Ricordare per non dimenticare
Da molti anni, in Italia, ogni 27 gennaio, si celebra il giorno della memoria. In tale ricorrenza, si commemorano le numerose vittime ebree (ma non solo) dei campi di concentramento. È questa, a mio avviso, una delle pagine più tristi della storia che l’uomo abbia mai potuto scrivere. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti, in nome di una non dimostrata superiorità di razza, costruirono campi di concentramento per eliminare la razza impura, quella ebrea. Numerose, purtroppo, furono le vittime.
La superiorità di razza non trovava allora, e non trova neanche oggi, una spiegazione scientifica. Eppure essa era validamente teorizzata, coma appare dalle pagine scritte dal fautore di questa grande tragedia umana. Hitler, infatti, ne La mia battaglia, non crede nell’uguaglianza delle razze, ma afferma che esse «sono diverse e quindi hanno un valore maggiore o minore». Secondo tale pensiero, la Volontà che domina l’Universo vuole che il più forte abbia la meglio sul più debole. Ecco che lo Stato viene visto come «un mezzo per raggiungere un fine, il fine della conservazione dell’esistenza razzista degli uomini». Questa errata concezione portò a drammatiche conseguenze: numerose persone persero improvvisamente casa, lavoro e famiglia; furono deportate in massa verso i campi di concentramento, dove trovarono la morte oppure lavorarono come animali. La loro vita dipendeva da un cenno di testa del comandante nazista: bastava un niente, e queste persone venivano fucilate, mandate nelle camere a gas o arse vive nei forni crematoi.
Ci si chiede se coloro che compirono questi orrori si rendessero conto di ciò che stavano facendo. Infatti, la maggior parte dei capi nazisti che fu processata all’indomani della fine della guerra non sembrò aver preso coscienza di quegli atti scellerati. Un esempio è riportato da Hannah Arendt ne La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. In occasione del processo di Gerusalemme, il comandante Eichmann era pienamente convinto di aver agito bene (infatti non aveva fatto altro che svolgere al meglio il proprio lavoro) e affermava di aver compiuto quelle stragi perché nessuna voce dall’esterno gli diceva che erano sbagliate. Il fatto è che molte persone che aderirono al nazismo, nella loro interiorità, erano contrarie al regime, ma non potevano opporsi palesemente ad esso, se si pensa al terrorismo creato proprio dal nazismo. Infatti bisognava «mostrarsi ancor più nazista dei nazisti comuni». L’unico modo per sottrarsi a questo scempio, pur continuando a vivere in Germania, era allontanarsi dalla vita politica.
Cosa fare, dunque, affinché questi terribili atti non si ripetano più? Bisogna ricordare. È l’invito che il poeta Primo Levi (anche lui fu rinchiuso nei campi di concentramento, ma riuscì a salvarsi) fa agli uomini. Nella poesia Se questo è un uomo, si rivolge a chi vive in una tiepida casa e a chi trova il piatto pronto a tavola quando rincasa la sera, esortandolo a chiedersi se si possono considerare uomini coloro che lavorano nel fango per un misero pezzo di pane e che muoiono per un sì o per un no, oppure donne quelle che sono rimaste senza capelli e senza nome e che non hanno nemmeno più la forza di ricordare. Il poeta invita con forza al ricordo: se esso non ci sarà, gli uomini saranno senza casa, verranno colpiti da tremende malattie e non saranno più guardati in faccia dai loro figli. Ricordare, però, non è sempre facile. Chi ha vissuto sulla propria pelle lo scempio delle atrocità naziste ha avuto enormi problemi nel continuare a vivere e ha preferito cancellare, anche se con fatica, quanto visto coi propri occhi. Quindi, come afferma Bauman in Modernità e olocausto, «il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata».
Come sostiene Primo Levi, anche oggi lo straniero può essere considerato nemico. È una concezione nascosta che non sta alla base di nessun pensiero, ma che può portare a drammatiche conseguenze come, appunto, i campi di concentramento. Ecco dunque che la storia diventa nostra maestra di vita: l’uomo è portato a ricordare quanto successo per far in modo che tali drammatici eventi non si verifichino più.
Stefania Annunziata
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