PRIMA PROVA SULLA PENA DI MORTE: TRACCIA
Prendi spunto da questo tema svolto di attualità sulla pena di morte. A nessuno, neanche allo Stato, è consentito di togliere la vita: è questo il principio morale che anima il movimento crescente di tutti coloro che, da parti diverse e talora contrapposte, chiedono la abolizione della condanna a morte ancor oggi vigente in paesi del mondo civile. Affronta la questione proposta, soffermandoti sulla situazione attuale e accenna, con riflessioni personali, alle ragioni addotte sia a sostegno che contro la pena capitale.
PRIMA PROVA SULLA PENA DI MORTE: SVOLGIMENTO
La pena di morte è un’istituzione presente in tutti gli ordinamenti del mondo antico, tanto che la sua validità è sostenuta persino da alcuni passi del Vecchio e del Nuovo testamento della Bibbia, almeno fino all’avvento della predicazione di Gesù. Quest’ultimo, infatti, condanna pubblicamente – nel caso dell’adultera – la pratica della lapidazione punitiva. L’opportunità che un potere abbia o meno il diritto di sottrarre la vita a un cittadino, è una questione molto spinosa, anche in considerazione del fatto che la prima vera abolizione “di fatto” e non “di diritto” della pena di morte, risale appena alla seconda metà del 1400, per opera della Repubblica di S. Marino.
Da tempo immemorabile, dunque, si scontrano le ragioni a favore e contro questa pratica che, sostanzialmente, legalizza il diritto di sopprimere la vita altrui concedendo in particolare allo Stato tale possibilità. Le motivazioni addotte dai difensori di questa pratica sono di tipo sociale, morale e persino economico. La pena di morte, infatti, almeno secondo i suoi sostenitori, avrebbe l’indiscusso premio di costituire un esempio efficace contro la diffusione della violenza dilagante nella nostra società Gli omicidi commessi a scopo di rapina, o quelli realizzati in ambito familiare al fine di affermare un diritto sull’altro, così come quelli commessi da individui psichicamente instabili (i cosiddetti “serial killer”) verrebbero limitati dalla presenza di tale castigo, che indurrebbe gli assassini – a qualsiasi titolo – a trattenersi per non incorrere nella pena capitale. In tal caso, la pena di morte, quale punizione esemplare, rivestirebbe un valore “sociale” a salvaguardia dei più deboli. La considerazione dell’inefficacia del sistema carcerario, poi – anche nella forma più spinta dell’ergastolo – rafforzerebbe la visione della necessità di tale castigo. Motivazioni sociali, quindi, contigue a quelle economiche che valutano come un costo eccessivo oltre che inutile, quello del mantenimento in vita dei detenuti macchiatisi di delitti così efferati. Motivazioni morali, infine, che guarderebbero ai parenti delle vittime come a soggetti da risarcire in maniera “definitiva” con quella medesima morte riservata a chi ha loro sottratto una persona cara.
Allo stesso tempo, altrettanto valide e fondate, sono le ragioni dei cosiddetti “abolizionisti”, i quali spesso sfruttano le ragioni dei sostenitori rivoltandole a proprio favore. Il pensatore italiano Cesare Beccaria per primo, per esempio, sostenne che «la pena di morte, rendendo meno sacro e intoccabile il valore della vita, incoraggerebbe, più che inibire, gli istinti omicidi». Accanto a questo tipo di considerazioni ne esistono molte altre, altrettanto valide. Prima di ogni altra, la dimostrazione statistica della inefficacia della pena di morte come deterrente: nei paesi dove essa è applicata non esiste alcuna diminuzione costante dei delitti a essa assoggettati. Proseguendo l’analisi dal punto di vista sociale, poi, gli abolizionisti osservano che la enorme durata dei procedimenti giudiziari vanifica l’effetto di “esempio alla collettività” in quanto la sentenza è quasi sempre emessa in una data lontanissima dal momento in cui il delitto è stato commesso, a quel punto, fra il generale disinteresse. Inoltre, questa caratteristica della durata dei processi influenza anche la sfera economica della validità della pena, giacché procedure così lunghe costano tanto quanto se non più, rispetto a lunghi periodi di detenzione. In questo caso, la pena capitale sarebbe ridotta a semplice vendetta esercitata dallo Stato per conto di terzi.
Quello che però più interessa agli abolizionisti, forse, è la sottolineatura della inumanità della procedura applicata (indipendentemente dalla modalità della esecuzione) e, soprattutto, la pericolosità dell’irreversibilità della pena. Dalla esecuzione capitale, inutile dirlo, non si torna indietro, e qualora il presunto colpevole venisse identificato come innocente dopo l’esecuzione medesima, ci sarebbe davvero poco da fare.
Accanto a queste considerazioni, poi, ne esistono altre di carattere più “filosofico”. Una prima è quella che valuta la pena capitale come impedimento a una riabilitazione del colpevole, riabilitazione o reinserimento nella società, che sarebbe da realizzare invece per mezzo di una pena alternativa, anche se rigorosa. In ultimo, ma non per ultima, la valutazione di incoerenza che investe lo stato di diritto allorché considera legittima come punizione dell’omicidio un analogo omicidio che resta impunito come prevedono le leggi che il medesimo stato promulga.
Il diritto che uno stato avrebbe, insomma, a togliere la vita a un cittadino (e quindi a un facente parte della comunità che lui stesso costituisce), rappresenta un tema molto spinoso, e che prevede analisi approfondite e dagli sviluppi delicati. In chiusura di questo breve dibattito, va comunque sottolineata la storica risoluzione Onu – arrivata al termine di una lunghissima campagna portata avanti da Amnesty International, dal partito radicale transnazionale, e dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”, che stabilisce la necessità di una moratoria universale della pena di morte, con una sospensione internazionale delle pene radicali.
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