John Locke vive in Inghilterra, nell’ ultima fase del 1600 e le sue opere vanno collocate intorno agli anni 90 del secolo. Si tratta grosso modo degli anni in cui scoppia la seconda rivoluzione che travaglia l’ Inghilterra del Seicento, la rivoluzione che verrà detta ” gloriosa “. Insieme a Thomas Hobbes, Locke è il più grande politico inglese del secolo e le notevoli differenze tra le teorie politiche lockiane e quelle hobbesiane sono dovute al fatto che Hobbes vive la prima rivoluzione ( quella degli anni 40 ), la più sanguinosa, ed è quindi interessato a garantire la sicurezza dell’ individuo, Locke, invece, vive nella seconda rivoluzione, caratterizzata da vicende non particolarmente drammatiche, anzi potremmo quasi dire pacifiche, dove si assiste alla nascita delle teorie liberali: si tratta dell’ atto con cui l’ intera società inglese si è sbarazzata di una monarchia oppressiva e ha dato vita ad una monarchia costituzionale. Ecco allora che Locke intende garantire al singolo la libertà più di ogni altra cosa; non a caso Locke è considerato il grande teorico del liberalismo. L’ opera principale di Locke, la più cospicua e la più famosa, è il Saggio sull’ intelletto umano; un’ opera corposa, ma comunque a carattere discorsivo: non a caso si può considerare Locke il precursore dell’ illuminismo proprio per il suo atteggiamento di fondo: il Saggio sull’ intelletto umano è un’ opera scorrevole, priva di tecnicismi e scritta in inglese, la lingua nazionale dell’ Inghilterra, e non in latino, proprio per consentire a tutti la lettura e non solo ad una ristretta cerchia elitaria: ora, il problema della divulgazione, ossia del rendere leggibile ciò che si scrive al maggior numero possibile di persone, è una prerogativa tipicamente illuministica, che Locke ha già messo in atto sul finire del ‘600. E’ tipicamente illuminista, poi, la rinuncia alla metafisica per porsi invece problemi concretamente utili all’ uomo: ed è esattamente quel che fa Locke. I problemi che si pongono Locke, il primo pensatore proto-illuminista, e Kant, l’ ultimo e al tempo stesso più grande filosofo illuminista, sono analoghi: l’ illuminismo è senz’ altro caratterizzato dal dominio incontrastato della ragione, ma tuttavia si tratta non di una fiducia cieca in essa ( come era per Cartesio ), bensì di un ponderato e critico approccio: d’ altronde nutrire una fiducia sconfinata nella ragione, senza un minimo approccio critico, rischia di diventare irrazionale. Ecco allora che Kant intitolerà la sua opera più famosa Critica della ragion pura, dove darà un giudizio della pura ragione istituendo un vero e proprio tribunale in cui la ragione è al tempo stesso giudice e imputato: si giudicano i limiti della ragione ma, neanche a dirlo, è la ragione stessa a giudicare; fin dove può arrivare la mia ragione? Questo è l’ interrogativo kantiano. Tuttavia si potrebbe obiettare che già nel Medioevo le cose andavano così: pensatori come Tommaso o Abelardo avevano fatto un buon uso della ragione, pur sottolineandone i limiti intrinseci. Però nel Medioevo i limiti della ragione erano dati dalla fede, nel 1700 sono dati dalla ragione stessa. Anche Locke, come poi farà Kant, sente la necessità di stabilire preliminarmente i limiti entro i quali l’ intelletto umano può operare ( vedi il titolo della sua opera, il Saggio sull’ intelletto umano ): egli definirà la ragione umana come una candela che ci illumina il cammino, senza quindi nutrire in essa quell’ eccessivo entusiasmo che aveva caratterizzato la filosofia di Cartesio. La nostra ragione non è onnipotente e non può illuminarci su tutto, così come una candela non può far luce su ogni cosa: tuttavia è l’ unico mezzo di cui l’ uomo dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene. Locke è anche vicino all’ illuminismo sul piano dei contenuti nel momento in cui arriva a dire che il risultato dell’ indagine sui limiti della ragione è lo smontamento e la dichiarazione di inattingibilità di alcuni concetti tipicamente metafisici: egli muove una serrata critica alla conoscibilità della sostanza, da sempre cardine della metafisica. E l’ esito della riflessione illuministica, non a caso, sarà antimetafisico: si arriverà a dire che i problemi concernenti la metafisica sono poco attingibili ( per Kant totalmente inattingibili ). Quel che interessa a Locke non è conoscere realtà supreme e improbabili, bensì quelle realtà che hanno più a che fare con la vita umana di tutti i giorni. Locke è in tutti i sensi figlio della tradizione empiristica inglese e allo stesso tempo del pragmatismo baconiano: a suo avviso la filosofia deve concretamente servire a risolvere i problemi umani di tutti i giorni e non deve costruire impianti metafisici che facciano poca presa sulla realtà . Al sapere sono utili due cose per Locke: in primo luogo la conoscenza scientifica: Locke aveva stretti rapporti personali con lo scienziato Boyle ed era lui stesso, come formazione, medico. In secondo luogo ci deve essere la conoscenza politica e tutte le questioni etiche e religiose. Da notare che la religione, intesa da Locke, non si riduce a teologia; egli non fa un discorso su Dio, ma sull’ uomo e sui suoi rapporti con la religione: una religione intesa più come cosa umana che divina. Tant’ è che all’ inzio del Saggio sull’ intelletto umano ( che può essere considerato a carattere gnoseologico poichò si esaminano gli strumenti a disposizione dell’ intelletto ), vi è un’ epistola dedicatoria che funge da prefazione, chiarendo l’ origine dell’ opera: racconta che le teorie esposte nel trattato hanno avuto origine, 20 anni prima, da discussioni tenute con gli amici; in questi dibattiti lui e gli amici trattavano di politica e di religione e ad un certo punto si trovarono di fronte a questioni cui non riuscivano a rispondere: in altre parole non riuscivano più ad andare avanti nel dibattito. Locke dice di essersi lì accorto che molti problemi umani non possono essere risolti se prima non se ne risolve un altro, che sta a monte di tutti gli altri: quanto si può estendere legittimamente la mia conoscenza razionale? Cosa posso comprendere e in che misura? Con questo interrogativo, Locke si aggancia contemporaneamente all’ illuminismo e al razionalismo seicentesco: pensiamo a quando Cartesio sostiene di dover abbattere l’ antico edificio del sapere per costruirne uno nuovo; ma pensiamo anche al tribunale della ragione istituito da Kant. Tuttavia, pur avvicinandosi ad entrambe le correnti di pensiero, Locke sembra maggiormente aderire all’ illuminismo e pare saldamente proiettato nel 1700. Infatti il razionalismo cartesiano aveva fatto un ragionamento di questo tipo: nella nostra mente ci sono aree bianche ( cose di cui si ha conoscenza evidente ), aree grige ( cose di cui si ha conoscenza dubbia ) e aree nere ( cose di cui non si ha la minima conoscenza ); riduco volontariamente tutte le aree grige o a nere o a bianche, a seconda della loro conoscibilità : il risultato sarà che avrò cose di cui ho conoscenza certa e cose di cui non avrò la minima conoscenza, ma cose di cui ho conoscenza incerta non ce ne sono più ( le aree grige ). Con Locke non viene meno il razionalismo seicentesco, ma è più maturo, manca in lui quella ingenua tendenza a razionalizzare disperatamente ogni cosa: egli ammetterà , accanto alle aree nere e a quelle bianche, anche quelle grige, ossia le cose di cui non ho certezza totale. Ecco allora che nell’ ambito stesso della ragione troverò sì il bianco, ossia cose di indubitabile certezza, ma anche il grigio, ossia cose non del tutto indubitabili; anzi, il bianco sarà davvero limitato rispetto al grigio, che invece finirà per coprire la maggior parte delle cose. Ma Locke non ha timore, come invece aveva Cartesio, delle aree grige, proprio perchò anche lì la ragione, sebbene non potrà dare certezze assolute come quella del cogito ergo sum, potrà comunque dire la sua: ecco allora che non ci sono solo cose di cui abbiamo certezze e cose di cui non sappiamo assolutamente nulla, ma compaiono anche cose di cui si ha una vaga conoscenza e sulle quali la ragione può illuminarci come una candela, senza però risolverle completamente. Ed è proprio con Locke che viene introdotta la sfumatura di significati tra la parola razionale e quella ragionevole: razionale è una conoscenza alla Cartesio, inconfutabile, trasparente ed evidente: “penso dunque sono” è razionale come conoscenza. Ma il campo di applicabilità della ragione va oltre: anche nelle aree grige, ossia nelle questioni su cui non abbiamo certezze, la ragione può dare indicazioni che non saranno razionali ed evidenti, ma tuttavia saranno ragionevoli, sensate: ” prendo questa decisione perchò me lo dice la ragione ” non è una scelta sicura, ma è la migliore che la ragione possa fornirmi, ragione che per Locke, come dicevamo, non è più onnipotente. Per dirla in altri termini, il ragionevole è una forma attenuata del razionale. Con il ragionamento lockiano si viene a perdere una buona parte dell’ area bianca di Cartesio, ma tuttavia ottengo aree grige su cui posso indagare con la ragione per operare così in modo ragionevole. Una volta chiarito il problema che per prima cosa bisogna indagare sui limiti della ragione, Locke intraprende una sfilza di ragionamenti gnoseologici. Il suo ragionamento inizia con una pars destruens, con la quale confuta e distrugge le tesi innatistiche; smontare le tesi innatistiche significa far trionfare quelle empiristiche, di cui Locke si fa portavoce in quanto dimostrata contradditoria una delle tue tesi, allora deve essere per forza corretta l’ altra. Questa polemica anti innatista la troviamo nella prima parte del Saggio sull’ intelletto umano; Locke quando parla di innatisti ha nella sua mente in primo luogo Cartesio con le sue idee innate ( quella di Dio ad esempio ), ma anche i neoplatonici inglesi di inzio Seicento. Va subito detto che per criticare l’ innatismo egli si serve di un metodo empiristico: infatti non si limita a fare ragionamenti astratti e su concetti generali, ma si rifa’ a casi empiristici a tutti noti per far vedere come certe cose di cui abbiamo conoscenza siano contrarie all’ innatismo. Locke muove contro ogni forma di innatismo, quello delle idee religiose ( l’ idea di Dio intesa alla Cartesio ), le idee logico-matematiche e perfino quelle morali ( l’ idea di bene e quella di male ). La critica di Locke comincia dalla definizione stessa di innatismo, data a suo tempo da Platone: innate sarebbero quelle idee presenti nell’ uomo fin dalla sua nascita e che non vengono acquisite con l’ esperienza, bensì sono appunto innate, insite nella mente fin dalla nascita e presenti in tutti gli uomini. Dunque stando a questa definizione, se l’ idea di Dio fosse innata dovrebbe essere radicata nella mente di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo: ma Locke fa notare come certe popolazioni retrograde dell’ America non credano in alcun Dio e non abbiano insita nella loro mente alcuna idea innata di Dio; con lo stesso criterio, Locke fa notare che se l’ idea di bene e di male fosse innata, dovrebbe essere presente nella mente di tutti gli uomini fin dalla loro nascita: ma ciò che per noi europei è un male, per le popolazioni più arretrate dell’ America è un bene: il cannibalismo, ad esempio. Ecco allora che non tutti gli uomini hanno lo stesso concetto di bene e di male, concetto che, secondo le tesi innatistiche, dovrebbe essere uguale e presente in tutti gli uomini: di conseguenza, spiega Locke, l’ idea di Dio, di bene e di male e tutte le altre idee non sono innate, ma derivano dall’ esperienza, dal contesto in cui si vive o dalla cultura che si ha: nihil est in mente quod prius non fuerit in sensu dicevano i medioevali sostenitori dell’ empirismo. Allo stesso modo Locke dimostra che le verità matematiche e logiche non sono innate: non è possibile che si nasca con alcune verità matematiche già insite nella propria testa e il caso più esplicativo è quello del bambino, che le apprende un pò alla volta, partendo da zero. Tuttavia non mancheranno le critiche alle affermazioni di Locke: all’ incirca negli stessi anni l’ innatista Leibniz gli farà notare che ciò contro cui muove le critiche non è l’ innatismo ! Leibniz è pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e risolve il tutto in un innatismo virtuale, facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti è diverso da quanto il filosofo inglese sostiene: non nasciamo con delle idee in testa, bensì con degli elementi di potenzialità e l’ esperienza serve proprio a far emergere, a chiarificare e a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita e in tutti gli uomini: l’ idea di uguaglianza, spiega Leibniz, ce l’ abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’ uguaglianza, per portare cioò in atto quell’ idea che nella nostra testa era solo in potenza. Ma Locke non accetta neanche la correzione leibniziana, facendo rispetto alle idee un pò il gioco che faceva Spinoza con le sostanze cartesiane, portando il tutto alle estreme conseguenze: parte dalla definizione di idea così come Spinoza era partito da quella di sostanza, per dimostrare che le tesi dell’ avversario sono sbagliate. Idea è qualsiasi oggetto della mente umana, diceva Cartesio: tanto un triangolo pensato quanto un colore percepito. Locke fa notare che, stando alla definizione cartesiana ( che aveva portato il filosofo francese all’ innatismo ), un’ idea per definizione non può esistere se non pensata: un’ idea non pensata non esiste, bensì esistono solo le idee nella misura in cui vengono pensate dalla mente umana. Ma con questa definizione di idea, diventa autocontradditorio parlare di innatismo ! Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco e alle quali non penso e poi, crescendo, le acquisisco portandole in atto con l’ esperienza? E’ contradditorio ammettere l’ esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino proprio perchò le idee esistono solo come oggetti della mente ! Prima di proseguire con le argomentazioni lockiane, è bene fare una precisazione: con gli esempi delle tribù retrograde dell’ America che hanno un concetto di bene e di male diverso dal nostro si potrebbe essere indotti a credere che Locke sostenga il relativismo culturale: sarebbe un grave errore pensare che, poichò non in tutti gli uomini bene e male vengono intesi ugualmente, sia lecito parlare di un relativismo etico in Locke: egli è fortemente convinto che un bene e un male ci siano, così come è convinto che Dio esista e sia razionalmente dimostrabile la sua esistenza: la verità esiste ed è quella, non vi è nulla del relativismo protagoreo in Locke. Ma siccome le idee non sono innate, non tutte le culture e gli uomini arrivano allo stesso tempo ad individuare le stesse concezioni di bene e di male: il bene per il pensatore inglese è uno solo, però non tutti gli uomini vi arrivano allo stesso modo, allo stesso tempo e correttamente. Così come se 10 persone diverse risolvono la stessa espressione algebrica arrivando a 10 risultati diversi significa che 9 di essi ( se non tutti ) hanno sbagliato, così anche per 10 persone che siano arrivate a 10 concezioni diverse di bene e di male, 9 avranno sbagliato e uno solo avrà optato per quella giusta ( o magari han sbagliato tutti e 10 ). Nei libri successivi del Saggio sull’intelletto umano, Locke imposta la sua parte costruttiva: la conoscenza, che non passa, come dimostrato, per l’innatismo deve per forza essere di tipo empiristico: non c’è nulla nel nostro intelletto che pima non sia passato per i sensi. Detto questo, occorre esaminare come si acquisisce la conoscenza tramite l’esperienza: Locke accetta la definizione cartesiana di idea come oggetto della mente, anzi se ne serve per confutare l’innatismo: gli oggetti della mente comunemente detti “idee” secondo il pensatore inglese arrivano da due diverse fonti, il senso esterno ( o sensazione ) e il senso interno ( o riflessione ). Nonostante Locke sia a tutti gli effetti un empirista, non accetta che tutto derivi dalla sensazione: certo la sensazione esiste e sono sensazioni tutti i dati che riceviamo dall’esterno ( suoni, odori, immagini… ), tuttavia accanto alle sensazioni vi sono le riflessioni, ossia le informazioni che ricevo non già dall’esterno, ma dal mio mondo interiore: saranno riflessioni la gioia, la tristezza e più in generale quel che sentiamo avvenire nella nostra coscienza. Anche le riflessioni sono esperienze, ma sono esperienze interne al soggetto e quindi non possono essere dette sensazioni, perchò non derivano dal mondo esterno; certo vi è un collegamento con esso perchò, vedendo che c’è il sole ( sensazione ) sono contento ( riflessione ), ma tuttavia il processo che mi porta alla contentezza è tutto interno al soggetto. Quindi l’esperienza ha per Locke una duplice fonte, il mondo esterno che dà le sensazioni e il mondo interno che dà le riflessioni, ossia che riflette lo stato d’animo del soggetto. Questi due tipi di idee, chiamate appunto idee di sensazione e idee di riflessione sono in prima battuta quelle che Locke definisce “idee semplici”, contrapposte alle “idee complesse”. Si dicono idee semplici quegli oggetti del pensiero il cui contenuto elementare non è ulteriormente scomponibile, e si dicono idee complesse quegli oggetti del pensiero composti il cui contenuto risulta scomponibile: l’idea di libro, ad esempio, è un’idea complessa, nel senso che è costituita da più idee congiunte: sarà l’unione dell’idea di forma data dall’ambito tattile e da quello visivo mescolate all’idea di colore ( di più colori magari ) e all’idea di peso. E’ complessa proprio perchò risolubile in una serie di idee autonome: idea semplice, ad esempio, sarà l’idea del blu, non ulteriormente scomponibile, che unita ad altre idee mi dà l’idea complessa di libro. Le idee semplici sono il materiale costruttivo con cui si dà vita alle idee complesse, che risultano essere una somma di idee semplici. Locke distingue a ragion veduta tra funzione passiva del senso ( tanto quello esterno quanto quello interno ) e funzione attiva dell’intelletto: le idee semplici le riceviamo e basta, in modo del tutto passivo, tramite il senso; le idee complesse, invece, non le riceviamo passivamente tramite il senso: sono una riorganizzazione e aggregazione da parte dell’intelletto attivo di idee semplici ricevute passivamente e singolarmente dal senso: ricevo l’idea di blu, di parallelepipedo, di peso tramite il senso e con l’intelletto le riorganizzo congiungendole per dar vita all’idea di libro. Per acquisire idee complesse occorre la cooperazione tra intelletto che rielabora e senso che acquisisce, per le idee semplici basta il senso. Di idee complesse ve ne sono tre tipi, tutti e tre dati dall’unione di idee semplici: 1 ) Idee di sostanza; 2 ) idee di modo; 3 ) idee di relazione. 1 ) Le idee di sostanza sono quelle relative a realtà che concepiamo come esistenti di per sò: il libro è un’idea complessa di sostanza, somma di tante idee semplici: dall’unione di più idee semplici attribuisco esistenza autonoma alla sostanza libro, che, come ogni sostanza secondo la definizione aristotelica, esiste come ente che per esistere non ha bisogno di null’altro all’infuori di sò. Le idee di sostanza sono quelle che Aristotele chiamava semplicemente “sostanze”. 2 ) Le idee di modo sono quelle che si riferiscono a cose di per sò non esistenti, ma che sono caratteristiche di sostanza: si tratta di quelli che Aristotele chiamava ” accidenti “: per esistere necessitano di una sostanza cui appoggiarsi. Locke fa due esempi di idee di modo: l’idea di furto e di ubriachezza, idee che implicano tanti elementi. Ora, è evidente che l’idea di furto e di ubriachezza per esistere hanno bisogno di sostanze cui riferirsi: ci sarà un uomo ubriaco o un uomo ladro, ma non si può indicare come furto o come ubriachezza una cosa materiale, una sostanza. 3 ) Infine ci sono le idee di relazione, che nascono non dall’unione, bensì dall’accostamento di più idee: esempio tipico è l’idea di uguaglianza, che non nasce dall’unione di due cose uguali, bensì dalla messa in relazione di due entità aventi le stesse caratteristiche: due libri sono uguali, li metto in relazione e ottengo l’idea di uguaglianza. Esempio tipico di idee di relazione è quello riguardante il padre e il figlio. Ma la più importante idea di relazione ravvisata da Locke è la causalità : causa ed effetto, spiega il pensatore inglese, sono tra loro in relazione poichò dove vi è una causa vi è anche un effetto e, viceversa, dove vi è un effetto vi è anche una causa. Tuttavia se accetta l’idea di causalità , egli rifiuta radicalmente quella di sostanza: la critica all’idea di sostanza è uno dei passi argomentativi più celebri del pensiero di Locke, che fa così traballare il classico edificio della metafisica: è tipica della filosofia inglese del 1600-1700 la critica ai contenuti della metafisica, la sostanza e la causa: Aristotele, a suo tempo, aveva definito come argomento principale della filosofia l’indagine sull’essere, indagine che si riduceva all’investigazione sulla sostanza: che cosa è la sostanza? E per rispondere a questo interrogativo lo Stagirita era ricorso alla dottrina delle quattro cause, fondando in questo modo il binomio sostanza-causa, argomento principale della metafisica. Ora Locke nel 1600 fa traballare l’impianto metafisico criticando duramente l’idea di sostanza, e nel 1700 il filosofo scozzese David Hume criticherà insieme all’idea di sostanza anche quella di causa, da Locke mantenuta valida: Locke, infatti, ammette i rapporti causali tra le cose sostenendo che laddove vi è una causa vi è anche un effetto, e viceversa: la palla da biliardo si muove ( effetto ) perchò urtata da un’altra palla da biliardo ( causa ). Locke però conduce una serrata critica all’idea di sostanza, non mettendo in discussione l’esistenza di sostanze, quanto piuttosto la conoscibilità delle medesime: egli racconta di un indiano a cui era stato domandato su che cosa poggiasse il mondo; l’indiano aveva risposto senza esitare che il mondo poggia sul dorso di un elefante. Allora il suo interlocutore gli domandò su che cosa a sua volta poggiasse l’elefante e, dopo che l’indiano ebbe risposto senza tentennamenti che esso poggia sul guscio di una testuggine, gli venne nuovamente posto il problema su chi, a sua volta, poggiasse la testuggine: l’indiano rispose che essa poggiava su qualcosa che lui non conosceva. Ora secondo Locke il nostro atteggiamento nei confronti della sostanza è esattamente analogo a quello dell’indiano nei confronti del mondo. La storia della filosofia e lo stesso senso comune hanno sempre portato l’uomo a ragionare in questo modo: vi è la sostanza libro di cui posso predicare vari attributi, quali il colore, la forma, il materiale, ecc. In altre parole, si è sempre dato per scontato che esistesse qualcosa cui si attribuiscono delle caratteristiche ( colore, forma, sapore, materiale… ) e questo qualcosa è sempre stato chiamato sostanza. Qualche anno prima di Locke, poi, si era affermato l’atteggiamento avviato da Galilei che tendeva a ricondurre le qualità secondarie a primarie: se ho un libro blu, il blu non è caratteristica oggettiva ( primaria ) del libro, ma è solo una manifestazione oggettiva sui miei organi sensoriali ( in questo caso gli occhi ) da parte di qualità primarie, ossia quantitative: il flusso di atomi che fuoriesce costantemente dal libro urta i miei occhi e io vedo il blu, che di per sò non esiste: esiste solo come manifestazione soggettiva-secondaria ( su di me ) di qualità oggettive-primarie ( gli atomi ). Ora con Cartesio il sospetto galileiano dell’inesistenza oggettiva delle qualità secondarie era diventata una verità assoluta: le qualità secondarie ( colori, odori… ) in natura, oggettivamente non esistono, le percepisco solo io soggettivamente come qualità secondarie. Locke condivide questa concezione atomistica della realtà che prevede l’inesistenza oggettiva delle qualità secondarie, tuttavia effettua un ragionamento più approfondito: è vero che le qualità secondarie si appoggiano sulle primarie, nel senso che, se non vi fossero le primarie, le secondarie non esisterebbero, tuttavia, così come le qualità secondarie poggiano su quelle primarie, anche le primarie potrebbero poggiare su qualcosa di più profondo, che noi ignoriamo ( ricordiamoci che per Locke la ragione umana è una candela: non può tutto ); allo stesso modo in cui per l’indiano il mondo poggia sull’elefante, che poggia sulla testuggine la quale non si sa su cosa poggi, le qualità secondarie poggiano sulle primarie, le quali non si sa su cosa poggino, ossia non si conosce la sostanza cui si riferiscono. Ho un libro blu: il blu di per sò non esiste, è una manifestazione soggettiva di una realtà atomica oggettiva che inerisce al libro: dunque il blu poggia sulla struttura atomica del libro; la struttura atomica è caratteristica del libro che, in quanto “sostanza” deve esistere di per sò: in altri termini si dà per scontata l’esistenza di qualcosa ( in questo caso il libro ) avente delle qualità : è blu, è grande, è di costituzione atomica… La filosofia, poi, mi ha già garantito che le qualità secondarie poggiano sulle primarie, ma non mi ha ancora detto su che cosa poggino le primarie ! Che senso può avere l’espressione ” il libro è x “, dove x sta per blu, per grande, per atomico, per pesante, ecc? Che cosa è, in altri termini, quella cosa di cui pròdico il colore blu, la grandezza, l’atomicità , il peso e che do per scontato che esista a monte di questi attributi? Non è certo il libro che stringo fra le mani, che ha tutte queste caratteristiche: è blu, ha forma atomica, è pesante, ecc. Ci deve essere un qualcosa a cui si aggiungono queste caratteristiche e deve essere pensabile scevro di queste caratteristiche: il libro in sò, per dirla con Platone. Per dire che il libro è blu, ci deve essere qualcosa prima che io aggiunga al libro il blu, allo stesso modo in cui dico che John corre: devo prima sapere che cosa è John, di cui pròdico il fatto che stia correndo; allo stesso modo quando dico che il libro è blu devo prima sapere che cosa è il libro, di cui pròdico il blu… Il libro deve quindi essere qualcosa di indipendente dall’essere blu. Ma allo stesso tempo deve essere indipendente da tutti gli altri attributi che di lui posso predicare. La filosofia del 1600 ha già risolto, riprendendo Democrito, il problema delle qualità secondarie: il libro, fatto di qualità oggettive, mi appare soggettivamente blu: ma il blu di per sò non esiste nel libro, sono io che lo vedo: anche se togliessi il blu al libro, continuerebbe ad esistere una sostanza oggettiva ( il libro atomico, come estensione, pura materia ). Togliamo pure le caratteristiche soggettive, che di per sò non esistono: il libro è atomico ed è a forma di parallelepipedo: questo presuppone che il libro sia qualcosa di indipendente dall’essere atomico o a forma di parallelepipedo: c’è prima il libro ( la sostanza ) di per sò, poi ad esso aggiungo la forma parallelepipedo e la struttura atomica: ma il libro può essere predicato anche a prescindere dalla struttura atomica e della forma parallelepipedo. La sostanza ( in questo caso il libro ) non si identifica con le qualità secondarie ( i colori, i sapori, gli odori, i suoni ) ma neanche con le primarie ( l’essere atomico, misurabile, pesante ): e allora che cosa è la sostanza? Non lo posso sapere ! Esattamente come l’indiano non sa su cosa poggi la testuggine, pur sapendo che su essa poggia l’elefante, noi uomini non sappiamo su cosa poggino le qualità primarie (oggettive: grandezza, peso… ), pur sapendo che su esse poggiano quelle secondarie (soggettive: colori, suoni, odori… ). Il blu poggia sulla struttura atomica del libro: quest’ultima è caratteristica della sostanza libro, ma la sostanza libro dove sta? Che cosa è? Le qualità primarie poggiano su un qualcosa di cui sono espressione ( ciò che chiamiamo sostanza ), ma questo qualcosa noi lo ignoriamo totalmente. Si potrebbe definire la sostanza come un puntaspilli: proprio come il puntaspilli è l’appoggio e il supporto degli spilli, la sostanza è il supporto e l’appoggio per le qualità e le caratteristiche che ad essa ineriscono; un apporto e un appoggio invisibile e sconosciuto per noi, come dicevamo, ma che tuttavia deve esistere proprio perchò di esso ( dell’appoggio sostanza ) predico le caratteristiche. Ora, è chiaro che oltre ad essere un supporto per le caratteristiche che ad essa ineriscono, la sostanza è anche ciò che le tiene insieme: con le singole e molteplici idee semplici ( colori, forme, peso… ) messe insieme avrò l’idea complessa di John, ad esempio, che sarà proprio l’unione di queste idee semplici in un’idea complessa; teniamo sempre a mente però che l’idea di sostanza non la possiamo conoscere. Perchò ogni volta che John ci appare davanti agli occhi le singole idee vengono sempre rielaborate allo stesso modo dall’intelletto nell’idea complessa di John? Perchò quel gruppo di idee semplici si offre costantemente ai nostri sensi; esiste dunque in natura qualcosa che fa sì che un gruppo di idee mi si presenti sempre insieme ( ad esempio l’idea di libro, unione di determinate idee singole ). Che cosa è che fa sì che quel determinato gruppo di idee semplici si presenti costantemente insieme, unito? Immaginiamoci un puntaspilli “invisibile” pieno di spilli piantati su di esso: noi vediamo solo gli spilli, che fuor di metafora sono le caratteristiche secondarie che a loro volta poggiano sulle primarie; ma ciò che le tiene insieme ( il puntaspilli invisibile ) noi non lo conosciamo, ma sappiamo che c’è: pensare che vi sia una sostanza cui ineriscono tutte le qualità che in essa scorgiamo deriva dal fatto che solo ipotizzando la sua esistenza si può ammettere che certe qualità si presentano costantemente insieme ( altezza, peso, colore… ): se dico che il libro è blu, è di forma a parallelepipedo, vuol dire che ci deve essere da qualche parte la sostanza libro cui queste caratteristiche ineriscono ! A questo punto Locke introduce le idee generali: le idee di sostanza sono sempre individuali ( John, Socrate, Platone… ), tuttavia è evidente che esistano anche idee generali, costruite tramite processi astrattivi: da singole idee di sostanza ( Socrate, John, Platone ), tramite un processo astrattivo, arrivo all’idea generale “uomo”; avrò più idee complesse ( John, Socrate, Platone ) costituite ognuna da più idee semplici ( altezza, colore, forma… ): ora per ottenere l’idea generale uomo non devo far altro che estirpare da queste idee complesse le differenze che intercorrono dall’una all’altra, tenendo per buone solo le caratteristiche ( idee semplici ) che ineriscono a tutte e tre le idee complesse considerate: Socrate, Platone e John non avranno la stessa altezza, quindi tolgo l’idea semplice “altezza”, non avranno lo stesso peso, quindi tolgo l’idea semplice “peso” e così via finchò non lascio solo le idee semplici caratteristiche a tutte e tre le idee complesse considerate ( ad esempio l’idea di piedi, di mani, di testa… ): quella è l’idea generale uomo, ossia l’essenza uomo, quella che Platone aveva chiamato “uomo in sò”: ho scartato l’idea di altezza e di peso e infatti per comunicare a qualcuno che cosa sia un uomo non gli dico che è un essere alto X e pesante Y, bensì gli dico che è un essere con due mani, una testa, due piedi, proprio perchò tutti gli uomini hanno queste caratteristiche. Ma perchò l’uomo sente l’esigenza di creare idee generali o essenze? Questa esigenza è dettata dalla necessità di comunicare, ossia di dare un nome comune ( uomo ) a tante cose ( John, Platone, Socrate ) per “economia di pensiero”; elimino le caratteristiche specifiche per arrivare a quelle generali: seleziono, in altri termini, qualità comuni a più cose e attribuisco un nome a quelle cose che le presentano ( uomini ). Locke, per quel che riguarda il linguaggio, è un nominalista: gli universali sono solo un nostro processo di astrazione e di per sò non esistono. Tuttavia a questo punto Locke fa un’importantissima distinzione, centrale nel suo ragionamento, tra essenza reale ed essenza nominale, facendo l’esempio dell’oro. L’idea di sostanza nell’oro, come ogni altra idea di sostanza, a noi uomini è sconosciuta, tuttavia c’è chi la conosce: Dio. Riprendendo una tematica tipica del 1600-1700, Locke è del parere che si possa conoscere perfettamente solo ciò che si costruisce, mentre ciò che non costruiamo noi non potremo mai conoscerlo alla perfezione. E questo vale anche per la sostanza: noi non la conosciamo in quanto non l’abbiamo costruita, tuttavia possiamo conoscerne alcune caratteristiche. Dio è in una situazione diversa: Dio le ha costruite di persona le sostanze e, quindi, le conosce perfettamente, a priori: la conosceva addirittura prima di crearla perchò già l’aveva in mente. Noi che non siamo artefici delle sostanze dobbiamo accontentarci di individuare, con una conoscenza a posteriori, alcune caratteristiche della a noi ignota sostanza, ad esempio l’oro: è giallo, luccica, è malleabile, si fonde… Dio che l’ha creato, invece, le caratteristiche dell’oro le conosce a priori e conosce perfino la sostanza oro, che a noi sarà sempre oscura; noi, a posteriori, con l’esperienza, per quanto ci sforziamo, potremo sempre e solo arrivare alle sue caratteristiche; possiamo fare, ad esempio, il processo di astrazione che facevamo per l’uomo: “oro” è infatti un’idea generale, proprio come “uomo”. Posso avere un anello d’oro, una moneta d’oro e una pepita d’oro, ad esempio: arrivo a prescindere dalla forma e a mantenere esclusivamente le caratteristiche comuni a tutti e tre gli oggetti: ecco allora che userò la parola “oro” per indicare tutte quelle cose che hanno quelle caratteristiche comuni a tutte le cose d’oro ( colore, malleabilità , ecc. ). Con l’astrazione, proprio come nel caso dell’uomo, ho estirpato dai tre oggetti d’oro le caratteristiche non comuni a tutti e tre: sembra dunque che io uomo sia arrivato alla stessa conoscenza di Dio; Lui sa che l’oro ha le caratteristiche X, Y, Z perchò l’ha creato come sostanza, io so che ha quelle caratteristiche perchò ho effettuato un’astrazione. Però le cose non stanno in questi termini: Dio conosce le caratteristiche della sostanza oro, ma anche la sostanza oro in persona; io mi limito a conoscere le caratteristiche. E qui subentra la distinzione tra essenze reali ed essenze nominali: Locke chiama essenze reali l’insieme di quelle caratteristiche che appartengono necessariamente a quella cosa ( l’oro ) perchò derivano dalla sostanza di quella cosa; definisce invece essenze nominali l’insieme delle caratteristiche conosciute a posteriori con l’esperienza, senza sapere che cosa sia effettivamente la sostanza cui ineriscono; vengono dette nominali proprio perchò sono legate alla costruzione dei nomi tramite il processo astrattivo illustrato. Ora Dio conosce a priori (perchò l’ha creata, l’ha vista nella sua testa ancora prima di darle vita ) la sostanza e anche le caratteristiche che da essa derivano necessariamente ( colore, forma… ), l’uomo può solo conoscere a posteriori ( proprio perchò la sostanza non l’ha creata lui ) le caratteristiche della a lui ignota sostanza ( colore, forma… ): Dio conosce l’essenza reale dell’oro, l’uomo quella nominale. La differenza tra i due saperi, divino e umano, può essere in altri termini così enucleata: Dio conosce la sostanza oro più tutte le sue caratteristiche (essenza reale), l’uomo conosce solo le caratteristiche della sostanza e con un processo astrattivo, eliminando le differenze, ha dato un nome ( oro ) a tutte quelle cose che presentano le caratteristiche determinate (essenza nominale). Sembra tuttavia che l’uomo con i suoi sforzi possa arrivare a conoscere, bene o male, l’essenza delle cose come Dio, pur non conoscendo mai la sostanza: so anch’io che l’oro è malleabile, è giallo, luccica… Però Locke fa notare una cosa che mette in crisi questa affermazione: immaginiamo di immergere in un acido le tre idee complesse esaminate, l’anello, la moneta e la pepita, dalle quali sono arrivato all’idea generale “oro”: qualora tutti e tre reagiscano allo stesso modo non ci son problemi; però supponiamo che l’anello e la moneta vengano intaccati dall’acido e la pepita no; io ho eliminato le caratteristiche tra quei tre oggetti e, tenendo buone quelle comuni, ho astratto l’idea generale “oro”; però adesso subentra una nuova differenza che prima non avevo considerato: reagiscono diversamente con l’acido. Le possibilità sono due: 1 ) o decido che l’essere intaccabile o meno non fa parte di quel che ritengo fondamentale per definire ciò che è oro e quindi non tengo in considerazione l’intaccabilità ; oppure 2 ) posso decidere che non sia più corretto definire “oro” le sostanze che prima avevo definito tali (l’anello, la pepita e la moneta), proprio perchò è insorto un qualcosa di inaspettato. Infatti, tramite una serie di esperienze ho costruito un’essenza nominale, in base ad una mia astrazione, e ho chiamato con un nome comune ( oro ) un gruppo di cose da me scelte; poi però ho fatto un ulteriore esperimento su ciò che ho definito oro: se tutti e tre gli oggetti da me definiti oro avessero dato lo stesso risultato con il nuovo esperimento non vi sarebbero stati problemi e la definizione data sarebbe rimasta valida; tuttavia ho ottenuto risultati diversi e mi trovo di fronte alle due possibili ipotesi ( appena citate ): se accetto la seconda ipotesi, ossia se non sono più d’accordo che sia corretto definire “oro” le sostanze che prima avevo definito tali, dovrò dare un nuovo nome alle medesime. Tutto questo discorso serve a fondare una cosa di fondamentale importanza, che porta Locke addirittura oltre l’empirismo: tutta la nostra conoscenza deriva dall’esperienza e consiste nel conoscere le caratteristiche di una sostanza che ci è oscura, ma non è mai una conoscenza definitiva, come dimostra l’esperimento dell’acido: chiamiamo continuamente con nomi generali gruppi di idee semplici, ma nuovi esperimenti possono farmi cambiare parere da un momento all’altro: ciò che oggi è oro, magari domani scopro che può essere definito diversamente. Poi Locke, in ambito gnoseologico, fa un ulteriore passaggio: cosa significa, in definitiva, conoscere? Conoscere significa constatare la concordanza o la discordanza tra due idee; se una proposizione è affermativa, si stabilisce la concordanza tra due idee, se invece la proposizione è negativa si stabilisce la discordanza tra due idee. Questa concordanza può essere conosciuta con certezza, ma anche solo presupposta in termini probabilistici: anzi, per Locke la conoscenza certa tramite concordanza la si ha in rari casi e tramite canali privilegiati: gli strumenti conoscitivi riconosciuti dal pensatore inglese sono tre, in apparenza analoghi a quelli di Cartesio, in realtà radicalmente diversi, soprattutto per dove portano Locke. a) intuizione; b ) dimostrazione; c ) sensazione attuale immediata; a ) per intuizioni Locke intende quelle evidenze immediate che mi rendono immediatamente evidente la concordanza di due idee; tipico esempio è quello del cogito, ergo sum di Cartesio: c’è concordanza immediata tra l’idea del pensare e quella dell’esistere: ciò che pensa deve esistere, quindi io che penso esisto. Tuttavia Locke non condivide con Cartesio la questione della res cogitans: infatti Cartesio, dal fatto di intuire di esistere con l’attività intellettuale, aveva allungato il passo ed era arrivato a dire di esistere come pensiero ( res cogitans ), privo di corpo. Locke, da buon cristiano, non accetta quest’idea e preferisce di gran lunga l’idea che l’uomo sia una sostanza materiale dotata di pensiero, e non semplicemente un pensiero senza corpo. b ) per dimostrazione Locke intende l’argomentazione data dal passaggio da un’idea nota ad un’altra ignota; rientra pienamente nell’ambito della dimostrazione la causalità , che Locke ammette: dove vi è un effetto posso dimostrare una causa; passo dall’idea di effetto nota all’idea di causa ignota; e così per Locke è dimostrabile l’esistenza di Dio: dall’effetto mondo si deve risalire alla causa incausata, Dio: Dio causa il mondo senza essere da nulla causato. c ) Esaminiamo ora la sensazione attuale: se percepisco il libro, ci deve essere qualcosa al di fuori di me da cui derivano le percezioni che ricevo: ossia ci deve essere il libro; però la sostanza continua a rimanere sconosciuta; ora le percezioni che ricevo mi dimostrano che esiste qualcosa fuori di me, ma io continuo a non sapere che cosa sia questo qualcosa ( la sostanza ). Ma questa conoscenza che avviene tramite i miei sensi che percepiscono le idee viene da Locke detta di sensazione; ma la conoscenza per sensazione vale solo per la sensazione immediata: vedo il libro che mi sta davanti e percepisco sensazioni ( idee ): deve per forza esistere qualcosa al di fuori di me da cui le sensazioni derivino; ma se ho visto il libro un mese fa e ora non ce l’ho più davanti, la conoscenza per sensazione non vale più, perchò non è una sensazione immediata: è un ricordo, un qualcosa che non posso più toccare nò vedere. Solo ciò che mi sta davanti, ossia ciò che mi dà sensazioni immediate, può darmi conoscenza. Questi tre strumenti ( dimostrazione, intuizione e sensazione immediata ) mi danno la conoscenza ( knowledge ). Si tratta però di una conoscenza ristretta: infatti le cose che possiamo dimostrare o intuire sono davvero poche e rimane una vastissima area di cose su cui non ho certezza, quell’area grigia tanto temuta da Cartesio; ma ciò che non è intuito o dimostrato, ossia ciò che non è certo, pur non essendo razionale, può essere oggetto della ragionevolezza, che non mi dà certezze assolute, ma buoni consigli: in questa vasta area la concordanza tra idee non può essere conosciuta con certezza, ma solo supposta; qui avremo quindi una conoscenza non certa, ma probabile, coi suoi criteri, che ci interessa nella vita di tutti i giorni. Questa conoscenza probabile Locke la chiama judgement. Ecco allora che se la conoscenza è concordanza di idee, questa concordanza può essere certa ( knowledge ) nel caso che ad essa si pervenga con l’intuizione, la dimostrazione o la sensazione attuale, ma può anche essere solo presupposta, probabile: in questo caso allora si avrà il judgement, la forma di conoscenza che trova un vastissimo campo di applicabilità nella realtà ; in questa parte del Saggio sull’intelletto umano Locke sta così arrivando a risolvere la questione sulla quale lui e i suoi compagni anni addietro si erano bloccati: fin dove può arrivare la conoscenza umana? Accanto al sapere certo ( 2+2=4 o penso, dunque esisto ), c’è il sapere probabile ( judgement ), che ci coinvolge nella vita di ogni giorno. Al pensatore inglese pare opportuno, sulle orme degli Scettici, trovare un metodo opportuno per individuare con precisione le probabilità di certezza e di conoscenza sulle cose non del tutto certe. I principali mezzi di indagine per il sapere probabilistico sono quelli che Locke chiama la “fiducia nel testimone” e la “coerenza dell’esperienza”: quando riceviamo delle informazioni il tasso di probabilità deriva da questi due diversi gradi. Quando mi viene riferito qualcosa, devo pormi il problema se ciò che mi viene detto è vero oppure no: il che è appunto dato dalla fiducia che io ho nel testimone, ossia in colui che mi riferisce l’informazione, oltre che dalla non contradditorietà con l’esperienza. Se mi si dice che un asino vola, ho un bassissimo tasso di coerenza con l’esperienza, la quale mi suggerisce che gli asini non volano proprio perchò, tra tutti gli asini presi in esame, non ne ho mai visto uno volare; tuttavia non ho certezza assoluta che sia impossibile, come se mi si dicesse che 2 + 2 = 5: dire che 2 + 2 = 5 è autocontradditorio, assolutamente impossibile perchò so con certezza ( con la knowledge) che 2 + 2 = 4; nel dire che un asino vola non vi è nulla di autocontradditorio, si tratta solo di un qualcosa assai lontano dall’esperienza. A questo punto però la coerenza dell’esperienza si intreccia con la fiducia nel testimone: chi mi ha detto che l’asino vola è una persona attendibile? Se è una persona di cui ho stima e mi dice di aver visto volare un asino ( proprio perchò l’esperienza non sbaglia ), potrò prestargli fede e prendere per vero che ha visto un asino volare; tuttavia se egli mi dicesse che 2 + 2 = 5, per testimone attendibile che possa essere, non posso credergli mai e poi mai. Allo stesso modo mi si dice che John è passato per quella strada: non contrasta con l’esperienza perchò John abita in quella zona ed è solito passare di lì; tuttavia il testimone non è attendibile: non devo accettare come vero che John sia passato di lì. Quelli dell’asino che vola e di John sono casi semplici, che servono da esempi; tuttavia il metodo probabilistico del judgement trova applicazioni più complesse, pensiamo alla veridicità delle fonti storiche: anche qui devo servirmi della fiducia nel testimone e della coerenza dell’ esperienza: lo storico mi illustra il passaggio di Cesare dal Rubicone: il Rubicone esiste, non contrasta con l’esperienza e lo storico è un testimone attendibile. Locke, poi, inserisce nel judgement un altro elemento: la fede religiosa. Essa si riferisce a cose di cui non possiamo avere la certezza perchò non sono intuite, nò dimostrate nò sensazioni attuali: sono cose che ci vengono raccontate, ma che non abbiamo visto. Ora Locke, che si ritiene un buon cristiano, riprende la distinzione fatta a suo tempo da San Tommaso: vi sono delle cose nella fede religiosa che sono dimostrabili con la ragione, altre che non lo sono ma che tuttavia non si oppongono al raziocinio e altre ancora che gli si oppongono nettamente. Locke in La ragionevolezza del Cristianesimo spiega come i messaggi di cui si fa latore il Cristianesimo sono ragionevoli, ossia accettabili dalla ragione; sono messaggi che o sono accettabili dalla ragione o che le stanno sopra, senza però opporsi: tra i messaggi cristiani non ve ne sono mai alcuni che si oppongano alla ragione, secondo Locke. Sostenendo queste tesi, il pensatore inglese prende le distanze dal Cristianesimo più estremistico che si stava andando ad affermare nell’Inghilterra di 1600. Certo, se la fede andasse contro la ragione saremmo tenuti a rifiutarla, ma la fede dice cose dimostrabili con la ragione ( come l’esistenza di Dio e la sua unicità ). Poi nella fede vi sono anche delle cose che vanno al di là della ragione umana, che le stanno sopra ( above reason ), ma tuttavia questo stare sopra non è mai un andare contro. Tuttavia, se la fede è accettabile proprio perchò non opposta alla ragione, si tratta di capire perchò si debbano accettare delle cose che, pur senza andare contro la ragione, le stanno sopra, non sono da essa dimostrabili. Locke fornisce una risposta a questo interrogativo dicendo che avere fede significa credere in cose indimostrabili con la ragione e allo stesso tempo inderivabili dall’esperienza, ma tuttavia testimoniate dal più sincero dei testimoni: Dio. I contenuti della religione cristiana derivano dalla Rivelazione, la quale ( spiega Locke ) non è contradditoria ai dettami della ragione ( pur standole sopra ) e ci è riferita da Dio, testimone sincero e buono ( Dio, che è perfetto, non può che essere buono: l’aveva già dimostrato Cartesio ). Ecco quindi che anche la fede rientra nella conoscenza probabile e non certa, il judgement. In conclusione del discorso gnoseologico, Locke paragona, come accennavamo, la ragione umana a una candela: essa ci illumina, però non su tutta la realtà , anzi su porzioni ristrette e non su tutte allo stesso modo ( ci rischiara molto bene per quel che riguarda la knowledge, un pò meno bene per il judgement ). Tuttavia è l’unico strumento di indagine di cui disponiamo ed è stato Dio stesso a fornirci di questa candela conoscitiva: Egli ci ha fornito di quanto ci basta per conoscere: la nostra ragione, pur non essendo onnipotente, ci è sufficiente, tant’è che può dire la sua anche per quel che riguarda la religione. Oltre che di gnoseologia, Locke si interessa molto anche di politica ed è spesso considerato l’anti-Hobbes per eccellenza, sebbene egli lavori sul medesimo terreno su cui lavorava il teorico dell’assolutismo. Se Hobbes è considerato il teorico dello stato assoluto, Spinoza di quello democratico, Locke viene generalmente considerato il teorico dello stato liberale: in realtà non è stato solo un teorico, ma è stato pure coinvolto nella seconda rivoluzione inglese del 1600, la ” Rivoluzione gloriosa ” ( 1688-1689): si tratta di una rivoluzione incruenta e pacifica ( soprattutto se accostata alla prima ), voluta dalla maggioranza degli Inglesi, una rivoluzione che porta all’aumento della libertà individuale: proprio in quegli anni Locke scrive i suoi trattati politici, quasi come per dare una giustificazione della rivoluzione. Sul piano intellettuale, la sua opera politica sullo stato nasce come risposta all’opera di un pensatore, Filmer, autore di un trattato intitolato “Il Patriarca”. Con quest’opera Filmer sosteneva che il potere del sovrano non è altro che un’ estensione del potere del padre sulla famiglia ad un intero stato: Dio ha dato ad Adamo un potere assoluto sulla famiglia e sui figli; da Adamo il potere si è esteso ai patriarchi di Israele per poi arrivare ad investire intere strutture statali. Si tratta quindi di un’ idea patriarcale e divina del potere assoluto. Locke polemizza aspramente contro questa concezione divina del sovrano, sostenendo che il potere derivi non già da Dio, ma dal consenso degli individui. Anche Locke, come tutti gli altri pensatori seiecenteschi, sostiene che prima dello stato civile vi fosse un originario e retrogrado stato di natura; tuttavia in esso non vigeva il diritto del più forte, come invece sosteneva Hobbes, e il diritto non era di tutti su tutto. Già nel retrogrado stato di natura, secondo Locke, vi era il diritto di proprietà , inteso come diritto a ciò che è proprio: ognuno aveva diritto su qualcosa, non su tutto. Locke interpreta il diritto di proprietà come il risultato del lavoro umano; che cosa è proprio di ciascun uomo? Ognuno ha il diritto di proprietà su se stesso, ossia ciascuno è proprio a se stesso, è padrone del proprio corpo: e questo già nello stato di natura. Ma il corpo può “estendersi”: la caratteristica dell’uomo è il saper trasformare la realtà che lo circonda e, nel momento in cui egli trasforma parti della realtà circostante, esse non sono più pura e semplice natura, ma inglobano parti dell’uomo stesso che così estende il proprio diritto di proprietà sul suo corpo “ingranditosi”: se lavoro un terreno, esso non è più solo un dono di natura, bensì è un’unione tra un dono di natura e una parte di me stesso: il mio lavoro lo trasforma. E questo a rigore vale anche per i doni della natura: se stacco una mela da un albero, dono offertomi dalla natura, faccio un lavoro e la mela diventa mia proprietà perchò non è più solo un dono di natura, ma è anche in parte mio lavoro. La proprietà è dunque l’estensione, tramite il lavoro, del corpo umano a parti della realtà . Non si tratta quindi di un diritto di tutti su tutto ( Hobbes ), ma di un diritto di ciascuno su qualcosa. Queste premesse lockiane porteranno molti pensatori al socialismo e al comunismo: si arriverà a dire che il valore di una cosa sta nel lavoro che in essa è cristallizzato. Ma Locke è lungi dall’aderire a queste posizioni: è e rimane un conservatore, nemico del socialismo e della democrazia: arriva a teorizzare che con questa appropriazione tramite il lavoro si possa accumulare la ricchezza, generando così delle disparità economiche. Se il diritto di proprietà è già insito nello stato di natura, è evidente che una volta costituito lo stato civile il sovrano non potrà privare i sudditi di questo diritto; potrebbe se fosse stato concesso dal sovrano con lo stato civile, ma dato che è a monte dello stato civile, va rispettato in ogni caso. Per Hobbes il sovrano poteva revocare il diritto di proprietà proprio perchò, secondo lui, esso nasceva con lo stato civile: il sovrano l’ha concesso e il sovrano può revocarlo; per Locke è l’esatto opposto: il diritto di proprietà c’era già nello stato di natura: il sovrano non l’ha concesso e quindi non può toglierlo. Ne consegue l’ inviolabilità della proprietà privata. Anche Locke, come gli altri pensatori, spiega l’uscita degli uomini dallo stato di natura e l’entrata in quello civile: la società civile nasce da un’esigenza materiale: ognuno produce qualcosa, ma unendosi tutti insieme ci potrà essere una cooperazione: io produco questo, tu quello, lui quell’altro e ce li scambiamo… Dunque lo stato civile nasce come accordo tra gli uomini a cedere il potere ad una persona detta sovrano affinchò essa garantisca quei diritti già esistenti nello stato di natura, in primo luogo il diritto di proprietà . Lo stato, dunque, non deve concedere nuovi diritti, ma deve solo limitarsi a mantenere quelli già esistenti, rendendo la società più stabile e sicura. Ognuno potrà quindi lavorare e scambiare con gli altri senza che lo stato intervenga per limitare i suoi affari o per impedirglieli. E’ la cosiddetta idea dello “stato poliziotto”, ossia dello stato che non interviene nella società se non per garantire la correttezza nei rapporti sociali: lo stato deve agire allo stesso modo in cui agiscono i poliziotti nei mercati: non hanno nulla a che fare con il mercato i poliziotti e si limitano a controllare che non vi siano irregolarità : il mercato funziona per conto suo. Così deve essere anche nello stato: non occorre alcun intervento in campo economico; l’unico intervento legittimo da parte dello stato ò quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno. Questa teoria che sta alla base del liberismo economico e che sarà accolta con entusiasmo nel 1700 dai fisiocratici, prevede che lo stato intervenga solo per far funzionare meglio la società : deve quindi essere uno “stato minimo”, che prende atto dell’esistenza della società e la difende: ecco allora che Locke distingue per primo tra società civile e stato. Questa distinzione in pensatori quali Hobbes non c’era proprio perchò la società nasceva come conseguenza della nascita dello stato; ma per Locke una forma di società , seppur arcaica e rudimentale, è già presente nello stato di natura e lo stato civile serve solo a rafforzarla e a proteggerla. E’ lo stato stesso che nasce come conseguenza della società , la quale sente il bisogno di trovare un garante della libertà e della sicurezza. L’atteggiamento lockiano prevede una notevole limitazione del potere dello stato: il contratto sociale viene stipulato tra i sudditi e il sovrano: si stabiliscono i doveri e i diritti e anche il sovrano, proprio perchò ha firmato il contratto, deve attenersi: i sudditi gli danno il potere affinchò egli garantisca loro determinati diritti, lui firma e di conseguenza, accanto ai diritti, ha anche i doveri ( garantire l’ordine e i diritti ai sudditi ); il sovrano può infrangere il contratto sociale, proprio perchò anche lui l’ha firmato: in questo caso vi è il diritto di ribellione da parte del popolo; Hobbes aveva negato il diritto di ribellione proprio perchò il sovrano per lui non firmava alcun contratto: se non firma il contratto non può infrangerlo e quindi non vi è motivo di ribellione. Ma in Locke il sovrano firma il contratto e quindi può infrangerlo; se lo infrange ci deve essere la ribellione ed è proprio quel che avviene negli anni in cui scrive Locke e che lui stesso supporta. Locke è quindi teorico del liberalismo politico in quanto sostiene che ogni cittadino abbia il diritto alla libertà individuale e che vi siano dei diritti individuali insormontabili addirittura per lo Stato; è poi anche in un certo senso il teorico del liberismo economico in quanto è convinto che lo stato non debba intervenire nell’economia dei singoli cittadini, imponendo dazi e norme che limitino la libertà : questo atteggiamento sarà sintetizzato dai fisiocratici francesi del 1700 nell’espressione laissez faire, laissez passair: lo stato non deve mai intervenire, in nessun caso. In campo politico, Locke è anche il grande teorico della divisione dei poteri, che rende meno “pesante” e autoritario il governo: la divisione dei poteri è centrale nelle teorie liberali e prevede l’articolarsi della sovranità in poteri tra loro indipendenti; controllandosi l’un l’altro i poteri, vi è più spazio per la libertà del singolo e si garantisce un equilibrio per evitare dittature. Per Locke non devono essere le stesse persone a fare le leggi e ad applicarle: viene così a crearsi la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo: se i due poteri fossero entrambi concentrati nelle mani di una sola persona il singolo rimarrebbe schiacciato. Tuttavia con Locke non vi è ancora la tripartizione dei poteri ( esecutivo, legislativo, giudiziario ); accanto al legislativo e all’esecutivo egli riconosce il potere federativo, che consiste essenzialmente nella politica estera; tuttavia esso finisce per restare nelle mani del sovrano, che detiene il potere sia per quel che riguarda la politica interna sia per quel che riguarda quella estera. Il potere giudiziario Locke lo trascura ed esso sarà poi rivalutato nel 1700 da un grandissimo estimatore di Locke stesso, Montesquieu. D’altronde ai tempi di Locke era sentitissimo il binomio esecutivo-legislativo, e il giudiziario finiva per rimanere in disparte: il sovrano deteneva quello esecutivo, il parlamento quello legislativo e i due finivano spesso per entrare in conflitto. La divisione dei due poteri, esecutivo e legislativo, è ancora fortissima negli Stati Uniti d’America, che d’altronde risentono fortemente del pensiero di Locke fin dai tempi della Rivoluzione americana, quando si opponevano alla madrepatria inglese citando le parole di Locke no taxation without rappresentation, rifiutandosi di pagare le tasse senza avere una loro rappresentanza in Inghilterra. Ma il pensiero politico di Locke si fece molto sentire anche in Francia: abbiamo già citato il liberismo economico dei fisiocrati francesi; tuttavia anche il liberalismo lockiano verrà amato nel corso della Rivoluzione Francese, soprattutto nella prima fase, quella meno drammatica; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 deve molto a Locke. Il pensatore inglese, inoltre, diede molta importanza anche all’ educazione, riprendendo in buona parte il latino Quintiliano: il bambino deve essere educato a seconda delle sue attitudini e non vanno mai in nessun caso applicate pene corporali che, nell’ottica liberale di Locke, vanno contro la libertà del singolo, oltre a non educare: chi le ha subite da ragazzo diventerà vile per paura o violento per ripicca.
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- Filosofia - 1600