cui stanno e sono pensate da Dio. La differenza che intercorre tra noi e Dio, è che mentre noi la possibilità la riconosciamo pensandola, Dio pensandola la fonda. Ma dire che in Dio sono presenti tutti i possibili, non comporta che tutti i possibili siano reali: se è la sua mente a stabilire ciò che è possibile pensandolo, poi è la sua volontà a scegliere tra le possibili alcune cose cui dare esistenza. Ecco allora che nella mente di Dio stavano tutti e due gli Adami, quello che ha peccato e quello che non ha peccato e Lui ha dato esistenza a quello che ha peccato. A questo punto Leibniz arriva a dire che esistono infiniti mondi possibili, e che Dio ne ha realizzato solo uno: un mondo non è altro che un insieme di compossibili, ossia di cose possibili che non si escludono a vicenda: abbiamo una legge di gravità posta da Dio, ma Egli avrebbe potuto porne un’altra diversa, che tuttavia non era compossibile con la nostra: o l’una o l’altra. Ecco allora che il mondo è un insieme di cose possibili insieme; e Dio tra gli infiniti mondi possibili ha deciso di crearne uno soltanto, il migliore tra quelli possibili. Noi dunque viviamo nel migliore dei mondi possibili; Leibniz non dice che sia un mondo perfetto, ma semplicemente che è il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare. D’altra parte il mondo non può essere perfetto perchò se lo fosse sarebbe Dio stesso, l’ente perfetto. Egli è perfetto e nella sua mente ha infiniti mondi possibili: decide nella sua infinita bontà di crearne uno (attribuire dell’essere è sempre positivo, per definizione). Sceglie di creare e crea tra tutti il migliore dei mondi che avrebbe potuto creare. Se l’avesse creato perfetto, avrebbe creato se stesso, ma non deve creare Dio, bensì il mondo, che è diverso da Dio: ma ciò che è diverso da Dio deve per forza essere imperfetto, perchò solo Dio è perfetto. Ma che il mondo sia imperfetto è intrinseco alla bontà di Dio: le stesse imperfezioni e lo stesso male di questo mondo sono espressioni della bontà divina. Già Platone, nella sua disperata ricerca dell’unità , diceva che il bene e il meglio consistono nel massimo di unità conciliabile con il massimo di ricchezza e di varietà . L’unità è unità della molteplicità , è una e ricca allo stesso tempo: anche Leibniz la pensa così, con spirito unificatore. D’altronde in quegli anni Newton dimostrava che la legge di gravità è unica in tutto il mondo, dando così qualche spunto a Leibniz per rintracciare una identità e un’unità occulte. Ma resta ora da chiarire se Dio sia libero o no, per vedere se tutto ciò che da lui deriva, a cascata, è libero oppure no. Apparentemente sembrerebbe proprio che Dio non sia libero perchò è vincolato dalla sua stessa bontà a creare il mondo, a scegliere il migliore tra quelli possibili, quasi come se la Sua bontà comportasse la perdita di libertà . Ma ecco che Leibniz distingue tra due tipi di necessità : vi è una necessità metafisica (la penna lasciata cade e non può fare diversamente: è impossibile il contrario) e una morale (gli studenti devono studiare). Ora, Dio ha l’obbligo morale di fare sempre il meglio, ma questa necessità morale non implica una necessità metafisica: resta nel campo dei possibili che egli non creasse il mondo o che lo creasse diverso da questo e quindi non il migliore. Dio dunque sul piano metafisico è totalmente libero, dotato di una libertà di gran lunga superiore rispetto a quella dell’uomo: è libero di scegliere e fa per forza sempre il bene. Ed ecco allora che a cascata la libertà di Dio investe l’intera realtà , che da Lui è stata generata. Ricapitoliamo brevemente i 4 livelli della realtà individuati da Leibniz, servendoci della tabella qua sotto: 1 Livello della MATERIA (monadi passive): meccanicismo, non libertà , leggi fisiche. La res extensa di Cartesio: però si tratta di monadi. 2
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