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Richard Rorty

Pensiero e vita.

Vita e opere Fra i pensatori statunitensi più noti e discussi Richard Rorty rappresenta lo studioso che più di ogni altro ha spezzato i legami con la filosofia analitica e con la maniera tradizionale di fare filosofia. Rorty nasce a New York nel 1931. Dopo aver insegnato filosofia a Princeton, ò passato al Dipartimento di discipline letterarie dell’Università  della Virginia. La sua formazione ò avvenuta a Chicago e a Yale, due “bastioni di resistenza”, come dirà  il suo compagno di studi R. Bernstein, alla dilagante egemonia della filosofia analitica. Circostanza che però non esclude il peso di tale filosofia nella formazione di Rorty, ma che, fin dall’inizio, gli ha permesso di muoversi in orizzonti più vasti. Lui stesso dichiarerà  in seguito di dovere molto ad alcuni fra i principali esponenti “eterodossi” della filosofia analitica: W. Sellars, Quine e, in misura minore, Goodman. Altri autori che hanno influito sul suo pensiero sono Kuhn e Davidson. Nel 1901 appare il suo primo articolo pubblicato, ” Pragmatism, Categories and Language “, in cui manifesta interesse per Pierce e introduce ” temi che avrebbero pervaso il suo lavoro: la tradizione pragmatistica americana e il potere terapeutico dell’ultimo Wittgenstein ” (R. Bernstein). Successivamente, partecipa alle discussioni sul rapporto mente-corpo, approdando ad una prospettiva antidualistica, basata sulla tesi, condivisa da Feyerabend, secondo cui ” non ci sono menti, ma soltanto cervelli “. Nel 1967 pubblica un’ampia raccolta di testi della tradizione analitica, nelle sue varie espressioni e correnti. Nell’introduzione, intitolata “Difficoltà  metafilosofiche della filosofia linguistica”, Rorty inizia a prendere le distanze da tale tradizione, esaminando, al tempo stesso, una serie di possibili scenari alternativi per la “fine” della filosofia. Egli ritiene che il pensiero analitico, sia quello di matrice neopositivistica, sia quello del linguaggio ordinario, pur non avendo rispettato la promessa di fare, della filosofia, una scienza, abbia pur sempre avuto il merito di attirare l’attenzione sulle difficoltà  epistemologiche della filosofia tradizionale: ” la cosa più importante che ò accaduta nella filosofia degli ultimi trent’anni non ò la svolta linguistica come tale, ma piuttosto l’inizio di un ripensamento a tutto campo di certe difficoltà  epistemologiche che hanno tormentato i filosofi a partire da Platone e Aristotele ” (“La svolta linguistica”). Negli anni Settanta-Ottanta (a partire dal suo grande successo, “La filosofia e lo specchio della natura”, 1979), Rorty approda ad una prospettiva radicalmente post-analitica e post-filosofica, caratterizzata da un recupero della tradizione pragmatistica americana (Dewey, James) e da un confronto creativo con l’heideggerismo, l’hegelismo, il nietzscheanesimo, l’ermeneutica, il decostruzionismo, il postmoderno ecc. Nello stesso tempo, accentua i suoi interessi letterali, confrontandosi non solo con i filosofi, ma anche con gli scrittori (Proust, Nabokov, Orwell ecc). Tra i suoi scritti meritano di essere menzionati: “La svolta linguistica” (1967), “La filosofia e lo specchio della natura” (1979), “Conseguenze del pragmatismo” (1982), “Contingenza, ironia e solidarietà ” (1989), “Oggettività , relativismo e verità ” (1991), “Saggi su Heidegger e altri articoli filosofici” (1991), “Verità  e progresso” (1998). Il lavoro del 1989 ò stato tradotto in italiano con il titolo “La filosofia dopo la filosofia”. I lavori successivi sono stati raccolti sotto il titolo “Scritti filosofici”. Filosofia, mente e coscienza L’impegno di Rorty non ò quello di escogitare nuove concezioni circa i tradizionali oggetti della filosofia (Dio, l’essere, l’Uomo ecc. ), ma quello di sbarazzarsi di un bimillenario modo di filosofare. Al centro della sua riflessione troviamo infatti una serrata polemica contro la Filosofia (la maiuscola designa la tradizione filosofica “ufficiale” a cui egli intende contrapporsi) e un atteggiamento “terapeutico”, come egli stesso lo definisce, contro la corrente dominante del pensiero occidentale: ” i pragmatisti ritengono che la più grande aspirazione della filosofia ò quella di non praticare la Filosofia “. Questa impostazione risulta evidente soprattutto in “La filosofia e lo specchio della natura”: l’immagine canonica della filosofia, dice Rorty in questo scritto, che più di ogni altro ha contribuito alla sua fama di studioso, ò quella di un ” sapere fondazionale ” che giudica la validità  di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico. Tale immagine trova in Kant, e nella sua concezione della filosofia come metacritica delle scienze speciali, il maggior teorico e interprete: ” dobbiamo al XVIII secolo, e in particolare a Kant, la nozione della filosofia come tribunale della ragione pura, che conferma o respinge le pretese della cultura restante ” (“La filosofia e lo specchio della natura”). In seguito, la ritroviamo nel neokantismo, nella fenomenologia, in Russell, nell’empirismo logico e nella stessa filosofia analitica, che in luogo della critica trascendentale pone l’analisi linguistica: ” Per come la vedo io, il genere di filosofia che discende da Russell e da Frege, proprio come la fenomenologia classica di Husserl, ò semplicemente un ulteriore tentativo di mantenere la filosofia nella posizione in cui Kant desiderava porla: quella cioò di giudice delle altre aree della cultura. […] L’empirismo logico era una variante della canonica e accademica filosofia neokantiana incentrata sull’epistemologia. […] La filosofia “analitica” ò una variante ulteriore della filosofia kantiana, una variante caratterizzata principalmente dal considerare la rappresentazione come linguistica piuttosto che mentale, e quindi la filosofia del linguaggio come la disciplina che esibisce i “fondamenti della conoscenza”, invece della “critica trascendentale” o della psicologia “. Il presupposto comune di queste dottrine ò l’idea della Filosofia come disciplina che possiede una sua specifica e privilegiata via d’accesso ai fondamenti della conoscenza e ai meccanismi della mente: ” la filosofia può essere fondazionale nei confronti della cultura restante perchè la cultura ò la raccolta delle pretese di conoscenza, mentre la filosofia sottopone a giudizio tali pretese. Può fare questo perchè comprende i fondamenti della conoscenza e trova questi fondamenti attraverso lo studio dell’uomo-come-soggetto-della-conoscenza, dei “processi mentali” o delle “attività  della rappresentazione” che rendono possibile la conoscenza. Conoscere significa rappresentare accuratamente quel che si trova fuori della mente; in tal modo concepire la possibilità  e la natura della conoscenza significa capire il modo in cui la mente riesce a costruire tali rappresentazioni. Il compito cardinale della filosofia ò quello di costituire una teoria generale della rappresentazione, una teoria che sia in grado di dividere la cultura nelle aree che rappresentano bene la realtà , in quelle che la rappresentano meno bene, e in quelle che non la rappresentano affatto (malgrado la loro pretesa di riuscirci) “. Filosofia, conoscenza e mente sono quindi idee interconnesse: ma di quale “mente” parla, polemicamente, Rorty? Della mente come “specchio”, ovvero come occhio immateriale che rappresenta, in modo adeguato o inadeguato, la realtà . Infatti, asserisce Rorty (secondo cui sono le immagini piuttosto che le proposizioni, le metafore piuttosto che le asserzioni a determinare il maggior numero delle nostre convinzioni fìlosofìche), esiste un’immagine che continua a tenere prigioniera la filosofia. àˆ l’immagine della mente ” come un grande specchio, che contiene rappresentazioni diverse – alcune accurate, altre no – e può essere studiato attraverso metodi puri, non empirici ” (il pensiero corre immediatamente a Kant). Del resto, prosegue Rorty, senza la nozione della mente come specchio non ci sarebbe stata l’idea della conoscenza come rappresentazione accurata e quindi non avrebbero avuto senso gli sforzi di Cartesio e di Kant, volti ad ottenere ” rappresentazioni più accurate attraverso l’esame, la riparazione e la pulitura dello specchio “. Nemmeno avrebbero avuto senso, fuori di questa strategia, ” le recenti tesi secondo le quali la filosofia consisterebbe di “analisi concettuale”, o di “analisi fenomenologica”, o di “spiegazione dei significati”, o di esame della “logica del nostro linguaggio” oppure della “struttura dell’attività  costitutiva della coscienza” “. Dalla filosofia alla post-filosofia Questa teoria “speculare” o “spettatoriale” della conoscenza (che affonda le sue radici profonde in Platone e nel mondo greco, ovvero in una tradizione di pensiero che ha inteso la conoscenza in termini di metafore visive) oggi risulta in crisi. Infatti, la pretesa di uscire dalle nostre rappresentazioni, per afferrare un punto di vista esterno o neutrale, da cui potersi interrogare circa la legittimità  delle rappresentazioni stesse, si ò rivelata un semplice mito cartesiano-lockiano-kantiano, ovvero il frutto di una costruzione storica, da cui abbiamo preso irrimediabilmente le distanze. Tant’ò che, se la Filosofia tradizionale aveva l’aspetto di un pensiero fondazionalista ed epistemologico (termini che in Rorty sono sinonimi), la post-Filosofia ha l’aspetto di un pensiero antifondazionalista e antiepistemologico (e quindi antikantiano e postkantiano). Del resto, le ambizioni epistemologiche della Filosofia sono state respinte da quelle stesse attività  (la scienza, la politica ecc. ) che la Filosofìa si proponeva di legittimare. E se Cartesio, Locke e Kant sono stati i fondatori della filosofia moderna, Wittgenstein, Heidegger e Dewey ne sono stati i distruttori. Infatti, dopo aver cercato, in un primo tempo, nuovi modelli di filosofia fondazionale, in un secondo tempo ciascuno di essi consumò il proprio tempo a metterci in guardia contro quelle tentazioni alle quali essi stessi avevano ceduto. Così la loro opera successiva ò terapeutica piuttosto che costruttiva. Anche lo scopo di Rorty intende essere terapeutico, ossia volto a “guarire” le menti dalla filosofia e a promuovere la transizione dalla Filosofia alla post-Filosofia. Tuttavia, come risulta chiaro dalle ultime pagine del suo capolavoro, il discorso di Rorty ò più articolato di quanto sembri a prima vista. Da un lato, l’autore dichiara la fine della Filosofia, assimilandola a una “malattia culturale” da cui occorre liberarsi, in vista di una nuova età  postfilosofìca: ” può darsi che l’immagine del filosofo proposta da Kant stia per tramontare com’ò tramontata l’immagine medievale del prete “. Dall’altro, egli puntualizza che dopo la Filosofia ci sarà  ancora la filosofia, in quanto ad essere finita non ò la filosofia tout court, ma la filosofia protesa ad una fondazione sistematica dell’Essere e della Conoscenza: ” non c’ò pericolo che la filosofia “si esaurisca”. La religione non ò finita con l’Illuminismo, nò la pittura con l’impressionismo [… ] anche se la filosofia del XX secolo si avvia ad apparire come un confuso stadio di transizione [… ] ci sarà  certamente qualcosa chiamato “filosofia” dopo la transizione “. Convinzione ribadita in un intervento del 1990: ” sono spesso accusato di essere un pensatore della “fine della filosofìa”, e vorrei cogliere quest’occasione per sottolineare ancora una volta [… ] che, semplicemente, la filosofia non ò un genere di cosa che possa avere una fine; ò un termine troppo vago e amorfo per sopportare il peso di predicati come “inizio” o “fine” ” Per quanto concerne il presente, Rorty, dopo aver distinto tra filosofi “normali” e “rivoluzionari”, afferma che tra questi ultimi occorre distinguere due tipi: 1) quelli che ” fondano nuove scuole all’interno delle quali può essere praticata la filosofia normale e professionalizzata ” (ad esempio Cartesio e Kant, Husserl e Russell); 2) quelli che ” rifiutano l’idea che il loro vocabolario possa mai essere istituzionalizzato, o che i loro scritti possano essere considerati commensurabili con la tradizione ” (ad esempio Kierkegaard e Nietzsche, l’ultimo Wittgenstein e l’ultimo Heidegger). La simpatia di Rorty va esplicitamente a quest’ultima categoria di filosofi, che egli chiama edificanti per distinguerli da quelli sistematici: ” i grandi filosofi sistematici sono costruttivi e offrono argomentazioni. I grandi filosofi edificanti sono reattivi e offrono satire, parodie e aforismi [… ]! grandi filosofi sistematici, come i grandi scienziati, costruiscono per l’eternità . I grandi filosofi edificanti distruggono a beneficio della loro propria generazione ” (La filosofia e lo specchio della natura). Più in particolare, la filosofia edificante, che Rorty accosta all’ermeneutica (per la comune ispirazione storicistica e antiepistemologica), lascia cadere sia l’immagine della filosofia come sapere professionale di tipo specialistico, sia l’idea del filosofo come uno ” che conosce alcunchè intorno al conoscere che nessun altro conosce altrettanto bene “, e si concretizza in una ricerca dedisciplinarizzata di nuovi dizionari e di nuove maniere di vivere e di pensare. Per queste sue caratteristiche di sapere narrativo, la filosofia re appare protesa a edificare, cioò a formare gli uomini, più che a “conoscere” oggettivate mente il mondo. In questa nuova veste, di tipo etico- formativo, la filosofia, semplice scrittura fra le scritture, non si pone più come espressione privilegiata del sapere, ma come una delle tante voci all’interno della “conversazione” complessiva dell’umanità : ” l’impegno morale dei filosofi dovrebbe essere quello di continuare la conversazione dell’Occidente ” (La filosofìa e lo specchio della natura). Conversazione che si nutre del dialogo, ossia di una “democrazia dialettica” che vive del confronto costante dei diversi punti di vista, senza pretese di sopraffazione reciproca. Contingenza, ironia e solidarietà  Nello scritto “Contingenza ironia e solidarietà ” (1989, tradotto in italiano con il titolo “La filosofia dopo la filosofia”) Rorty ò andato sempre più accentuando la fisionomia storicistica e pragmatistica del suo pensiero. All’idea metafìsica di una descrizione privilegiata della realtà , capace di rispecchiare in modo sovratemporalmente valido l’essenza delle cose egli ha contrapposto l’idea “postmetafisica” di una pluralità  mutevole di approcci al reale ossia il concetto della storicità  dei vari modelli di comprensione dell’esistente (e quindi dei vari “paradigmi culturali” entro cui il mondo ci ò dato) Non esiste, dice Rorty a più riprese, un mitico là  fuori, che la nostra mente intesa come essenza rispecchiante, avrebbe il compito di riprodurre poichè la realtà  esiste sempre all’interno di una serie di prospettive storicamente e socialmente condizionate che corrispondono a modi diversi di atteggiarsi di fronte al mondo. Alla concezione (metafisica) della verità  come “scoperta”, Rorty, partendo dall’idea del mondo finalmente perduto, oppone la concezione (pragmatistica) della verità  come costruzione umana, connessa a determinate pratiche sociali di giustificazione e di controllo e quindi a determinati valori. Non esiste una verità  oggettiva di tipo platonico, cioò esistente al di sopra e indipendentemente dagli uomini. Vero ò ciò che una determinata comunità , sulla base di determinate regole storielle di controllo e di verifica, crede, in maniera argomentata, che sia tale. Il punto decisivo dell’opera di Rorty, scrive Aldo G. Gargani, risiede ” proprio nel rovesciamento teorico che egli opera quando, in luogo di una legittimazione degli enunciati in rapporto diretto e estensivo ai loro referenti “là  fuori”, indipendenti dai nostri sistemi simbolici, [ ] propone invece un nuovo modo di guardare ai nostri discorsi, che non devono essere legittimati rispetto ai princìpi o fondamenti già  predisposti, ma in relazione a ciò che riteniamo migliore, più utile, più bello da fare e da pensare nell’ambito di una comunità  [ ] di valori condivisi e partecipati “. Prospettiva che viene ribadita e radicalizzata nel terzo volume dei Philosophical Papers, in cui Rorty afferma che soltanto “sbarazzandosi” delle teorie tradizionali della verità  la filosofia riesce ad assolvere meglio alla sua funzione culturale ed esistenziale. Questo atteggiamento neo- storicistico e neo-pragmatistico, che rifiuta ” la nevrotica ansia cartesiana di certezze “, si accompagna alla proclamata necessità  di una cultura postmetafisica (osservando che ” cultura postmetafisica [… ] sembra non più impossibile di una cultura postreligiosa ed egualmente desiderabile “). Cultura che, per Rorty porta a termine il processo moderno di secolarizzazione e disincantamento del mondo: ” A cominciare dal XVII secolo cercammo di sostituire all’amore per Dio l’amore per la verità  trattando il mondo descritto dalla scienza come una semidivinità . A partire dalla fine del XV secolo cercammo di sostituire all’amore per la verità  scientifica l’amore per noi stessi, di venerare la nostra natura profonda, spirituale e poetica, trattandola come un’ulteriore semi-divinità . La prospettiva condivisa da Blumenberg, Nietzsche, Freud e Davidson ci chiede di provare a non venerare più nulla, a non considerare niente come una semidivinità  a considerare tutte- linguaggio, coscienza, comunità  – come un prodotto del tempo e del caso ” (La filosofia dopo la filosofìa). La nuova prospettiva di Rorty ruota intorno a tre parole-chiave: contingenza, ironia e solidarietà . Con il termine contingenza Rorty intende la tesi secondo cui non esistono essenze universali e sovratemporali, ma tutto ò socializzazione e quindi circostanza storica. Con il termine ironia intende la posizione di chi riconosce il carattere storico, cioò fugace e contingente, delle proprie convinzioni. Per solidarietà  intende l’atteggiamento di chi si batte per diminuire la sofferenza e l’umiliazione degli esseri umani. Democrazia e filosofia I tre concetti appena spiegati caratterizzano la nuova figura dell’intellettuale postfilosofico, ossia di ciò che Rorty chiama ” l’ironico liberale “. Di fronte allo scontro fra gli studiosi in cui domina il bisogno di autocreazione e di autonomia individuale e gli studiosi in cui risulta preponderante il desiderio di una comunità  giusta e solidale, l’ironico liberale invita a non scegliere tra essi ma a dar loro, invece, ugual peso, per usarli poi per scopi diversi: ” gli autori come Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Proust, Heidegger e Nabokov sono utili in quanto modelli, esempi di perfezioni individuali – di vita autonoma che si ò creata da sè. Gli autori come Marx, Mill, Dewey, Habermas e Rawls sono, più che dei modelli, dei concittadini. Il loro impegno sociale, ò il tentativo di rendere le nostre istituzioni e pratiche più giuste e meno crudeli ” (“La filosofia dopo la filosofia”). Di fronte alle pretese della Filosofia (metafisica) di parlare in nome dell’unica Verità  e dell’unico Bene, tramite un platonico attingimento delle essenze universali delle cose (natura umana inclusa), l’ironico liberale afferma il “primato della democrazia sulla Filosofìa “, intendendo sostenere, con questa espressione, che le pretese assolutistiche della Filosofia (tradizionale) vanno ripudiate, in quanto risultano strutturalmente inconciliabili con gli assetti pluralistici e democratici delle società  avanzate: ” quando entrano in conflitto, la democrazia ha la precedenza sulla filosofia “. Nelle democrazie nessuno può ergersi a custode dell’unico Vero e dell’unico Bene e nessuno può pretendere di imperli agli altri, alla maniera dei guardiani platonici. Contrariamente a quanto si afferma talora, il prospettivismo di Rorty non coincide affatto con una forma estrema di relativismo culturale. Infatti, di fronte all’anti-etnocentrismo di coloro che, partendo dal postulato antropologico dell’equivalenza di tutte le culture, rinunciano a difendere i valori della propria cultura, Rorty afferma un “etnocentrismo moderato ” che, pur essendo consapevole del carattere locale di determinati valori dell’Occidente (libertà , uguaglianza di diritti, pluralismo ecc. ), ne afferma la validità  transituazionale, cioò l’universalità  di diritto: ” l’anti-antietnocentrismo sollecita [… ] ad accettare con assoluta serietà  il fatto che gli ideali della giustizia procedurale e dell’eguaglianza umana sono sviluppi culturali provinciali, recenti ed eccentrici e a rendersi conto che non per questo vale meno la pena di battersi per essi; insiste sul fatto che gli ideali possono essere locali e legati a una cultura e ciò nondimeno costituire la più grande speranza della specie ” (“Scritti filosofici”).

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  • Filosofia - 1900

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