Salvatore Quasimodo nacque e visse l’infanzia in Sicilia. I suoi esordi letterari sono collegati al gruppo della rivista fiorentina “Solaria”, al quale fu introdotto dal cognato Elio Vittorini. Proprio su “Solaria” venne pubblicata la sua prima raccolta “Acque e terre” (1930). Fu però con le due successive raccolte: “Oboe sommerso” (1932) e “Erato ed Apollion” (1936) che il poeta raggiunge la fama ed iniziò ad essere considerato uno dei rappresentanti di punta dell’ermetismo.
L’Ermetismo è una corrente poetica che si sviluppa nel primo dopoguerra, soprattutto negli anni trenta, attorno alle riviste fiorentine “Il Frontespizio” e “Campo di Marte” e deve il suo nome alla definizione negativa data da un critico avverso, Flora. Essa nasce come risposta sia al «dannunzianesimo più enfatico e morboso» sia al «pascolismo più flebile», rifacendosi alle esperienze del simbolismo francese, in particolare a poeti come Mallarmè e Valere. I poeti ermetici, tra cui ricordiamo, oltre a Quasimodo, Ungaretti, Gatto, Sinisgalli e Luzi, avevano in comune il desiderio di restituire alla parola poetica la sua carica espressiva, di cercare una poesia pura, fuori dal tempo e spogliata di ogni elemento autobiografico se non come testimonianza della vocazione a poeta. Il critico ermetico Bo suggeriva difatti una «letteratura come vita»: la poesia proviene da una zona remota dell’essere, come una sorta di intuizione-rivelazione che procede per enigmi ed analogie. La parola pertanto perde i caratteri comunicativi per conservare solamente quelli evocativi, con la presenza anche di implicazioni religiose. Sul piano stilistico, con la parola divenuta cosa, unico modo di catturare una realtà intangibile, vi è abbondanza di frasi nominali, con la rinuncia ad una trama ragionativo-narrativa, al quale si sostituisce un messaggio verticale, per accumulo cioè di rivelazioni prive di concatenazione e sviluppo.
Le influenze più importanti sull’ermetismo furono le correnti irrazionalistiche del secolo e la cultura cattolica italiana e francese, ma si può notare anche come l’ermetismo continui atteggiamenti del Decadentismo come ad esempio il carattere lirico-evocativo, la chiusura del letterato in una “torre d’avorio”, il rifiuto del contatto col pubblico, il disimpegno politico. Tuttavia l’isolamento degli ermetici dallo spazio della storia proprio mentre si imponeva il fascismo venne criticato dai letterati impegnati del secondo dopoguerra, ai quali gli ermetici risposero che d’altronde l’isolamento era l’unica forma di rifugio contro la retorica trionfalistica del regime.
Ed è subito sera (da “Acque e terre”, 1930)
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Questa «brevissima illuminazione lirica» è una delle più famose di Quasimodo e delle più significative dell’Ermetismo. Si noti la mancanza di articoli, particolarità che caratterizza tutta la corrente ed è in accordo con la ricerca della forza evocativa della parola essenziale e suggestiva. Essa presenta motivi e stili frequenti nella poesia moderna: il verso libero, il frammento rapido e suggestivo, la cupa solitudine dell’uomo, l’esistenza sentita come un angoscioso andare fra le tenebre. Ogni uomo è difatti solo nel mondo e lo inchioda alla vita un raggio di sole, una speranza di amore che è anche tormento, ma che presto trapassa nella sera della morte.
«Questi famosi versi si possono considerare esemplare espressione della poesia ermetica per il tema, per l’ardito rapporto analogico (trafitto / raggio), per l’epigrammatica essenzialità dell’ultimo verso che continua e ribalta l’immagine espressa nel secondo (sole / sera) ed è ricco di una forte carica emblematica»
Caratteristica che distingue però Quasimodo dagli altri ermetici è il suo linguaggio musicale, probabilmente ricavato dall’incontro coi grandi poeti greci di cui fu grande traduttore e «la tendenza a un discorso poetico più spiegato, legato al fluire della memoria». Con la pubblicazione della raccolta “Nuove poesie” (1936-42), poi confluita assieme a tutte le precedenti in “Ed è subito sera” (1942) appare difatti un motivo dominante della poesia di Quasimodo: i ricordi. Essi sono soprattutto fissati nel paesaggio della Sicilia. Essa è l’infanzia, simbolo di una primitiva innocenza e comunione con le cose che è ormai perduta.
«Come tanti altri intellettuali meridionali, Quasimodo sente l’allontanamento dalla terra natia come uno “strappo”, come un’esperienza traumatica che alimenterà però tanta parte della sua poesia».
La rievocazione autobiografica non è però di stampo romantico bensì ermetico (gli ermetici proponevano una lirica spogliata di qualsiasi elemento autobiografico): nella sua pena legge la pena di tutti gli uomini. Liriche esemplari è a tale riguardo sono “Strada di Agrigentum” e “Ride la gazza, nera sugli aranci”.
Strada di Agrigentum (da “Nuove Poesie”, 1938)
Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l’arenaria e il cuore
5 dei telamoni lugubri, riversi
sopra l’erba. Anima antica, grigia
di rancori, torni a quel vento, annusi
il delicato muschio che riveste
i giganti sospinti giù dal cielo.
10 Come sola nello spazio che ti resta!
E più t’accori s’odi ancora il suono
che s’allontana verso il mare
dove Espero già striscia mattutino
il marranzano tristemente vibra
15 nella gola del carraio che risale
il colle nitido di luna, lento
tra il murmure d’ ulivi saraceni.
La poesia “Strada di Agrigentum” è emblematica di uno dei motivi della poesia di Quasimodo: la trasfigurazione della Sicilia, attraverso il ricordo (si noti il verso primo), in un paradiso perduto (tante sono le immagini di una natura che sembra paradisiaca) che acquista tanto più fascino quando il poeta si pone come “esiliato”. Questo suo esilio rende la terra natia lontana sia nello spazio che nel tempo e pertanto tipicamente ermetica. La lirica si presenta come una nostalgica rievocazione che, seppure contenga riferimenti autobiografici, ha qualcosa di vago: i paesaggi, gli animali e le cose sembrano remotamente lontani, come immagini che appaiono in un sogno in lento movimento e poi svaniscono subito per la sovrapposizione di altre. L’anima del poeta sembra incarnare attraverso il ricordo tutta la storia (è «antica») e la nostalgia (grigia) della sua terra. Il ricordo della bellezza della terra fa pensare al poeta la sua solitudine attuale (verso 10) ed evoca allora immagini tipiche della Sicilia: il marranzano e un uomo che spinge il carretto. Il recupero della tradizione, storica e letteraria, era per Quasimodo un mezzo per resistere alla barbarie nazifascista.
Nelle raccolte dopo la guerra avviene una sostanziale svolta nella poesia di Quasimodo. Si possono difatti distinguere due fasi nella produzione del poeta: prima del 1945 e dopo. Nella prima sono ricorrenti una serie di temi che Finzi ha così sintetizzato: «Sicilia infanzia mito esilio», con moduli sofisticati ed ermetici. Nella seconda subentrano invece i temi legati alla guerra e alle questioni sociali, con moduli più narrativi e corroborati da un vero e proprio impegno politico. Sono di questo periodo le raccolte “Con il piede straniero sopra il cuore” (1946), “Giorno dopo giorno” (1947), “La vita non è sogno” (1949).
«Io non credo alla poesia come “consolazione”, ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè “dentro” l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può “abituare” l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite… Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’”eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre… Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»
(Salvatore Quasimodo, La Fiera Letteraria, giugno 1947)
Alle fronde dei salici (da “Giorno dopo giorno”, 1947)
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti: nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano scrivere poesie, ma solo agire, così come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia che appesero le loro cetre ai rami dei salici.
Particolarmente forti, dure, crude sono le immagini di questa lirica: i morti nelle piazze, la madre che vede il figlio crocifisso sul palo del telegrafo. Il testo, costituito da una sola strofa presenta due periodi: il primo è una lunga interrogazione, il secondo una rapida dichiarazione. I temi principali esposti sono due: i mali della guerra che non lascia spazio ad alcuna pietà e la poesia come impegno civile, per rifare l’uomo e con esso la società, abbruttiti dagli orrori del conflitto.
Milano, agosto 1943 (da “Giorno dopo giorno”, 1947)
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
È caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Nell’agosto del 1943 violenti bombardamenti colpiscono Milano. L’abituale immagine della città viene sconvolta: ovunque si possono vedere segni di violenza, di distruzione, di morte. Il poeta, testimone di tanta tragedia, si fa interprete del dolore di tutti. Dapprima descrive il bombardamento: tra le macerie (polvere è metonimia) inutilmente si cercano i propri cari mentre sul Naviglio scoppia un ultima bomba. Successivo al bombardamento vi è il silenzio, che forse è ancora peggio perché è un silenzio di morte, che non è turbato da nulla, nemmeno dal canto di un usignolo. Infine lo smarrimento impotente e la disperazione della popolazione sopravvissuta che non può fare nulla, nemmeno seppellire i morti, già custoditi sotto le macerie. Anche qui le immagini sono dure, supportate da un linguaggio fatto di parole semplici, vicine al parlato: “invano cerchi tra la polvere, povera mano”, “la città è morta”, è l’usignolo caduto dall’antenna”, “non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete”, “non toccate i morti … lasciateli nella terra delle loro case …”. Come “Alle fronde dei salici”, anche questa lirica è una condanna alla guerra, macchina infernale di violenza, distruzione, omicidi che uccide affetti, desideri e voglia di vivere.
Lamento per il Sud (da “La vita non è sogno”, 1946-1948)
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve …
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate tra le nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
Il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Il poeta, vivendo da molto nel Nord, non sente più lo “strappo” dalla sua terra natia ed ormai al mare, alla gente ed ai paesaggi siciliani si è sostituita la natura del Nord, il viso della sua donna, le nebbie. Con un grido forte (verso 12) il poeta rivendica però la sorte della sua patria ed esprime una aspra denuncia per le condizioni in cui si trova. Il divario esistente tra Sud e Nord era già allora molto ampio ed il poeta tenta così di inserirsi nelle voci che richiamano l’attenzione della classe politica italiana riguardo alla questione del Meridione. Le solite immagini dure, che contrastano fortemente con quelle dei ricordi del poeta, nelle quali la pietà e il senso di umanità sembrano non solo essere dimenticati, ma quasi non fossero mai state presenti sono assimilabili a quelle delle due poesie “Alle fronde dei salici” e “Milano, Agosto 1943”.
La sua denuncia si rivolge anche alla esperienza storica dell’Italia Meridionale: incrocio di popoli che combattevano sulla sua terra (“bestemmie di tutte le razze che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi”) dove poi eserciti occupanti sfiancavano sia morale che risorse del paese (“hanno bevuto il sangue del suo cuore”). Per questo ora i fanciulli, simbolo di speranza per la vita futura, sono costretti a badare alle bestie fino a tarda sera, soffrendo la fame. Lo sdegno del poeta è sincero ma discorde (contrappunto): da una parte i suoi ricordi dolci e pieni d’amore, dall’altra la realtà attuale cruda e colma di sdegno. È per questo “un lamento d’amore senza amore” e niente lo riporterà nel Sud se non i ricordi.
Nel 1959 Quasimodo ricevette il Premio Nobel per la letteratura, non senza riserve dei critici italiani, con la seguente motivazione: «per le sue poesie che, con ardore classico, esprimono il sentimento tragico della vita del nostro tempo». Nel 1968, mentre presiedeva la giuria per l’assegnazione di un premio di poesia, morì a seguito di una emorragia cerebrale.
La critica degli ultimi decenni (Mengaldo e Contini) ha ridimensionato il valore ed il significato della poesia di Quasimodo, sottolineando più «la sua abilità nel rimodellare echi e movenze altrui che la sua originalità». Concorde resta il giudizio positivo sulla sua traduzione con stile ermetico dei “Lirici greci”.
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