Arthur Schopenhauer rientra a pieno titolo nel filone di quei pensatori che si pongono in netta rottura con il sistema hegeliano e, insieme a tutti gli avversari del panlogismo di Hegel, tende a far prevalere l’irrazionalità della realtà : per Schopenhauer, come per Kierkegaard, Hegel ò l’idolo polemico in antitesi col quale costruire la propria filosofia; diverso sarà , invece, il discorso di Nietzsche, il quale intraprenderà una lotta contro l’intera filosofia occidentale sviluppatasi da duemila anni a questa parte, e il bersaglio su cui si riverseranno le sferzate di Nietzsche sarà non Hegel, ma Platone, il fondatore del pensiero occidentale; ecco perchò, tra l’altro, quella nietzscheana può essere etichettata come “polemica inattuale”. Tra i pensatori di questo periodo serpeggia l’aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio significativo, Schopenhauer insiste sul fatto che ” l’uomo non ò un angelo “, cioò non ò puro spirito disincarnato, ma ò essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà , nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioò, che Freud avrebbe più tardi definito come “pulsioni”; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza (e che trova conferma anche nella celebre espressione di Feuerbach: ” l’uomo ò ciò che mangia “) ò in antitesi all’astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Schopenhauer ha un periodo di produzione filosofica piuttosto lungo, che nel complesso dura una quarantina d’anni: la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, risale al 1819 e negli anni a venire continuerà a comporre opere che però non introdurranno notevoli modifiche al suo pensiero. La data di pubblicazione del Mondo ò particolarmente significativa perchò si colloca nell’era del dominio del pensiero hegeliano: ed ò sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant’ò che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero e Schopenhauer potò fare un’amara constatazione: ” Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico ò ristretto “. Si può, tra l’altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potò farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer, che si ritrovava così perentoriamente a tenere lezione a nessuno. Solo con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, il pensiero di Schopenhauer cominciò a dilagare e Nietzsche stesso, nelle sue prime opere, si dichiarerà suo seguace; non solo, perfino Wagner rimase incantato dalla filosofia schopenhaueriana ed ò importante ricordare l’interpretazione del De Sanctis in cui mette a confronto il pessimismo di Schopenhauer con quello di Leopardi. Sempre a dimostrazione del fatto che il successo di Schopenhauer arrivò solo dopo la morte di Hegel, si può anche ricordare come nel Novecento alcuni pensatori marxisti della “Scuola di Francoforte” opereranno una sintesi tra il pensiero marxista e quello schopenhaueriano; fatta questa carrellata di successi di Schopenhauer, si può in sostanza dire che Il mondo cominciò a riscuotere successo dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, quando comincerà ad essere letto come una valida alternativa all’hegelismo. Infatti, la filosofia di Schopenhauer altro non ò se non un tentativo di schierarsi contro Hegel e al fianco di Kant, dando di quest’ultimo un’interpretazione opposta a quella data dall’idealismo. Fino agli anni ’50 dell’Ottocento, anche Kierkegaard contribuisce alla lotta contro Hegel, aprendo spiragli verso l’anti-hegelismo ma anche verso le filosofie esistenzialistiche che fioriranno nel Novecento; ma Kierkegaard, ancora più di Schopenhauer, non avrà tempo di assistere al proprio successo perchò lo coglierà una morte prematura. Entrando nel senso del discorso schopenhaueriano, egli si pone in contrapposizione all’interpretazione che di Kant ha dato l’idealismo (i cui tre eroi sono Fichte, Schelling e Hegel, tutti e tre cordialmente odiati da Schopenhauer): se l’interpretazione idealista, infatti, si ò limitata ad eliminare quella “cosa in sò” ammessa da Kant ma da lui stesso riconosciuta inconoscibile (seppur ineliminabile), la posizione di Schopenhauer spinge in direzione opposta, in quanto si risolve nel recupero della “cosa in sò”, tanto odiata dagli idealisti. Essa per Schopenhauer non solo esiste (come era in fondo anche per Kant), ma ò addirittura attingibile e, dunque, conoscibile; ò però bene fare subito una precisazione: una volta conosciuta, la “cosa in sò” non si rivelerà essere il principio della realtà come lo intendevano Hegel e Fichte, ovvero come principio essenzialmente razionale. Al contrario, la “cosa in sò” sarà sì il principio che governa la realtà , ma esulerà da ogni forma di razionalità e, anzi, sarà addirittura una sorta di principio maligno. Ed ò per questo che si può essere indotti a leggere il discorso schopenhaueriano come un capovolgimento parodistico del neoplatonismo: dall’Uno deriva la molteplicità delle cose, ma, essendo l’Uno radicalmente negativo, anche ciò che da esso deriva non potrà essere positivo. In maniera analoga, il pensiero di Schopenhauer può essere inteso come stravolgimento speculare di quello di Bruno e di Spinoza: tutto ciò che ci circonda ò manifestazione di un’unica realtà , ma quest’ultima ò totalmente negativa. Per questa marcata convinzione che la realtà sia governata da un principio negativo, si può parlare di pandemonismo schopenhaueriano, in antitesi con il panlogismo hegeliano. E’ curioso il fatto che una volta un editore che doveva pubblicare la Critica della ragion pura di Kant chiese a Schopenhauer un parere su quale delle due edizioni fosse meglio adottare: e il filosofo non esitò minimamente a scegliere la prima versione, poichò in essa la “cosa in sò” ha ancora quello spessore che, con la seconda edizione, Kant aveva sempre più limato. Fatte queste precisazioni, può essere utile, per capire a fondo il pensiero di Schopenhauer, analizzare un’opera precedente al Mondo e, più precisamente, risalente al 1813: Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Il principio di ragion sufficiente menzionato nel titolo ò quello di matrice leibniziana: principio fondamentale della metafisica, esso prescrive, essenzialmente, che nulla avviene senza un motivo, cosicchò ò lecito dire a priori che ogni avvenimento ha una sua motivazione. Schopenhauer riprende tale principio e coglie quelli che, a suo avviso, sono i quattro diversi modi (“quadruplice radice”) in cui esso si manifesta: 1) la prima “radice” spiega la dimensione del divenire dei corpi naturali ( principium rationis sufficientis fiendi ) attraverso la connessione tra la causa e l’ effetto fisici (necessità fisica); in altri termini, la prima manifestazione del principio di ragion sufficiente ò la causalità , per cui, dato un evento, so con certezza che esso deve avere una causa e per questo ò detto “del divenire”. 2) La seconda spiega il conoscere razionale dell’ uomo ( principium rationis sufficientis cognoscendi ) per mezzo della relazione tra antecedente e conseguente (necessità logica): se nella 1° radice si trattava della causalità fisica, ora la causalità in gioco ò quella logica. Nel ragionamento concepiamo, cioò, il rapporto tra premessa e conseguenza come nel mondo fisico concepiamo quello tra causa ed effetto. 3) La terza giustifica l’ essere ( principium rationis sufficientis essendi ) come definito dai rapporti dello spazio e del tempo, determinando così la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici (necessità matematica). Con la terza radice, Schopenhauer interpreta kantianamente lo stesso principio di causa/effetto nella sfera matematica, poichò l’essere ò ciò che si definisce nello spazio e nel tempo, i quali, a loro volta, sono i fondamenti della geometria. Tra l’espressione algebrica a sinistra dell’uguale e quella a destra (oppure tra il triangolo e i teoremi che da esso derivano), vige un rapporto analogo a quello causa/effetto del mondo fisico. 4) La quarta, infine, sta alla base dell’ agire ( principium rationis sufficientis agendi ), in quanto stabilisce la connessione causale tra l’ azione che si compie e i motivi per cui ò compiuta (necessità morale). Il rapporto che si instaura tra il motivo di un’azione e la sua conseguenza ò analogo a quello che intercorre tra la causa e l’effetto nel mondo fisico, sicchò non esistono azioni umane prive di motivi. Esaminate le 4 radici, si può notare come Schopenhauer dia un’interpretazione di forte sapore kantiano al principio di ragion sufficiente: tale principio, infatti, altro non ò se non un nostro modo di conoscere (quasi una categoria kantiana), ossia siamo noi che in esso inquadriamo tutte le nostre conoscenze; il che comporta che, a livello di conoscenza intellettuale, tale principio aprioristico valga anche per la volontà umana (avendo ogni azione un suo motivo, ne consegue che non c’ò spazio per il libero arbitrio, poichò ogni azione ò rigidamente governata da cause deterministiche) e pertanto si ò costretti a giungere alla conclusione che conosciamo tutta quanta la realtà (da quella fisica a quella matematica) in base ad un solo principio. Kant stesso era pervenuto a una concezione simile, ma per lui il livello noumenico delle cose in sò restava inconoscibile, o meglio, se ne poteva avere una sorta di conoscenza pratica (con l’esperienza morale, dove si sceglie liberamente seguendo l’imperativo categorico); ora, nel Mondo, Schopenhauer fa un discorso simile: con la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente conosciamo il mondo così come esso ci appare (privo di libertà ), ma nulla ci vieta di pensare che al di sotto di questa realtà ve ne sia un’altra in cui vige la libertà . Di questa realtà “nascosta” si può avere conoscenza in parte, come aveva detto Kant, attraverso l’esperienza morale, ma da sola essa non basta. La chiave per risolvere il problema ò nel titolo stesso dell’opera: Il mondo come volontà e rappresentazione, diviso in quattro parti, di cui nella prima e nella terza si parla del mondo come rappresentazione, mentre nella seconda e nella quarta del mondo come volontà . Il titolo ci dice che il mondo, per un verso, ò una nostra rappresentazione attraverso il principio di ragion sufficiente e, per un altro verso, ò volontà ; più precisamente, il mondo così come esso ci appare (il mondo come rappresentazione), ce lo rappresentiamo attraverso il principio di ragion sufficiente, mentre il mondo come ò in sò ò volontà . Certo, anche per Kant si entrava in un certo senso in contatto con il livello noumenico attraverso la “volontà buona”, ma la nozione di volontà di Schopenhauer ò nettamente diversa. E per comprenderla a fondo ò opportuno addentrarsi nel Mondo come volontà e rappresentazione, il cui titolo, come abbiamo già detto, evoca in senso lato Kant: infatti il mondo fenomenico della rappresentazione viene contrapposto fin dalle prime pagine a quello noumenico, il mondo come volontà , il che vuol dire sia che esso viene attinto nell’atto di esprimere la volontà (come era in Kant) sia che la volontà , oltre ad essere strumento per attingere la “cosa in sò”, ò essa stessa la “cosa in sò”. La partizione dell’opera, dicevamo, ò in quattro libri: nel primo, viene delineato il mondo così come noi lo conosciamo attraverso le forme a priori della conoscenza (ovvero il principio di ragion sufficiente); nel secondo libro, invece, si vedrà come, al di sotto del mondo così come esso ci appare in prima analisi, esiste un altro mondo, cioò il mondo come effettivamente ò e che, scoperto, si rivelerà come volontà . Nel terzo libro, poi, si ritornerà a tratteggiare il mondo come rappresentazione, ma non più come rappresentazione fenomenica, bensì artistica: verrà cioò delineato il mondo così come noi ce lo rappresentiamo esteticamente. Infine, nel quarto libro si torna a parlare della volontà , ma non come volontà affermativa (come era nel secondo libro): al contrario, se ne parlerà in termini negativi, la volontà cioò può volere il proprio annullamento o, in altre parole, può volere di non volere. L’argomento centrale del quarto libro sarà pertanto quella che Schopenhauer designa, con un neologismo, come “noluntas”: così come esiste una “voluntas” (di cui si occupa il secondo libro), allo stesso modo c’ò anche una “noluntas” (e ad essa ò dedicato il quarto ed ultimo libro). Esaminiamo ora, singolarmente, le quattro parti che costituiscono il Mondo: il primo libro ò quello che meno si allontana dal kantismo (di cui Schopenhauer si professò sempre seguace ortodosso); la frase che apre l’opera ò ” il mondo ò una mia rappresentazione “, che suona kantiana all’ennesima potenza. Tuttavia si può notare come il significato profondo di tale frase presenti delle notevoli differenze rispetto al pensiero kantiano: infatti, Kant, dichiarando che percepiamo il mondo non come esso ò ma come ci appare, non sottolinea l’aspetto di illusorietà del mondo così come ce lo rappresentiamo, ma, al contrario, attraverso la rivoluzione copernicana del pensiero ha fondato l’oggettività della conoscenza. Per Kant, infatti, ò vero che percepiamo il mondo non come esso ò in sò, ma come ci appare, però ò anche vero che il fatto stesso di essere dotati tutti delle stesse categorie conoscitive fa sì che la conoscenza umana sia oggettiva (cioò universale) e dunque valida. In conclusione, quindi, anche per Kant il mondo ò una nostra rappresentazione, ma non per questo tale rappresentazione ò priva di valore conoscitivo, anzi ò l’unica forma di conoscenza che possiamo avere del mondo, dal momento che per Kant la “cosa in sò”, pur esistendo, resta inconoscibile. Ma, nel momento in cui Schopenhauer presuppone di poter conoscere la fantomatica “cosa in sò”, allora ò evidente che la conoscenza fenomenica venga proclamata illusoria, poichò impedisce di vedere il mondo come effettivamente ò; parimenti, per Kant la conoscenza fenomenica non era un’illusione, ma anzi era l’unica conoscenza che si poteva avere, poichò con le categorie la “cosa in sò” restava inattingibile. Ed ò bene notare come anche il Kant della Dissertazione del 1770, ammettendo la possibilità della conoscenza della “cosa in sò”, non aveva esitato a dichiarare illusoria la conoscenza fenomenica, proprio come, molti secoli prima, Platone aveva preferito, alla conoscenza del mondo sensibile, quella delle idee. Ed ò nel secondo libro che Schopenhauer proclama la conoscibilità della “cosa in sò” attraverso la volontà ed ò in virtù di questa considerazione che l’espressione ” il mondo ò una mia rappresentazione ” si colorerà di negativo e finirà per suonare: ” il mondo ò una mia illusione”. Schopenhauer cerca di avvalorare il proprio pensiero ripescando filosofi del passato: in particolare, egli si riaggancia a quella sfilza di pensatori che, nel mondo occidentale, rappresentano una specie di filo rosso minoritario e pessimistico. Infatti, se per lo più la filosofia occidentale ò stata ottimistica (“l’essere e il bene sono interscambiabili” dicevano i filosofi medioevali), ò anche vero che vi sono stati pensatori che si sono distinti per un marcato pessimismo e Schopenhauer ha soprattutto in mente, oltre al Platone della Diade, Anassimandro (“il venire alla luce ò un peccato originale”), gli Orfici (il corpo tomba e prigione dell’anima), alcuni Neoplatonici (la decadenza dall’Uno verso il basso), e il misticismo cristiano (che trova in Jacopone da Todi il suo eroe) con il suo disprezzo per il mondo. Ma Schopenhauer si richiama anche alla letteratura ( ” il peggior delitto dell’uomo ò essere nato scrive in La vita ò sogno, riprendendo la letteratura di Calderòn de la Barca) e, sull’onda dell’entusiasmo romantico per l’esoticismo, al mondo orientale, specialmente indiano; ma, nonostante il recupero del pensiero indiano, Schopenhauer ò a tutti gli effetti un interprete dell’Occidente, poichò il suo pensiero matura nell’ambito della tradizione occidentale e i riferimenti alla cultura orientale gli servono solo per riscontrare analogie con il proprio pensiero. Ed ò da queste civiltà tanto distanti dall’Occidente (e cordialmente detestate da Hegel) che Schopenhauer desume due concetti basilari nella sua filosofia: il Nirvana e il velo di Maya. Il velo di Maya ò il velo dell’illusione: il pensiero orientale ha sostenuto che la nostra visione del mondo ò ottenebrata da una sorta di velo che bisogna stracciare per poter così acquisire una prospettiva che non ci inganni. Ora, per Schopenhauer il mondo fenomenico altro non ò se non un velo che deve a tutti i costi essere stracciato poichò impedisce di cogliere la realtà così come essa ò effettivamente. Tale mondo fenomenico ha, kantianamente, le sue due forme sensibili a priori (spazio e tempo) e la sua forma a priori dell’intelletto (non più le 12 categorie, ma esclusivamente la causalità , come già si era prospettato nella Quadruplice radice): la ragione, però, non ò più (com’era in Kant) la facoltà con cui si tendeva all’infinito, ma ò semplicemente la facoltà di astrazione mediata dal linguaggio. Dunque, se la sensibilità e l’intellettività si giocano, rispettivamente, su spazio e tempo e sulla causalità , la ragione, dal canto suo, lavora sull’astratto attraverso il linguaggio; il che comporta un assottigliamento della distinzione tra uomo e animali. Infatti, per Schopenhauer, gli animali, oltre a percepire le cose nello spazio e nel tempo, sono anche in grado di cogliere i rapporti di causalità e dunque hanno un intelletto; ciò di cui sono sprovvisti ò la ragione, in assenza della quale non possono pensare per concetti generali. Sul perchò gli animali non siano in grado di formulare astrazioni attraverso la ragione, Schopenhauer spiega che ò il fatto stesso che essi siano privi di linguaggio che impedisce loro di ragionare per astrazioni; ò proprio nel linguaggio, infatti, che si esprime l’universalità della ragione, e, non a caso, in esso troviamo per lo più nomi comuni, con i quali operiamo le astrazioni. Attraverso l’uso dei concetti elaborati con la ragione, l’uomo costruisce la scienza e la filosofia: ed ò significativo il fatto che Schopenhauer non riconosca alcun valore conoscitivo alla scienza (accostandosi in questo modo alle future considerazioni epistemologiche del Novecento). Tuttavia, la scienza non ò completamente inutile: infatti, pur non potendo essere d’aiuto nel processo conoscitivo, essa ha una grande importanza a livello pratico, dal momento che, essendo costruita sul mondo fenomenico (ed ò per questo che non può aiutarmi a conoscere la “cosa in sò”) mi permette di dominare tale mondo nella vita pratica. Nel secondo libro del Mondo, affiora il tema della volontà , di cui già abbiamo fatto alcune anticipazioni. Come nel primo libro, si parte da un discorso di forte sapore kantiano: il mondo, dice Schopenhauer, ò una mia rappresentazione ma in essa rientra anche il soggetto conoscente; il che vale a dire che ciascuno di noi si percepisce fenomenicamente (e quindi illusoriamente), non come effettivamente ò in sò. Tuttavia Schopenhauer prende subito le distanze da questo discorso (che troviamo quasi uguale in Kant) facendo notare che tra tutte le rappresentazioni possibili ve n’ò una particolare e privilegiata ed ò il nostro corpo, poichò, da un lato, lo percepiamo fenomenicamente in modo analogo a tutte le altre cose, ma dall’altro lato lo viviamo dall’interno in maniera assolutamente immediata, con una specie di autointuizione che ce lo fa conoscere noumenicamente. Infatti, percepiamo senza mediazione alcuna il piacere, il dolore e i desideri poichò li viviamo in maniera direttissima e ciò ci consente di scavalcare il mondo fenomenico e di entrare in contatto con la “cosa in sò”, che ci si manifesta sotto forma di volontà . Il mondo, infatti, ò, kantianamente, una rappresentazione ma attraverso il corpo ci ò concesso di attingere la “cosa in sò” e la percepiamo come volontà , sicchò non ò scorretto affermare che per noi la cosa in sò ò volontà . E l’esperienza del volere ò per Schopenhauer (come per il Kant della “volontà buona”) il luogo in cui si entra in contatto con la cosa in sò, la quale, però, non ò, com’era per Kant, un postulato della ragion pratica confinato all’esperienza morale (per Kant potevo dire di essere libero noumenicamente ma a livello fenomenico dovevo continuare a riconoscermi “servo”); Schopenhauer, invece, intorno alla “cosa in sò” costruisce la propria filosofia, che viene dunque a delinearsi come un tentativo di descrivere quella cosa in sò per Kant inconoscibile sul piano teoretico. Ed ò per questo motivo che la filosofia di Schopenhauer si colloca a metà strada tra l’arte e la scienza: infatti, come l’arte, si fonda su un’intuizione profonda della realtà e ad essa dà quella veste razionale tipica della scienza; con questo, non si vuol dire che la filosofia ò una sorta di scienza debole, poichò, al contrario, la scienza ò per Schopenhauer addirittura inferiore all’arte, visto che quest’ultima, pur non essendo in grado di razionalizzare, sa comunque cogliere intuitivamente l’essenza profonda della realtà . La filosofia dunque ò superiore alla scienza perchò, a differenza di essa, sa cogliere la “cosa in sò”, ma ò anche superiore all’arte perchò, oltre a cogliere la “cosa in sò”, le dà una veste razionale. Ne consegue che per Schopenhauer, a differenza di Kant, si può costruire una metafisica (ed ò ciò che egli fa nel Mondo ); ma non solo, emerge anche che, se per il pensatore di Kà¶nigsberg la volontà era libera nella misura in cui era razionale (cioò in grado di obbedire alla legge morale) con la conseguenza che gli animali, in assenza della ragione, non erano liberi, per Schopenhauer invece la volontà esula da ogni forma di razionalità ed ò sinonimo di desiderio e di impulso istintivo. Si tratta pertanto di una volontà irrazionale, che non consiste nel seguire la legge morale dettata dalla ragione, ma piuttosto nel desiderare cibo e bevande; e per questo ò corretto affermare che il corpo, più che avere desideri ed impulsi, ò lui stesso la somma degli impulsi e dei desideri, quasi come se esistesse in forma di concretizzazione dei medesimi. La volontà , in un certo senso, può essere letta come una sorta di desiderio mediato, poichò quando si vuole qualcosa ò un modo mediato dall’intelletto per soddisfare i desideri irrazionali del corpo. Si può anche notare come il discorso di Schopenhauer rievochi fortemente quello di Cartesio: come il filosofo francese, dopo aver messo ogni cosa in dubbio, trovava una certezza (penso, dunque sono) nell’ambito della coscienza, in modo analogo Schopenhauer mette in forse il mondo intero e per agganciare la cosa in sò ricorre all’autointuizione dell’Io, anche se l’Io in questione non ò più il mero pensiero Cartesiano (res cogitans), ma ò piuttosto un “desidero, dunque sono”, poichò capisco di esistere nel momento in cui entro in contatto con i miei desideri. E come Cartesio, del resto, Schopenhauer prova a fornire una chiave di lettura dell’intera realtà con questo ragionamento: io che mi sono colto metafisicamente diverso da come mi concepivo a livello fenomenico, posso tranquillamente pensare che tutti gli altri miei simili, che fenomenicamente mi sono uguali, lo siano anche sul piano noumenico, ovvero saranno anche loro (come me) volontà . Dopo di che, Schopenhauer (e qui sta il passaggio fondamentale) estende il discorso all’intero universo: dal momento che la mia essenza noumenica come volontà , nascosta da quella fenomenica, ò uguale a quella di tutti gli altri uomini poichò sono a me simili, posso anche dire che gli animali, le piante e gli oggetti mi sono in qualche modo simili e che dunque, sotto il velo dell’apparenza, anche la loro essenza profonda ò volontà , cosicchò tutto il mondo ò volontà . Con questa considerazione Schopenhauer può riprendere le riflessioni ilozoistiche fatte dai Presocratici, dai Rinascimentali (Bruno in primis) e da Hegel stesso (la cui idea di “spirito del mondo” implica che l’intera realtà sia spirito nella sua essenza); però la grande novità ò che, come vedremo meglio più avanti, questa volontà che permea il mondo dal suo interno ò radicalmente negativa. Fatte queste puntualizzazioni, ò bene ricordare come Schopenhauer cerchi di stroncare subito possibili fraintendimenti della sua filosofia: quando egli dice che la volontà che ognuno scopre in sò ò uguale in tutto il mondo, non intende dire che gli oggetti inanimati hanno un qualcosa di analogo in tutto e per tutto alla mia volontà ; il fatto ò che, dice Schopenhauer, in assenza di una parola che possa designare questo principio che governa l’intera realtà , non resta che usare il nome della parte per nominare il tutto; vale a dire che quel principio, che nell’uomo si manifesta come volontà , lo chiameremo in generale “volontà ” per indicarlo tanto negli animali quanto nelle cose, pur sapendo che non ò la stessa cosa. Perciò anche gli animali, nel momento in cui tendono al cibo, hanno volontà e anche le piante quando si protendono per captare i raggi solari; perfino le cose quando, lasciate, cadono al suolo, rivelano una volontà . Il succo del discorso ò che la volontà , principio negativo che permea la realtà , ò una sola ed ò la stessa e si estrinseca in modi diversi: ogni singolo fenomeno della realtà ne ò una manifestazione particolare. Sorge spontaneo chiedersi come Schopenhauer possa affermare che la volontà ò una sola: e il filosofo risponde introducendo quello che, nella filosofia aristotelica, ò noto con il nome di “principio di individuazione”. A far sì che una cosa sia se stessa e non le altre sono lo spazio, il tempo e i rapporti di causalità : posso infatti dire che il libro posato sul tavolo ò se stesso poichò ò in un tempo e in uno spazio diversi da quelli delle altre cose. Questo processo con cui l’intelletto inquadra nel tempo e nello spazio la realtà fenomenica non può valere per la realtà noumenica, in quanto essa ò al di là dello spazio e del tempo, come già aveva fatto notare Platone (l’idea di cavallo, diceva, ò una sola perchò il tempo e lo spazio non possono individuarla). Ne consegue che se la realtà fenomenica ò molteplice, quella noumenica, invece, ò unica e dunque, entrando in contatto dentro di me con la volontà , sono autorizzato a dire che essa (che costituisce la “cosa in sò”) ò una sola e si manifesta nell’illusoria molteplicità che caratterizza il mondo fenomenico. Ma tale volontà , oltre ad essere una, ò anche irrazionale: e con quest’affermazione Schopenhauer capovolge l’atteggiamento tipico della filosofia occidentale, atteggiamento che trova la sua massima espressione in Hegel e nella sua convinzione che la ragione costituisca l’essenza profonda della realtà , per cui gli elementi irrazionali altro non sarebbero se non manifestazioni indirette e accidentali della razionalità stessa. Per Schopenhauer ò l’esatto opposto: l’essenza profonda della realtà ò irrazionale e gli elementi di razionalità che ci sembra di poter cogliere non sono null’altro che manifestazioni esteriori. La volontà sfugge ad ogni razionalità , poichò non vuole nulla che sia riconducibile alla ragione: vuole semplicemente vivere, esistere, e per far ciò cerca di utilizzare tutti gli strumenti possibili, tra cui l’intelletto e la ragione. In altri termini, gli istinti e gli organi di un animale sono espressione della volontà di vivere: le zanne e gli artigli delle tigri sono gli strumenti che la volontà usa nella tigre per esistere. E questa stessa volontà si manifesta diversamente a seconda dell’individuo in questione: nell’uomo, ad esempio, si manifesta nelle facoltà razionali, per cui ragione e intelletto sono gli strumenti da essa adottati per esistere. Il che significa che la natura profonda della realtà ò una volontà priva di ragione e di scopi razionali ma che per poter sopravvivere, nell’uomo, si dota della razionalità . Da questa riflessione scaturisce un’altra importante considerazione: dal momento che solo razionalmente ci si possono porre degli obiettivi (ed ò così appunto che la volontà si struttura nell’uomo), ne consegue che la volontà , irrazionale e quindi priva di obiettivi, non può mai essere soddisfatta, e si configura pertanto come un continuo tentativo di affermarsi, tentativo presente anche nell’uomo, il quale si pone degli obiettivi razionali ma, non appena li realizza, ò preso dal desiderio di realizzarne di nuovi, quasi come se dietro questi obiettivi razionali si camuffasse la volontà irrazionale. E le riflessioni di Schopenhauer vengono a incrociarsi con quelle del suo contemporaneo Leopardi: per entrambi la vita umana (in Leopardi) e la vita universale (in Schopenhauer) ò una continua altalena fra la noia e il dolore; finchò non si ò raggiunto l’obiettivo desiderato si soffre, quando lo si ò raggiunto ci si annoia e ci si pone pertanto dei nuovi obiettivi. Occorre però fare una precisazione, poichò altrimenti non si spiega come la volontà sia una ma l’intelletto la veda molteplice: dobbiamo tener presente che l’intelletto stesso ò, come ogni altra cosa, una manifestazione della volontà ed ò, più precisamente, la volontà che grazie ad esso si illude, quasi come se vivesse uno sdoppiamento di personalità . In altri termini, il fatto che l’intelletto frammenti la volontà fa sì che, in un certo senso, la volontà sia per davvero frammentata e finisca per riconoscersi solo nelle sue manifestazioni, quasi come se si scordasse di essere un tutto; ne consegue che ciascuna manifestazione della volontà , non riuscendo a capire di essere solo una parte della volontà stessa, riconosce solo se stessa come volontà , mentre vede tutte le altre cose come strumenti per sopravvivere, non come altre manifestazioni della stessa volontà . La volontà , infatti, cerca di esistere in ogni singola manifestazione (dall’uomo alla pietra) e per vivere la volontà , ingannata dall’intelletto, lo fa a danno di tutte le altre manifestazioni, cosicchò ogni manifestazione danneggia le altre per il solo fatto di essere venuta al mondo; infatti, per affermarsi, ogni ente lotta e aggredisce tutti gli altri ( ” gli amici si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici “) Da qui scaturisce il pessimismo schopenhaueriano, che affonda le sue radici nell’idea che la volontà ò profondamente sofferente (e questo vuol dire che l’intero universo ò sofferente) poichò non ha un obiettivo e si manifesta in tanti modi diversi che altro non sono se non illusioni. Si potrebbe uscire dalla condizione di dolore se si pensasse che la volontà ò insita solo negli uomini e negli animali: basterebbe essere vegetariani; ma, poichò la volontà investe ogni realtà , anche chi mangia solo ortaggi ò in lotta con la volontà . Ecco dunque che diventa drammaticamente cosmica quella guerra di tutti contro tutti prospettata da Hobbes: il mondo ò una lotta di tutto contro tutto, e la vita stessa di un uomo ò una specie di lotta per tenere insieme tutti i “pezzi”. Si può dunque affermare che la volontà ò cannibalica, poichò anche il leone che mangia la gazzella, in realtà , essendo una sola la volontà , sta mordendo se stesso. Nemmeno con il suicidio si può uscire da questa situazione di dolore: eliminare noi stessi come manifestazione della volontà altro non ò se non ritornare alla volontà , sicchò il suicidio non ò una rinuncia alla volontà , ma ne ò anzi un’affermazione più potente. Chi si suicida, infatti, lo fa perchò ò come se volesse qualcosa di diverso. In virtù di queste considerazioni, Schopenhauer può credere alla metempsicosi: ogni volta che si muore, subito si rinasce e la rinascita ò una condanna, giacchò la cosa migliore sarebbe poter uscire dal circolo della volontà . La via d’uscita da questa situazione, dice Schopenhauer, consiste in un percorso di conoscenza che mi faccia capire che ciò che mi sembra altro rispetto a me in realtà non lo ò; in fin dei conti, già quando tiro fuori di tasca una moneta per aiutare un bisognoso ò come se provassi un senso di compassione, ò come se capissi che chi soffre non ò radicalmente diverso da me. Ecco perchò c’ò stato chi ha sostenuto che il discorso di Schopenhauer ò una “Gnosi moderna”, poichò la salvezza deriva da una conoscenza dell’identità tra noi e tutto il resto. In altre parole, per Schopenhauer, se il mondo ò un inferno in cui ciascuno ò diavolo e dannato, ovvero soffre e fa soffrire, allora bisogna acquisire la convinzione dell’unità del tutto, presente nelle pratiche dei monaci buddhisti: essi, infatti, mettono gli uomini di fronte agli oggetti e li invitano a ripetere “questo sono io”. Sempre mutuando riflessioni dal buddhismo, Schopenhauer dice che tre sono le cose da conoscere: 1) la sofferenza, 2) la causa della sofferenza, 3) le vie per uscirne. Egli afferma che l’umanità ò esteticamente una serie di caricature, gnoseologicamente una banda di cretini e moralmente una banda di delinquenti. Dopo aver tratteggiato la sofferenza e le sue cause, resta ora da descrivere la via per uscirne: non può essere il suicidio, nò il vegetarianesimo e neanche la politica. Quest’ultima, infatti, non si occupa della condizione umana nello specifico, ma cerca solo di dare momentanei sollievi ed ò per questo accostata da Schopenhauer alla Firenze di Dante, che, alla stregua di un malato sdraiato nel letto, cerca sollievo nel cambiar posizione: “… vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in sulle piume, / ma con dar volta suo dolore scherma ” (Purgatorio, canto VI). Così si spiega perchò Schopenhauer non nutrì mai grandi interessi per la politica (collocandosi però su posizioni conservatrici) e guardò sempre con sospetto il movimento socialista che stava allora nascendo. A questo punto si entra nel terzo libro del Mondo, in cui si delinea una nuova forma di rappresentazione del mondo: l’estetica. Schopenhauer risulta, in quest’ambito, particolarmente influenzato dal pensiero di Platone e dalla sua dottrina delle idee. L’esperienza estetica, infatti, nasce, secondo Schopenhauer, da una contemplazione delle idee che ciascuno di noi può avere, sicchò l’artista come l’uomo comune possono ugualmente contemplare l’idea del bello, che (come aveva sottolineato Platone) tende a filtrare più di tutte nel mondo sensibile, con la differenza quantitativa, però, che l’artista riesce a restare in tale contemplazione per più tempo. L’esperienza artistica ò, infatti, momentanea, si protrae per pochissimo tempo e l’abilità dell’artista sta proprio nel farla durare più a lungo, in modo tale da poter fissare in termini sensibili l’oggetto di tale breve contemplazione: l’artista, dunque, con l’opera d’arte rende tutti gli uomini partecipi della sua contemplazione extrasensibile e li facilita a provare anch’essi tale esperienza. Ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso, dal momento che da un lato Platone condannava l’arte e dall’altro lato in molti (tra cui Schopenhauer) si sono artisticamente ispirati a lui: il problema si risolve facilmente se teniamo conto delle modifiche apportate alla dottrina platonica da Plotino e dai suoi successori. Il limite dell’arte, secondo Platone, risiedeva nel fatto che essa non ò imitazione dell’idea, ma del mondo sensibile (che dell’idea ò pallida copia), cosicchò l’opera d’arte ò copia di una copia; ma in realtà , ò stato obiettato (da Hegel in primis), nell’opera d’arte si cala sensibilmente l’idea e non il mondo sensibile, non si imita cioò ciò che empiricamente ci sta di fronte, ma l’idea stessa di ciò che ci sta di fronte, per cui si scavalca definitivamente la sensibilità : ecco perchò per Hegel l’arte era rappresentazione sensibile dello Spirito. In effetti, una sorta di paradosso era già insito nella filosofia di Platone: egli infatti condannava l’arte e poi, soprattutto nel Fedro e nel Simposio, sottolineava come l’esperienza del bello fosse una specie di scorciatoia per giungere al mondo delle idee. Schopenhauer, dal canto suo, concepisce l’opera d’arte come rappresentazione dell’idea e non del mondo sensibile, accostandosi in questo modo ad Hegel e distanziandosi da Platone: resta ora da capire che cosa si debba intendere per “idea”. Come abbiamo appreso, la realtà profonda ò volontà e ciò che ci circonda ne ò una manifestazione illusoria; e questa concezione schopenhaueriana secondo la quale, accanto ad una realtà profonda tendenzialmente unitaria, vi sia una realtà molteplice ed illusoria sa molto di platonico, pur essendo negativo il principio posto al vertice. Tuttavia, se per Platone la realtà era una piramide al cui vertice stava l’idea del Bene e più si scendeva e più la realtà tendeva a frantumarsi, per Scopenhauer, invece, al vertice della realtà c’ò la volontà unitaria, alla base c’ò la moltiplicazione indefinita e illusoria della volontà e a metà strada c’ò una moltiplicazione parziale costituita dal mondo delle idee: infatti, a distinguere l’unica idea di cavallo dalla miriade di cavalli sensibili ò che solo questi ultimi sono concretamente calati nello spazio, nel tempo e nei rapporti di causalità : ovvero, detto un pò banalmente, i cavalli sensibili sono tanti (mentre l’idea di cavallo ò una) perchò esistono in tempi diversi, in luoghi diversi e in rapporti causali diversi. In altri termini, la volontà si oggettiva su due livelli differenti: ad un primo livello si oggettiva nelle idee (che Schopenhauer definisce ” oggettità “), nel secondo livello si oggettiva nel mondo sensibile. Il discorso schopenhaueriano ò talmente affine a quello platonico da farci presagire che, in fin dei conti, la volontà non può essere così malvagia intrinsecamente; più nello specifico, poi, ci aiuta a capire perchò l’esperienza estetica sia un primo modo per sfuggire al dominio della volontà e della sua sofferenza. L’esperienza estetica, infatti, diceva Kant, ò caratterizzata dal fatto di essere disinteressata, per cui se vediamo una rappresentazione estetica del cibo possiamo provarne un piacere disinteressato, ovvero non legato al fatto che il cibo esista effettivamente e io possa nutrirmene. Schopenhauer concorda con Kant sul fatto che sia disinteressato, ma reinterpreta il tutto con categorie platoniche: quando contemplo il cibo nella misura in cui posso nutrirmene, bado all’esistenza effettiva del cibo stesso, ovvero contemplo la cosa empirica; quando invece contemplo il cibo in sò, indipendentemente dal fatto che essa esista e possa soddisfare il mio appetito, contemplo platonicamente l’idea. Ne consegue che nel secondo caso per Schopenhauer il piacere estetico ò disinteressato perchò contemplo la cosa non nella sua esistenza, ma nella sua idealità , fuori dal tempo, dallo spazio e dai legami di causalità . E il cibo “empirico”, invece, posso mangiarlo proprio perchò ò calato in essi e solo di esso posso avere un desiderio, una volontà , ovvero un piacere interessato. Con le idee, dunque, ci si limita a contemplare e a provare piacere in modo disinteressato: e, nota Schopenhauer, il rapporto interessato col mondo non fa altro che generare di continuo desiderio e volontà , calandoci in continuazione nel ciclo della sofferenza (volere di continuo e senza scopo) da cui non si può uscire orientando la volontà su una cosa anzichò su un’altra o suicidandosi. L’unica cosa da fare per uscirne ò annullare la volontà , ovvero trasformarla in nolontà (volontà capovolta) e per far ciò occorre trasformare quelle cose che ci fanno muovere come oggetti di desiderio (i “motivi”) in “quietivi”: tali quietivi servono appunto ad annullare la volontà e uno di essi ò l’esperienza artistica, che ci consente di guardare alle cose non come a oggetti di volontà , ma ci fa diventare un primo “occhio sul mondo”, ci fa cioò assumere un atteggiamento puramente contemplativo e sganciato dalla volontà ; l’arte, infatti, mi fa guardare la realtà nella sua dimensione ideale e dunque non usufruibile. Ecco perchò ò un quietivo che mi fa uscire dal desiderio e dalla volontà . Il grande limite dell’esperienza estetica, però, ò di durare per troppo poco tempo, poichò l’uomo ò pur sempre immerso nel mondo della volontà : dopo aver visto per breve tempo le cose in modo ideale e disinteressato, si ò costretti a ritornare a vederle in modo interessato ed empirico. E’ curioso il fatto che l’opera d’arte preferita da Schopenhauer sia la tragedia: e non a caso la prima opera del giovane Nietzsche, seguace per un pò di Schopenhauer, sarà proprio L’origine della tragedia. La seconda via per uscire dal circolo di sofferenza della volontà ò data dalla morale: di per sò, ogni singola manifestazione individuale della volontà tende a riconoscere se stessa come unica e legittima espressione della volontà , vedendo erroneamente tutto il resto come mero strumento di cui servirsi. Ma non tutta la realtà funziona così: l’uomo, infatti, si distingue per essere in grado di rendersi conto, più o meno consciamente, che al di là di lui stesso esiste qualcosa di simile a lui. In altri termini, nessun uomo si comporta come fa il leone con la gazzella, trattando cioò gli altri come semplici oggetti, ma, al contrario, se può aiutare gli altri con un piccolo gesto non esita a farlo. Ed ò proprio con l’esperienza morale che comincia a manifestarsi embrionalmente il “questo sei tu” dei monaci buddhisti, ovvero la coscienza che gli altri non sono radicalmente altra cosa rispetto a noi (questo ò il messaggio cristiano delle origini, sostiene Schopenhauer). Affiora dunque il discorso kantiano secondo cui non bisogna mai trattare il prossimo come semplice strumento, ma anche sempre come fine in se stesso, senza fare agli altri ciò che non vorremmo che fosse fatto a noi. L’esperienza morale può, in altri termini, essere letta come presentimento che siamo tutti la stessa cosa e da cui scaturisce un rispetto che si manifesta a vari livelli, primo dei quali ò il diritto. Esso mi impone di non nuocere agli altri e pertanto si configura, agli occhi di Schopenhauer, come una morale passiva, che non dice cosa fare ma cosa non fare (nuocere agli altri); e dando ragione ad Hobbes, egli può affermare che la società civile ò solamente una forma di “egoismo intelligente”, privo di morale, in quanto non si dice che ò un male uccidere agli altri, ma semplicemente ciascuno si accorge che non gli conviene vivere nel selvaggio stato di natura e così ci si raggruppa nella società civile. Se il diritto impone di non nuocere agli altri, la morale, invece, comanda di venire in aiuto agli altri: ma in Schopenhauer sulla morale prevale la compassione, ossia la sofferenza insieme agli altri. La cosa fondamentale, infatti, non ò di aiutare gli altri, ma di soffrire insieme a loro, cosa che in apparenza risulta totalmente passiva e negativa. In realtà , nella compassione si capisce che colui con cui soffro insieme non ò altra cosa rispetto a me; il cristianesimo stesso, dice Schopenhauer (in modo scorretto), ò una forma di compassione che non prevede l’aiuto per il prossimo. Ecco dunque che per Schopenhauer la morale si configura come compassione poichò il limite della morale in quanto tale ò che, anche aiutando gli altri, non si riesce ad annullare la volontà e la sofferenza che ne deriva; si tratta pertanto di rintracciare una terza e più efficace via per uscire dal dolore. L’arte ò troppo breve, la morale, pur essendo più intensa e duratura, non riesce a superare il problema, anche se mi fa capire che gli altri sono come me e che dunque la loro sofferenza ò anche la mia. In altri termini, con l’esperienza artistica pervengo alla radice del problema, con la morale comprendo che siam tutti la stessa cosa e che dunque il problema non ò di aiutarci ma di annullare in tutti la volontà , cosa di cui però la morale si rivela incapace, pur essendo anch’essa un quietivo: l’annullamento della morale a cui porta l’arte ò momentaneo, quello a cui porta la morale ò parziale. E l’obiettivo a cui si deve pervenire ò proprio l’annullamento della volontà , ovvero il suo capovolgimento in nolontà : ma come si può realizzare ciò? Schopenhauer ne dà un’approfondita spiegazione nel quarto libro del Mondo: solo nell’uomo si può attuare il capovolgimento della volontà in nolontà e questo per un motivo molto semplice, dice Schopenhauer. Infatti, solo l’uomo ò provvisto della ragione, ma essa ò solo un aspetto marginale della vita umana (tema che verrà approfondito da Freud), poichò ò un puro e semplice strumento di cui la volontà si avvale per affermarsi. Tuttavia, la ragione, il cui obiettivo consiste appunto nel far sì che la volontà possa affermarsi, non può essere relegata ad un solo obiettivo e tende anzi ad investirne il maggior numero possibile, proprio alla stregua della radio, per esempio, che, nata per realizzare obiettivi militari, si ò poi estesa al soddisfacimento di bisogni dell’intera società . E così la ragione, nata come strumento in mano alla volontà , si ò allargata ad una più ampia sfera di obiettivi e realizzazioni, delle quali le più raffinate sono la scienza e, soprattutto, la filosofia, superiore perchò legata, in una certa misura, all’arte (e tra le forme artistiche spicca la musica, che, col suo carattere fluido, non coglie l’idea, ma la volontà stessa: e Schopenhauer ha soprattutto in mente il don Giovanni di Mozart, caro anche a Kierkegaard). Ne consegue che la ragione ci fa conoscere cose che vanno al di là dell’obiettivo per cui essa era nata in origine e, addirittura, può consentire alla volontà di capovolgersi in nolontà . Infatti quella volontà che tende sempre ad affermarsi aumentando in tal modo la propria sofferenza, con questo proposito si dà come strumento la ragione, la quale però, se ben impiegata, porta l’uomo a comprendere le tre cose fondamentali (1 sofferenza, 2 cause della sofferenza, 3 vie per uscirne): in altre parole, la ragione fa capire alla volontà che l’unica via da intraprendere ò di decidere di uscire dalla volontà , diventando un puro “occhio sul mondo” (che vede tutto in modo distaccato, senza essere coinvolto), e decidendo di non stare più al gioco ma uscirne (cessando così il circolo vizioso per cui continuava ad affermarsi in tutti i modi). Ma per annullarsi, essa non può ricorrere al suicidio (equivarrebbe ad abbandonarsi ad un’altra forma di volontà ), alla politica (cambia le cose solo in modo provvisorio e superficiale) o al vegetarianesimo (mangiando gli ortaggi non si esce dal cannibalismo della volontà ): l’unica via possibile ò allora quella dell’ ascesi, ovvero del progressivo annullamento in sò della volontà che nasce dalla convinzione di essere uno col tutto; e se annullo in me la volontà , la annullo anche in tutti gli altri, visto che ò una sola. In questa prospettiva, Schopenhauer ha in mente il mondo orientale dell’ascetismo, che vince la volontà di bere e di mangiare, mortificando così la carne e producendo un progressivo annullamento della volontà (la quale si capovolge in nolontà ); lo stesso impulso sessuale viene da Schopenhauer condannato come delitto in quanto mette al mondo nuovi individui destinati a soffrire. Ma distruggendo la volontà di bere e di mangiare, come fanno gli ascetici, si arriva ad una sorta di lento suicidio e Schopenhauer, come abbiamo visto, condanna questa pratica. Però bisogna tener presente che se il suicidio in senso classico non ò una soluzione per uscire dal dolore (e quindi Schopenhauer lo condanna), il suicidio ascetico ò diverso, in quanto altro non ò se non il traguardo di quel processo di ascesi che annulla gradualmente la volontà e le stesse funzioni vitali (tale suicidio ò dunque accettabile perchò riesce ad annullare e a far estinguere la volontà ). Schopenhauer nota però amaramente che l’annullamento della volontà non ò ancora stato raggiunto da nessun uomo (sebbene i mistici ci siano andati vicini), altrimenti il mondo non esisterebbe più: infatti, annullare la volontà significa annullare il mondo, che di essa ò rappresentazione fenomenica (e senza la “cosa in sò” non può nemmeno esserci il fenomeno). Come meta dell’annullamento della volontà si può pervenire ad una sorta di Nirvana, ossia al raggiungimento del nulla: ma Schopenhauer critica aspramente il Nirvana prospettato dai Buddhisti, in quanto, regalando una specie di beatitudine paradisiaca, sembra essere eccessivamente positivo. Il nulla così come lo intende Schopenhauer non vuol essere un paradiso, ma piuttosto un puro e semplice annullamento di questo mondo, senza con questo voler dire che tale annullamento coincida con il “nulla” come generalmente lo si concepisce: non si può infatti dire (non essendo ancora stato raggiunto) che tipo di nulla sarà quello successivo all’annullamento della volontà . E così Schopenhauer conclude il Mondo: ” lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà ò il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si ò convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, ò il nulla “; come a dire che per chi ò ancora nel circolo della volontà , la nolontà ò il nulla; per chi invece la capovolgerà in nolontà , il mondo ò il nulla. E’ ora bene spendere qualche parola sul pessimismo che informa la filosofia leopardiana: che la tesi pessimista sia difficile da sostenere se n’erano già accorti, ad esempio, Agostino e i Neoplatonici, che si erano visti costretti a concepire il male come una pura e semplice assenza di bene. E infatti quando si finisce per dire che tutto ò male, in qualche modo lo si fa in riferimento ad un qualcosa di opposto che ò il bene. Questo emerge benissimo nella chiusura del Mondo, in cui Schopenhauer, dopo aver sostanzialmente dichiarato che tutto ò male, apre un tenue spiraglio asserendo che tutto ò male dal punto di vista in cui ci troviamo noi, ma ciò che per noi ò il nulla, non ò detto che nella realtà sia il nulla in assoluto: forse potrebbe esserci una dimensione positiva. Tutto ciò può essere d’aiuto per impostare un paragone con l’altro grande pessimista di quegli anni, Leopardi: se Schopenhauer ha una concezione profondamente metafisica della realtà , il poeta e filosofo marchigiano, invece, ha una concezione radicalmente meccanicistica. Questa differenza fa sì che per Schopenhauer il mondo ò male, per Leopardi ò la nostra condizione ad essere malvagia, non il mondo: esso, di per sò, ò del tutto indifferente all’uomo e alle sue sorti, come si evince benissimo, ad esempio, nel Bruto minore, dove Leopardi immagina che Bruto, unico sopravvissuto al massacro della battaglia di Filippi, volga gli occhi in cielo e scorga la luna, nò benigna nò avversa all’uomo e alle sue disgrazie. Dunque, per Schopenhauer esiste una volontà maligna, per Leopardi il male non esiste o, meglio, esiste solo la tragicità dell’esistenza, tesi con la quale anticipa l’esistenzialismo e la sua tesi centrale secondo cui l’uomo ò gettato nel mondo. Si può notare come Leopardi sia molto più pessimista di Schopenhauer, in quanto, nella misura in cui si concepisce una volontà maligna imperante nel mondo, si ammette anche una possibilità di capovolgerla, poichò ponendo il male si pone anche concettualmente il bene; Leopardi, invece, ponendo non il male, ma il nulla (tipico anche di Kierkegaard) e l’indifferenza della natura non lascia spazio alcuno al bene. Tuttavia, al di là delle differenze, vi sono anche punti in comune tra i due pensatori: sia Schopenhauer sia Leopardi sono convinti che il dolore aumenti con la consapevolezza (per cui l’uomo soffre più degli animali perchò sa già che dovrà morire) e che la vita sia un ondeggiare continuo tra il dolore e la noia. Ma Leopardi non dà quelle speranze che invece prospetta Schopenhauer: per quest’ultimo la compassione ò un primo passo verso la salvezza, per il poeta marchigiano ò un puro e semplice aiuto per meglio sopportare la sofferenza.
- 1800
- Filosofia - 1800