Tesina sulla concezione spazio-tempo nel Novecento: uno sguardo d’insieme
La nuova concezione dello spazio-tempo del Novecento L’interesse per questo tema nasce dalla constatazione di come il tempo e lo spazio abbiano una oggettività inconfutabile e allo stesso tempo siano soggetti a infinite interpretazioni individuali in ogni campo: scientifico, filosofico, letterario ed artistico. Specialmente nel Novecento si fa vivo il dualismo interpretativo che permette di considerare tempo e spazio in modo univoco, oggettivo, o del tutto personale, contingente.
Rispetto alla speculazione filosofica dei secoli passati, la reazione antipositivistica bergsoniana presenta il tempo sotto l’aspetto della durata e della dimensione coscienziale, in una rilettura soggettiva dell’agostiniano “modo di durare della cosa creata”. La nuova concezione della fisica moderna, con la teoria della relatività formulata da Einstein e dai suoi epigoni, considera il tempo come variabile connessa allo spazio. Sia che si presenti come dimensione della coscienza, sia come variabile relativa allo spazio, il tempo acquista una indeterminatezza che lo scrittore o l’artista colgono in chiave soggettiva, mostrando il fluire del tempo come “vissuto” psicologico dei propri personaggi, come sequenza non cronologica, ma associativa, in chiave psicanalitica, come punto di domanda a cui cercare un significato. Su tale complessa problematica si basa la tecnica narrativa dello Stream of Consciousness .
Realizzata in alcune opere di Joyce, come Ulysses o Finnegan’s wake, e di Virginia Woolf, come To the lighthouse, essa consiste nel libero accostamento di parole e di immagini, di impressioni e di ricordi, così come essi emergono dal nostro inconscio, senza successione cronologica né tantomeno logica: è una traduzione immediata in parole del nostro pensiero non razionalizzato. Tradizionale nella critica letteraria è l’accostamento fatto con Proust, che si ispira dichiaratamente ad una matrice bergsoniana più che freudiana, e con Italo Svevo della Coscienza di Zeno, che tuttavia non usa la tecnica come tale, perché utilizza una scrittura sintatticamente logica e razionalizzata, per esprimere però lo stesso flusso acronico di memorie, concentrate su un tema centrale che le suscita.
Nell’Ulisse Joyce si muove da una prospettiva eminentemente soggettiva che sostanzialmente tende ad abbattere le distinzioni tra mondo interno e mondo esterno e ambisce ad una scrittura capace di una rappresentazione integrale dei diversi strati della coscienza. E qui, come nelle opere di Virginia Woolf, la narrazione è chiusa dentro la prospettiva del monologo interiore, ultima tappa del processo di soggettivizzazione del romanzo e quasi approdo alla dissoluzione della sua struttura tradizionale, in quanto vicende e personaggi sono del tutto secondari al fluire vario della voce del soggetto. L’eminenza di questa prospettiva porta ad una concezione del tutto soggettiva del tempo e della dinamica delle vicende: questi sono rappresentati a seconda del ritmo di percezione e interesse interno, per cui procedono in apparente disordine e fuori da una successione cronologica.
Per meglio comprendere lo stretto rapporto spazio-tempo è necessario analizzare la nuova concezione di Bergson: egli, nel suo Essai sur les données immédiates de la conscience, muove dalla scoperta della consapevolezza di un’irriducibilità tra qualità e quantità e, conseguentemente, tra vita esteriore ed interiore. Ciò che è esterno – ed è questo che costituisce l’oggetto proprio della scienza – si distingue per differenze quantitative. Lo spazio esprime bene questa esternità di un oggetto rispetto ad un altro. Ciò che invece fa parte della coscienza, pur essendo molteplice e diverso, non è esterno in questo stesso senso. Ciò che rispetta questa molteplicità senza ridurla a esternità spaziale è il tempo.
Non tuttavia quale lo presenta la scienza (misura della concomitanza di due mobili in due spazi), ma un tempo che sia durata reale, che consenta d’intendere istanti successivi come qualitativamente diversi, pur mantenendone la reciproca compenetrazione e la perenne capacità creativa. Molteplicità qualitativa, compenetrazione reciproca, perenne creatività sono perciò le caratteristiche del tempo come durata reale. Esse si oppongono alla concezione spazializzatrice del tempo, in cui ci troviamo di fronte a esternità quantitativa, reciproca indifferenza, ripetizione dell’identico e reversibilità del fenomeno.
Proust si riferisce esplicitamente al concetto di durata e di dimensione coscienziale bergsoniano: egli si rifà al recupero della memoria del passato, suscitato da associazione di idee in non-successione cronologica., mentre Svevo si attiene ad un linguaggio narrativo più tradizionale, recuperando, però, le memorie di Zeno in ordine non cronologico ma tematico (il che per altro è già una razionalizzazione), con riferimento alla tecnica psicanalitica associazionistica freudiana. L’eliminazione dal dominio della fisica e, per riflesso, da quello più generale della filosofia , dei concetti di uno spazio e di un tempo assoluti conseguente la teoria della relatività ha costituito una vera rivoluzione. Secondo Newton i fatti si svolgono in un quadro immutabile costituito da uno spazio e un tempo assoluti.
Einstein capovolge letteralmente questo punto di vista: secondo la sua teoria non ha senso parlare di spazio e di tempo se non in relazione ai fenomeni che vi si svolgono. È il principio di invarianza della velocità della luce, che insieme al principio della relatività è il postulato fondamentale della teoria della relatività ristretta. In arte, i temi fondamentali di Magritte sono la sua ossessiva ricerca delle radici nel passato (simbologia dell’albero e della casa: L’impero della luce, La voce del sangue) e la negazione della normale successione cronologica del tempo (compresenza del giorno e della notte nella stessa scena).
Invece per De Chirico il tempo resta un enigma insoluto: partendo dalla concezione psicanalitica di un tempo che affiora dall’inconscio senza successione, ma in base al principio di associazione, egli coglie passato, presente e futuro come compresenti alla coscienza e razionalmente non distinguibili. Italiano Italo Svevo Svevo si accinse nel 1919 alla stesura del suo capolavoro, La coscienza di Zeno, che portò a termine nel 1922 e pubblicò l’anno successivo. Il romanzo è l’autobiografia di un ricco commerciante triestino, Zeno Cosini, che, condannato dal testamento paterno a vivere di rendita sotto la tutela di un amministratore, trascorre la vita in uno stato di perenne irresponsabilità, unicamente impegnato ad analizzare la sua malattia e a studiarne i sintomi, giudicando retrospettivamente, in termini negativi, la cura psicanalitica che gli era stata proposta da un medico.
Più che la storia di una malattia, La coscienza di Zeno è pertanto la storia del rifiuto della guarigione: il nesso salute-malattia è svolto in modo da affermare l’ambivalenza perfetta dei due termini, per cui non è possibile al protagonista raccontare la propria malattia senza, nel contempo, raccontare l’ “atroce salute” degli altri, ossia il conformismo sociale. In altri termini, non solo il singolo individuo è malato, ma la stessa vita è una “malattia della materia”, un mondo caotico, in preda alla follia autodistruttiva della guerra, preludio a una “catastrofe inaudita”, prodotta dagli “ordigni” costruiti dall’uomo. E’ dunque vano qualsiasi sforzo di guarigione, perché nessuno può sottrarsi alla nevrosi prodotta dalla civiltà del denaro e del possesso. Solo un’ “esplosione enorme” potrà salvarci definitivamente dalla paura della malattia: sarà forse la morte cosmica, intravista dallo scrittore, nel suo radicale pessimismo, come lo sbocco inevitabile di una civiltà tecnologica che costruisce macchine sempre più perfette; ma potrà essere anche la nascita di un mondo nuovo, prefigurato dagli “inetti” che, a differenza dei “santi”, irrimediabilmente contagiati da uno squallido presente, si sono mantenuti disponibili per progettare l’uomo del futuro.
La tecnica narrativa, fondata sul “monologo interiore”, non ha nulla da spartire con il naturalismo: il romanzo oggettivo è aggredito da una disposizione analitica che rallenta il flusso del tempo, sottoponendo il protagonista ad un minuzioso scandaglio che ne mette a nudo la nevrosi, la tendenza all’autoinganno. Svevo abbandona il modulo ottocentesco, ancora di matrice naturalistica, del romanzo narrato da una voce anonima ed esterna al piano della vicenda, con ampie focalizzazioni interne ai personaggi, e adotta soluzioni più nuove.
Per gran parte, La coscienza di Zeno è costituita da un memoriale, o confessione autobiografica, che il protagonista Zeno Cosini scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico, come preludio che dovrebbe agevolare la cura vera e propria. E lo scrittore finge che il manoscritto di Zeno venga pubblicato dal dottor S. stesso, per vendicarsi del paziente, che si è sottratto alla cura frodando al medico il frutto dell’analisi (tutto ciò viene spiegato dal dottore in una prefazione, con cui si apre il libro). Al testo del memoriale si aggiunge infine una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione in coincidenza con i successi commerciali ottenuti durante la guerra con fortunate speculazioni. Il romanzo è dunque narrato dal protagonista stesso, dietro la finzione narrativa dell’autobiografia e del diario, pertanto ha un impianto autodiegetico. Nuovo e originale, nell’impianto narrativo, è anche il particolare trattamento del tempo, quello che Svevo chiama “tempo misto”.
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Tesina sulla concezione spazio-tempo nel Novecento: i collegamenti
- Italiano: Italo Svevo e Proust
- Filosofia: Henri Bergson
- Inglese: James Joyce, Virginia Woolf
- Fisica: Einstein
- Arte: Cezanne
Tesina sulla concezione spazio-tempo nel Novecento: materiale
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