Il Saggio sui dati immediati della coscienza si avvia con una presa di distanza dalla tendenza, tipicamente positivistica, a considerare gli stati psichici come oggetto di una misurazione quantitativa, cioò esprimibile in termini matematici, alla pari della grandezze fisiche. Contro questo orientamento a suo avviso errato, Bergson difende a spada tratta il carattere qualitativo dei dati della coscienza; questo vale in modo assoluto per gli stati della coscienza che non dipendono da una modificazione apportata dall’esterno, quali ad esempio un sentimento di gioia oppure un sentimento estetico o morale. La crescita di intensità di una gioia che aumenta in noi non consiste in una semplice espansione quantitativa, per cui la gioia sarebbe dapprima racchiusa in un piccolo angolo della coscienza per poi invadere uno ‘spazio’ sempre maggiore di essa. Al contrario, esso è dato dall’avvicendarsi di fasi qualitativamente diverse: in primis si manifesta come una generica apertura verso il futuro, poi si esprime in un senso di leggerezza, per poi diventare, nelle sue espressioni più elevate, una qualità indefinibile che può essere accostata ad un calore o ad una luce. Ma hanno carattere qualitativo anche i dati della coscienza che dipendono da un’impressione esterna, sebbene in questo caso si debba tener conto anche della quantità della causa che li genera. Di sicuro le diverse percezioni che abbiamo di un foglio di carta diversamente illuminato dipendono dalla differente quantità di luce cui esso è sottoposto nei vari casi; però, il risultato di questa diversa intensità luminosa ha su di noi un effetto qualitativo: se ben illuminata, la carta sembra bianca, mentre con gradi meno intensi di luce essa appare gialla o grigia. Tramite questa opposizione tra qualità e quantità , Bergson giunge così a sostenere la specificità dei dati della coscienza, i quali non possono essere assimilati (come voleva la psicologia scientifica) ai dati fisici, nò possono essere studiati con gli stessi strumenti impiegati per l’indagine scientifica della realtà naturale. La rilevanza di questa impostazione appare in tutta la sua grandezza quando, nelle pagine centrali del Saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson analizza il problema del tempo. Fin dalle sue letture giovanili dei Primi princìpi di Spencer, Bergson era alla ricerca di una definizione adeguata del tempo, una definizione che, da una parte, superasse l’insufficiente soluzione di spencer secondo cui la natura del tempo è di per sò inconoscibile, e, dall’alta parte, evitasse la tradizionale concezione quantitativa condivisa tanto dal pensiero scientifico quanto dal comune modo di pensare. In questa concezione il tempo è concepito come una successione indefinita di istanti omogenei e uniformi, anche se distinti gli uni dagli altri, analogamente a quanto avviene nella serie dei numeri naturali, dove a ogni unità ne segue un’altra identica alla prima. In questo modo si opera una specie di spazializzazione del tempo, dato che ogni interpretazione quantitativa del tempo implica necessariamente, per la sua descrizione, il ricorso ad una metafora spaziale. I singoli istanti vengono intesi come punti spaziali che si contrappongono ad altri punti ( t 1, t 2, t 3 ), dando origine ad una serie temporale divisibile in segmenti spazialmente definiti ( ad esempio il tempo t -1 – t -2 ). Se ci si distacca dal modello matematico-quantitativo, cui si è legati per tradizione, viceversa ci si accorge che il tempo è piuttosto una successione di stati qualitativi della coscienza, gli uni diversi dagli altri, ma anche gli uni intimamente connessi agli altri; in questa successione, infatti, i momenti precedenti si fondono con i momenti immediatamente successivi, senza che sia possibile ravvisare cesure interne al tutto, così come in una melodia le note, sebbene siano qualitativamente diverse, si fondono in un processo unitario senza soluzioni di continuità . A questa intuizione qualitativa del tempo, Bergson dà il nome di durata reale. La contrapposizione della durata reale al tempo spazializzato non vuol dire che Bergson renda scevra di valore ogni concezione spaziale del tempo, la quale continua ad essere di fondamentale importanza nella descrizione, operata dalla fisica in generale e dalla meccanica in particolare, dei fenomeni relativi al mondo inorganico. Ma essa sembra inadatta ad esprimere tanto l’evoluzione temporale in ambito biologico (la crescita di u organismo e tutti i fenomeni della vita) quanto, soprattutto, l’esperienza dello sviluppo temporale che ogni uomo ha nella propria coscienza. La stessa esistenza spirituale dell’ io, che si risolve nel flusso ininterrotto della vita della coscienza, coincide infatti con la durata reale. Nel fluire dell’esistenza, stati coscienziali sempre nuovi si aggiungono di continuo ai precedenti, senza però cancellarli o distinguersi nettamente da essi, ma saldandosi con essi e conservandoli in una nuova totalità spirituale. La memoria non è dunque una facoltà specifica, ma è la durata reale stessa, è l’essenza della vita spirituale del soggetto, per il quale le nuove impressioni concrescono sui vecchi ricordi, determinando la configurazione complessiva e sempre mutante della coscienza. Questa nuova concezione del tempo e della vita della coscienza, per alcuni versi vicina a quella di Agostino, permette a Bergson, tra l’altro, di argomentare in favore della libertà dell’uomo e contro ogni concezione deterministica di stampo positivistico. Si può parlare di determinazione necessaria della volontà da parte di specifici dati psichici ad essa precedenti (passioni, impulsi) solo quando tra la prima e i secondi vi sia un rapporto di esteriorità quale è quello presupposto dalla concezione del tempo spazializzato. In questo caso si può infatti immaginare che in un tempo t 1 esista una determinata passione, la quale, in un tempo t 2, condiziona necessariamente la volontà dell’uomo; ma in base alla concezione della durata reale, le passioni, i desideri e le volontà non sono realtà distinte che si succedono nel tempo, ma sono espressioni di un unico flusso di coscienza. Le singole azioni dell’uomo sono dunque il risultato dell’intero intreccio di dati coscienziali che costituisce la sua vita spirituale. In questo flusso della coscienza poi gli stati successivi non sono conseguenza necessaria di quelli precedenti, ma implicano l’affiorare di un elemento di novità e di spontaneità assolutamente irriducibile alle fasi precedenti del processo. In questa inesauribile fonte di novità , costituita dal flusso continuo ed unitario della coscienza, che è indipendente da ogni forma di condizionamento esterno, risiede la libertà umana, di cui Bergson è strenuo difensore.
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- Filosofia - 1900