Breve introduzione al pensiero Richard Mervyn Hare (1919-2001), autore di ” Il linguaggio della morale ” (1952), ” Libertà e ragione ” (1963) e ” Il pensiero morale ” (1981), si ò soprattutto posto il problema del significato e della razionalità del discorso morale. Secondo Hare, ò necessario porsi il problema del significato delle nozioni morali, se non ci si vuole affidare solamente all’intuizione, che ò meramente soggettiva; solo elaborando una teoria del significato dell’etica ò possibile evitare il relativismo e sfuggire all’ammissione di una equivalenza tra tutti i discorsi etici. Ciò può avvenire non affrontando direttamente questioni normative, cioò che cosa ò bene o che cosa ò male, ma investigando sulle forme specifiche del discorso morale: il compito di quest’indagine appartiene ad una disciplina, chiamata meta-etica. Il linguaggio della morale, secondo Hare, ò costituito da “proposizioni prescrittive” o “imperativi”, ovvero proposizioni che comandano ciò che si deve o non si deve fare. Infatti, valutare un’azione come buona o cattiva equivale a prescrivere che essa sia o non sia eseguita. Gli imperativi si distinguono dalle “proposizioni descrittive”, le quali descrivono uno stato di cose e sono suscettibili di essere vere o false. Essi, tuttavia, accanto ad un elemento propriamente prescrittivo, detto “neustico” (dal greco neuein, “inclinare”), contengono un elemento che appartiene anche al linguaggio descrittivo, ed ò detto “frastico” (dal greco frazein, “dichiarare”). Per esempio, l’imperativo “chiudi la porta!”, il quale non ò nè vero nè falso, ha in comune con la proposizione descrittiva “stai chiudendo la porta” l’elemento frastico, “chiudere la porta”. Hare condivide la cosiddetta “legge di Hume”, secondo cui il dovere non può essere dedotto dall’essere, ovvero, da premesse descrittive non ò possibile dedurre logicamente conclusioni imperative, che prescrivano ciò che si deve o non si deve fare. All”biezione che la meta-etica, limitandosi a descrivere le proprietà del linguaggio morale, lascia in realtà le cose come stanno, Hare risponde mostrando che le proposizioni morali implicano un principio di “universalizzabilità “: chi enuncia una proposizione prescrittiva, infatti, se non vuole contraddirsi, la farà prevalere per tutti coloro che si trovano nella situazione prevista dall’imperativo. In questo senso, la scelta dell’azione non ò abbandonata solamente all’intuizione o alle emozioni meramente individuali, ma può essere fondata su argomentazioni che si richiamano esplicitamente a questo principio. In base a questa premessa, Hare può ripescare all’interno della meta-etica anche l’ “etica normativa”, che investiga su che cosa si debba o non si debba fare, in particolare l’etica dell’utilitarismo, in netta ripresa negli anni del dopoguerra in Inghilterra, e dalla quale Hare riprende la nozione di “preferenza”. L’impegno proprio del discorso morale di esprimere prescrizioni universalizzabili impone che si tenga conto delle preferenze di tutte le altre persone coinvolte nei casi in esame, senza stabilire differenze pregiudiziali fra tali preferenze, in modo da massimizzare le preferenze di tutti. Se ò favorevole a una ripresa dell’utilitarismo, Hare ò invece radicalmente contrario al “neocontrattualismo”, che ai suoi occhi ha il difetto di ripiombare nell’intuizionismo, ossia di fondarsi su concetti non adeguatamente definiti; ò significativo, a suo avviso, che due autori che si richiamano entrambi al contrattualismo, come Rawls e Nozick, pervengano a conclusioni diametralmente opposte tra loro. Vita, opere e pensiero Richard Mervyn Hare ò nato il 21 marzo 1919 a Blackwell. Studiò alla Rugby School ed al Balliol College di Oxford. Durante la seconda guerra mondiale fu arruolato nel 1940 nella Royal Artillery, fu tenente dell’Indian Mounted Artillery nel 1941 e prigioniero di guerra a Singapore e lungo la Burma-Thailand Railway dal 1942 al 1945. Sposò, nel 1947, Catherine Verney, dalla quale ebbe quattro figli. Ha svolto presso l’Università di Oxford i seguenti incarichi: Fellow e Tutor in filosofia al Balliol College; Lecturer in filosofia; Wilde Lecturer in Natural and Comparative Religion; White Professor in filosofia morale e Fellow del Corpus Christi College. E’ stato poi Graduate Research Professor di filosofia all’Università della Florida. E’ stato membro de: National Road Safety Advisory Council; Church of England Working Parties on Ethical Questions; Church of England Board for Social Responsibility; Presidente della Aristotelian Society. All’età di 82 anni si ò spento ad Oxford. Il pensiero di Hare viene solitamente suddiviso in due fasi: una prima costituita dalla teoria metaetica del prescrittivismo universale e una seconda caratterizzata, invece, dal predominare dell’ interesse etico-normativo e improntata all’elaborazione prima e alla difesa poi di un particolare tipo di utilitarismo dell’atto. Si ò molto discusso in merito a tale suddivisione: sono due momenti distinti ed eventualmente in contraddizione o vanno visti come due fasi collegate e senza soluzione di continuità ? La posta in gioco ò alta: ne va della coerenza del pensiero di Hare, ma vengono anche messi o, meglio, rimessi in discussioni temi fondamentali come la possibilità di qualsivoglia rapporto tra la metaetica, l’etica normativa e l’etica applicata o come la legittimità della cosiddetta ‘terza via in etica’ (di cui Hare si fa sostenitore) in contrapposizione all’emotivismo e al naturalismo. Cerchiamo di analizzare nel modo più obiettivo possibile alcune metodologie e alcuni concetti propri del pensiero di Hare tentando di capire che ruolo rivestano all’interno del suo pensiero. IL PRESCRITTIVISMO UNIVERSALE: IL METODO CRITICO-RAZIONALE: la costante più importante di tutta la produzione hareana rimane il metodo analitico di rilevare, discutere e, possibilmente, risolvere i problemi. ” Sorprendentemente, molti filosofi, appena si dedicano a una questione pratica, dimenticano tutto del loro sapere specifico e ritengono che i problemi della piazza del mercato possano essere risolti soltanto dai metodi della piazza del mercato, vale a dire da una combinazione di pregiudizio (chiamato intuizionismo) e retorica. Il contributo di ogni filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide ” (Moral thinking: its level, method and point). Al di là dei termini coloriti e simpatici che caratterizzano molte delle pagine di Hare, va sottolineato un punto fondamentale: egli adotta il metodo proprio della filosofia analitica del linguaggio applicandolo al linguaggio morale, e tentando di scoprire il ‘significato’, le proprietà logiche fondamentali che regolano i termini propri di tale linguaggio (‘buono’, ‘dovere’, giusto’â¦). LA PRESCRITTIVITà: Hare afferma: ” la prescrittività dei giudizi morali può essere descritta formalmente come la proprietà di comportare almeno un imperativo [â¦]. Formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò che diciamo e non fa A in S, ò logicamente necessario che l’assenso di P sia insincero ” (Moral thinking: its level, method and point). Una proprietà formale, dunque. Il primo dei due poli del prescrittivismo universale risulta così essere un elemento squisitamente legato alla filosofia analitica del linguaggio, e specificamente del linguaggio morale che viene, così, assimilato ad una sorta di linguaggio prescrittivo. Ciò testimonia innanzitutto l’importanza attribuita a tutti quegli aspetti logici e di significato dei termini morali che costituiscono il contesto filosofico all’interno del quale Hare si muove soprattutto nei primi anni della sua carriera.; in secondo luogo ò indice del tentativo di percorrere la ‘terza via in etica’, distaccandosi parimenti dall’ “emotivismo” (per il quale le nozioni etiche sarebbero delle realtà oscure e soggettive, tranquillamente rimpiazzabili da un particolare tono di voce o da alcuni punti esclamativi) e dal “naturalismo” (che vedrebbe, invece, nelle nozioni etiche delle realtà con proprietà assolutamente riconducibili alle proprietà delle realtà naturali). L’UNIVERSALIZZABILITà: tra le varie spiegazioni dell’universalizzabilità , Hare propone la seguente come la più completa: ” ò contraddittorio dare giudizi morali diversi su situazioni di cui ammettiamo l’identità per quanto riguarda le loro proprietà descrittive universali. Per giudizi ‘diversi’ intendo ‘tali che, se fossero riferiti alla medesima situazione, sarebbero reciprocamente incompatibili’ ” (Moral thinking: its level, method and point). Ancora una volta il confronto con il contesto filosofico nel quale Hare si muove risulta assolutamente necessario e funzionale alla comprensione del suo stesso pensiero. Egli riconosce che nei giudizi etici nei quali compaiono termini morali (ad esempio ‘buono’) ò presente una componente descrittivistica che permette di collegare, in modo variabile, tali termini a criteri diversi; questa mutevolezza ò determinata dalla diversità delle classi di oggetti giudicate. Quando diciamo che una mela ò ‘buona’ abbiamo in mente qualità del tutto diverse rispetto a quando diciamo che questa ò una ‘buona’ esecuzione della quinta sinfonia di Beethoven; cambiano i criteri del nostro giudizio, rimane invariata l’intenzione di lodare ed eventualmente raccomandare ciò che abbiamo giudicato ‘buono’. Facendo così proprie alcune istanze del “descrittivismo”, Hare torna ad attaccare i suoi due nemici principali: al contrario di quanto afferma l’emotivismo i nostri giudizi morali non sono immotivati, non esprimono soltanto un nostro stato d’animo ma sono il risultato di un processo razionale volto al reperimento, nell’oggetto giudicato, di alcuni criteri che giustificano il giudizio stesso; il fatto che il significato descrittivo di un termine possa legittimamente variare permette di svincolare un termine morale (il ‘buono’ dell’esempio) da un insieme fisso e immutabile di proprietà cui il naturalismo lo vorrebbe invariabilmente collegato. Dopo aver esaminato questi primi tre elementi, ò necessario fare alcune considerazioni. Sia la prescrittività sia l’universalizzabilità (che confluiscono nella dottrina da Hare stessa chiamata “prescrittivismo universale”), sia il metodo critico-razionale (caratteristico dell’ambito analitico all’interno del quale Hare prende le mosse) sono elementi formali, metaetica, analitici. à però possibile e doveroso evidenziare il legame che unisce questi elementi ad altri aspetti decisamente meno metaetici e più normativi. In altri termini ò Hare stesso a mettere in risalto i punti di unione tra le due fasi del proprio pensiero. Iniziamo da alcune considerazioni metodologiche. Se ò vero che il metodo analitico ò una costante, ò però anche vero che la facoltà di chiarire i concetti morali mediante l’analisi delle loro proprietà logiche non ò, da sola, sufficiente allorchè lo scopo delle proprie riflessioni sia l’elaborazione di una dottrina normativa e non solo un tipo di pensiero rigorosamente metaetico. ” La razionalità ò una qualità del pensiero diretto a rispondere alle questioni, e la determinazione di quali procedure siano razionali dipenderà da quali sono le questioni. Se tentiamo di rispondere a questioni fattuali, ò ovvio che la razionalità ci obbliga ad accertare i fatti, proprio perchè le questioni sono fattuali. Dobbiamo quindi chiederci perchè occorra fare lo stesso quando rispondiamo a questioni morali, le quali non sono interamente fattuali, ma hanno una componente prescrittiva ” (Moral thinking: its level, method and point). Il passaggio da questioni metodologiche a questioni sostanziali viene da sè. La ‘sostanza’ che Hare prende in considerazione ò costituita dalla “preferenze”. Queste sono strettamente collegate, identificate quasi, con le prescrizioni. ” Il requisito di universalizzare le nostre prescrizioni, il quale a sua volta ò un requisito logico, posto che ragioniamo moralmente, ci chiede di trattare le prescrizioni degli altri (vale a dire, i loro desideri e predilezioni, e in generale le loro preferenze) come se fossero le nostre ” (Moral thinking: its level, method and point). Vale la pena di fare un breve accenno alla componente descrittivistica delle prescrizioni di cui si diceva più su. Quando si esprime un giudizio morale si esprime un giudizio prescrittivo arricchito da un elemento descrittivo che permette, come s’ò visto, di collegare i termini morali (buono) a criteri diversi a seconda delle classi d’oggetti che vengono giudicate (la mela piuttosto che la quinta sinfonia di Beethoven). Preferenze ed elementi descrittivi richiedono e ad un tempo giustificano la commistione di forma e sostanza, di metaetica ed etica normativa propria del pensiero di Hare. A fare da sfondo a metodi e sostanze il centralissimo concetto dell’universalizzabilità , che permea di sè il pensiero di Hare conferendogli coerenza ed eleganza. Anticipando alcune nozioni che verranno illustrate in seguito, pare possibile tracciare una sorta di planimetria del pensiero di Hare. Vi sono due piani nettamente distinti (seppur non radicalmente separati) costituiti dall’approccio metaetico e normativo alla filosofia morale. All’interno di ciascuno di essi, poi, sembra riscontrabile un’ulteriore duplice divisione: una forma (le nozioni di prescrittività ed universalizzabilità ) e un elemento assimilabile ad un contenuto (le preferenze) per la parte metaetica; una forma (l’universalizzabilità dei princìpi) e un elemento decisamente contenutistico (i fatti attinenti al mondo) per la parte normativa. Lâutilitarismo dellâ atto Prima di esaminare nel dettaglio la dottrina utilitaristica di Hare, ò necessario soffermarsi brevemente sul contesto filosofico entro il quale egli opera, passando in rassegna alcuni tratti tipici dell’utilitarismo con i quali si trova a dover fare i conti nel momento dell’elaborazione della propria teoria normativa. LA RIDUZIONE: ” la riduzione ò l’artificio di considerare tutti gli interessi, ideali, aspirazioni e decisioni sullo stesso piano, e tutti rappresentabili come preferenze, forse di diverso grado di intensità , ma per il resto da trattare nello stesso modo “. Costante indispensabile di tutte le teorie utilitaristiche, la riduzione non ò che il primo di tre importanti artifici dei quali l’utilitarismo si avvale per appianare, raffinare e localizzare il campo dal quale attingere i propri elementi sostanziali. Essa assume un’importanza fondamentale soprattutto nel contesto di quelle forme di utilitarismo che propongono come principio di utilità la massimizzazione dei benefici e la riduzione dei danni o a prevenire danno, dolore, male o infelicità alla parte il cui interesse ò preso in considerazione: e se la parte ò la comunità in generale, allora si tratterà della felicità della comunità “. Nel contesto del pensiero di Hare, la riduzione assume una connotazione del tutto particolare: dall’artificio di considerare e trattare allo stesso modo tutti i desideri e gli interessi, essa diventa il principio di ” attribuire il medesimo valore agli eguali interessi di tutti “. Lasciando da parte benefici e danni, Hare si rifà piuttosto ad una concezione simile alla regola aurea veterotestamentaria (“non fare a nessuno ciò che non piace a te”) e più ancora alla sua formulazione in positivo presente nei Vangeli (“quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti ò la Legge ed i Profeti”). In base a queste premesse, Hare ò in grado di formulare il proprio principio di utilità nei seguenti termini: ” ciò che il principio di utilità mi richiede ò di fare per ogni individuo interessato alle mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano più di un individuo (come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ciò che vorrei, in tutto e per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le loro situazioni (naturalmente, non nello stesso tempo, ma, come dire, in ordine casuale) “. Risulta evidente il legame tra principio di utilità e prescrittivismo universale: il richiamo alla possibilità di occupare casualmente tutte le posizioni delle parti eventualmente interessate dagli effetti della mia azione richiama da vicino la proprietà formale della prescrittività (che prevede la sottoscrizione dell’imperativo singolare rivolto a se stessi ‘fa x’ allorchè si sia enunciato il giudizio morale ‘si deve fare x’) e della universalizzabilità (secondo la quale dalla prescrizione ‘si deve fare x’ discende l’ulteriore prescrizione ‘chiunque, in situazioni simile per gli aspetti rilevanti, deva fera x’). L’IDEALIZZAZIONE: interrogandosi sulla natura dei propri oggetti, lontano dalla tentazione di restringere arbitrariamente il campo di ciò che può dirsi una preferenza (interessi, ideali, aspirazioniâ¦) e parimenti lontano dall’ostinarsi a considerare tali elementi come tutti assolutamente uguali, l’utilitarismo opta per una sorta di diversificazione qualitativa e riconosce di dover prendere in considerazione solo determinate preferenze. L’idealizzazione ò dunque l’artificio che consente di tener conto solo di quelle preferenze che rispondono a determinati requisiti, manipolando la nozione stessa di utilità alla quale si rivolge la scelta di un individuo. Hare si trova a dover affrontare un problema analogo a quello che interessa le teorie utilitaristiche. La componente sostanziale della propria dottrina normativa gli richiede di determinare con esattezza quali siano le preferenze ideali, ovvero quali classi di fatti sia necessario tener presente allorchè si esprime un giudizio morale, e quali siano le modalità per determinare tale classe. La compresenza di elementi prescrittivi e descrittivi nei giudizi morali ha un significato ben preciso: al pari delle asserzioni fattuali, prima di esprimere le quali ò necessario accertare i fatti perchè esse sono una ‘pretesa di verità ‘, anche i giudizi morali necessitano di un simile accertamento sui fatti prima che possano essere pronunciati su di essi; ò evidente che l’analogia tra le asserzioni di fatto e i giudizi morali non si fonda tanto sulla possibilità che questi ultimi possano valere, grazie all’accertamento fattuale, come pretese di verità , quanto, piuttosto, sul richiamo stesso all’attenzione per i fatti: ” anche se i giudizi morali non possono essere chiamati pretese di verità senza ulteriori qualificazioni [â¦], essi sono soggetti ad un analogo requisito di accertare i fatti, prima di pronunciarsi moralmente su di essi. La funzione dei principi morali ò quella di fornire una guida pratica universale per tutte le situazioni di un certo tipi [â¦]. Tutto ciò si dissolverebbe nel nulla se i nostri giudizi morali fossero privi di ogni relazione con i fatti attinenti alle situazioni che stiamo commentando “. Si impone dunque ad Hare la necessità di determinare un criterio per selezionare i fatti a cui prestare attenzione. Attraverso una metodologia propriamente ‘induttiva’ egli giunge alla formulazione dei giudizi di rilevanza: partendo dall’ipotesi che una certa caratteristica situazionale potrebbe essere rilevante si mettono alla prova i principi che menzionano questa caratteristica; se tali principi risulteranno accettabili altrettanto accettabile sarà la caratteristica situazionale e sarà possibile formulare un giudizio di rilevanza. La più ovvia candidata a ricoprire il ruolo di caratteristica situazionale rilevante ò, secondo Hare, la classe dei probabili effetti sortiti da possibili azioni sulle persone (noi stessi e gli altri) che si trovano in certe situazioni. Infine egli ritiene che una conoscenza degli altrui stati d’animo derivanti da determinate azioni sia raggiungibile a partire dalla conoscenza delle mie esperienze presenti e delle relative preferenze. Di ciò si dirà più specificamente in seguito. L’ASTRAZIONE: con questo terzo artificio il discorso si sposta dall’analisi del mondo e dei bisogni in esso contenuti alla ricerca di un luogo più o meno fisico nel quale poter rinvenire informazioni in merito agli elementi sostanziali dell’utilitarismo. I pensatori che si muovono all’interno di questa dottrina sono soliti caratterizzare il luogo di reperimento di queste informazioni come trascendente rispetto al mondo sociale. L’impossibilità di trattare tutte le preferenze allo stesso modo, la necessità di escludere addirittura dal calcolo determinate classi di preferenze (quelle cosiddette “antisociali”) hanno spinto la maggior parte degli utilitaristi a prediligere come luogo di reperimento dell’elemento sostanziale un individuo ideale, provvisto di alcune caratteristiche particolari (ad esempio, un livello altissimo di informazione, una conoscenza arcangelica per usare la terminologia di Hare) che fanno sì che le sue preferenze siano al di sopra di ogni sospetto e di ogni obiezione. Hare si ò servito dei due artifici precedenti per trattare il tema del rapporto tra l’utilitarismo e la società ; si avvale ora dell’astrazione per esaminare il tema dell’individuo. La richiesta della riduzione di fare ciò che vorrei fosse fatto a me ò intimamente collegato alla richiesta dell’idealizzazione di formulare giudizi di rilevanza sulla base della classe di fatti di cui s’ò detto. Tale procedura implica una concezione dell’io secondo la quale sia possibile immedesimarsi il più completamente possibile con le preferenze (ed eventualmente con il dolore) delle persone interessate alle nostre azioni. Emerge subito una profonda divergenza tra Hare e l’utilitarismo: questo, come s’ò detto, tende ad astrarre dalla concretezza e a trascendere l’individuo reale per reperire le proprie informazioni; Hare, all’opposto, ò profondamente attento alla concretezza e ai fatti e ciò non deve stupire se si tiene presente l’ormai noto elemento descrittivo che fa capolino ogniqualvolta si parli di giudizi morali prescrittivi. Se astrazione deve esserci, deve essere dunque limitata al campo delle preferenze, ovvero alla classe di fatti irrinunciabile per qualsiasi argomentazione morale. La concezione dell’io elaborata da Hare rappresenta un contributo fondamentale per comprendere i tre artifici nell’economia del suo pensiero. Egli ritiene che io sia un termine ” non interamente descrittivo, ma in parte prescrittivo ” e spiega: ” identificandomi realmente o ipoteticamente con un’altra persona, io mi identifico con le sue prescrizioni. In termini più chiari pensare alla persona che sta per andare dal dentista come a me stesso significa avere ora la preferenza che egli non soffra come io penso che stia per soffrire. Nella misura in cui io penso si tratti di me stesso, precorro ora la medesima avversione che, secondo me, egli avrà “. La caratteristica prescrittiva del temine io permette di prendere a cuore il soddisfacimento delle preferenze dalla persona con la quale mi immedesimo; permette poi anche di evitare tanto l’altruismo (ovvero l’attribuire alle preferenze altrui un peso maggiore di quello attribuito alle nostre) quanto l’egoismo (ovvero l’attribuire alle nostre preferenze un peso maggiore di quello attribuito alle preferenze altrui). Alla luce di queste considerazioni pare dunque possibile affermare che il dilemma “etica formale o etica sostanziale? ” per il prescrittivismo universale va sicuramente risolto a favore del primo dei due poli, a patto che ciò non porti a trascurare l’importanza che il secondo di essi, con i suoi limiti ma soprattutto con la sua peculiarità , riveste all’interno dell’economia del pensiero di Hare.
- 1900
- Filosofia - 1900