Tommaso d'AquinoDe ente et essentia - Studentville

Tommaso d'AquinoDe ente et essentia

Guida allo studio dell'opuscolo di Tommaso d'Aquino.

Introduzione L’opuscolo filosofico De Ente et Essentia (“Sull’ente e l’essenza”) ò sempre stato considerato un sintetico compendio della metafisica tomista e per questo ha attirato l’interesse di molti commentatori e studiosi fin dal secolo XIII. Ancora oggi si presta molto bene ad essere usato in chiave didattica, aiutando a risolvere un problema non da poco per quanto concerne l’insegnamento della filosofia medievale: da un lato, infatti, vi ò l’esigenza di un approccio al pensiero filosofico basato su un uso sostanzioso di testi, letti per ampie selezioni o integralmente, dall’altro lato vi sono autori di importanza cruciale (Tommaso D’Aquino ò tra questi) che hanno disseminato le loro riflessioni in opere molto ampie (come la Summa Theologiae o la Summa Contra Gentiles). Una rilettura attenta degli opuscoli filosofici può consentire di superare tale ostacolo ed accostare in modo didatticamente efficace un autore come Tommaso D’Aquino. Per quanto riguarda il periodo di composizione dell’opuscolo non vi ò dubbio che esso faccia parte degli scritti giovanili di Tommaso. Tolomeo da Lucca afferma che fu scritto a Parigi, nel corso dei primi anni di insegnamento, quando Tommaso non era ancora maestro, ma propriamente Baccelliere Biblico, ossia assistente di cattedra che teneva lezioni e svolgeva un ruolo preciso nelle dispute. Se si tiene conto del fatto che Tommaso ò giunto a Parigi nel 1252, ha iniziato a tenere lezioni come baccelliere nel ’54, ha conseguito la licentia docendi nei primi mesi del 1256 e fu accolto il 23 ottobre 1257 nella corporazione dei professori dell’Università  parigina, possiamo collocare il nostro scritto tra il 1254 e il 1256, periodo in cui Tommaso scrisse tre libri: il Commento alle Sentenze, il De principiis naturae, il De ente et essentia. I principali interpreti collocano la composizione del De ente et essentia dopo quella del De principiis naturae, mentre Tommaso – in qualità  di Baccelliere Biblico – commentava le Sentenze di Pier Lombardo, ad un’età  di circa 29-30 anni. Il motivo della composizione e i destinatari dell’opera possono essere desunti dalla dedica “ad fratres et socios”, ai confratelli ed ai compagni di studi. Fu probabilmente scritta per i compagni dell’Ordine che, giunti a Saint Jacques (il convento domenicano presso l’università  di Parigi) per gli studi superiori, erano probabilmente spiazzati dalla novità  rappresentata dall’uso delle nozioni filosofiche tratte dalla Metafisica di Aristotele. Probabilmente gli allievi avevano chiesto al loro giovane insegnante un compendio delle nozioni filosofiche fondamentali di cui si serviva e Tommaso ha probabilmente colto l’occasione per chiarire innanzitutto a se stesso il proprio lessico filosofico, che si andava progressivamente precisando. Del resto il genere letterario stesso dell’opuscolo filosofico o teologico (a differenza dei Commentari e delle Quaestiones disputatae, che sono frutto dell’attività  didattica ordinaria) si caratterizza proprio per il legame stretto con l’occasione per cui ò stato scritto, in genere legata ad esigenze espresse o inespresse di colui/coloro a cui ò dedicato. Ricordiamo che i destinatari degli opuscoli di Tommaso sono i più diversi: il re di Cipro, la duchessa di Brabante, il Papa Urbano IV, l’Arcivescovo di Palermo, il Maestro Generale dell’Ordine domenicano, o – in tre casi – fra Reginaldo da Priverno (il suo segretario), a cui riserva sempre dediche molto cordiali. I temi toccati dall’opuscolo saranno ripresi più volte nell’opera di Tommaso, sia direttamente – soprattutto nel Commento alla Metafisica di Aristotele e nelle Quaestiones Disputatae De Potentia – sia indirettamente, cioò utilizzando i concetti qui focalizzati per affrontare altre tematiche (per esempio nella Summa Theologiae o nella Contra Gentiles). Il pensiero di Tommaso mantiene, su queste tematiche, una profonda unità , anche se i diversi contesti, i diversi destinatari ed il diverso grado di complessità  dei problemi incidono sui diversi livelli di profondità  con cui le stesse tematiche sono affrontate nelle diverse opere. Il testo (1) del De Ente et essentia ci ò pervenuto in 165 manoscritti che riproducono il testo completo, 15 manoscritti incompleti, 39 edizioni a stampa (la prima delle quali, uscita a Padova, risale al 1475). L’edizione critica del testo ò stata curata dai Domenicani di Santa Sabina (2) ed ò apparsa nel 1976. Sono disponibili diverse traduzioni in lingua italiana (3). Nel sintetizzare l’opuscolo seguiremo la distinzione in capitoli che risulta dall’Edizione Leonina (così chiamata perchè si tratta della edizione critica delle opere di Tommaso voluta da papa Leone XIII iniziata dopo la pubblicazione dell’enciclica Aeterni patris) e dalla traduzione italiana di riferimento, ma gli stessi capitoli dell’opuscolo si inquadrano in uno schema strutturato che ò bene premettere all’analisi del testo stesso, in modo da avere fin da subito uno sguardo di insieme. Schema dell’opuscolo Prologo-Intento dell’opera Parte Prima- I termini del problema Cap. I- Che cosa significano i termini “ente” ed “essenza” Parte seconda – L’essenza si realizza diversamente nelle diverse realtà  Come l’essenza si realizza nelle sostanze composte (capp. II-III) Cap. II-L’ente delle sostanze composte: come si differenziano le essenze delle sostanze composte. Cap. III-Relazione tra l’essenza delle sostanze composte e le categorie logiche. L’essenza nelle sostanze semplici (capp. IV-V) Cap. IV-Negli enti semplici l’essenza non ò costituita da materia e forma. Le sostanze semplici sono formate da essenza e atto di essere, ricevono l’atto di essere da Dio (in quanto causa efficiente), sono composte da potenza e atto. Cap. V-L’essenza delle sostanze semplici (Dio, gli angeli e l’anima) e la loro relazione con le categorie logiche L’essenza negli accidenti (cap. VI) Cap. VI-Essenza dell’accidente. Distinzione degli accidenti dalla sostanza e tra di loro. Relazione tra l’essenza degli accidenti e le categorie logiche. 2. Sintesi del De Ente et Essentia Prologo Il breve prologo delinea l’intento dell’opera, che si configura come una sorta di “discorso sul metodo”, ovvero come una chiarificazione dei concetti fondamentali della metafisica e del loro uso filosofico; si sviluppa per gradi, secondo una propedeuticità  che si modella sul modo di procedere della nostra intelligenza: a partire da ciò che le ò più noto per giungere a ciò che ò meno noto. Si sottolinea l’importanza – per evitare di commettere errori che potrebbero diventare sempre più gravi – di chiarificare fin da subito il significato dei termini (operazione che verrà  compiuta nel capitolo primo). Capitolo I Il termine ente (4), propriamente parlando, può essere preso in due accezioni: a) l’una per cui esso “si divide nelle dieci categorie”, cioò l’ente reale, per cui non si può dire ente se non ciò che pone qualcosa nella realtà ; b) l’altra “che significa la verità  delle proposizioni”, vale a dire l’ente di ragione, per cui si può dire ente tutto ciò su cui ò possibile formulare una proposizione affermativa. In questa seconda accezione si può dire che “sono” anche le privazioni e le negazioni (5). “Ente” detto nel primo modo – come afferma Averroè – significa principalmente l’essenza e poichè l’ente, in tale accezione, si divide nelle dieci categorie ò necessario che il termine “essenza” designi qualcosa che ò comune a tutte le realtà  che si collocano nei diversi generi e nelle relative specie. Poichè ciò in forza di cui una determinata realtà  appartiene a un genere o a una specie viene indicato dalla definizione propria e formale, ne deriva che il termine essenza viene ad indicare – secondo l’espressione aristotelica – “ciò che l’essere era” (6), vale a dire il principio costitutivo dell’ente sotto l’aspetto formale. Un valore simile può essere dato al termine natura (7), che però designa l’essenza in quanto principio di operazioni: ogni essere esiste con una determinata essenza (che ò ciò per cui ò quello che ò, ossia si colloca in un determinato genere e specie) ed agisce secondo la propria essenza, quindi ha una natura (l’uomo parla ed il cane abbaia, perchè ciascuno agisce secondo la propria natura, cioò in conformità  con la propria essenza, per cui appartengono a due specie diverse). Si dicono enti in senso primario le sostanze (8), mentre gli accidenti vengono detti tali in senso derivato, per cui l’essenza si trova primariamente nelle sostanze, mentre negli accidenti si può parlare di essenza solo in un certo senso. Le sostanze, a loro volta, si dividono in semplici e composte: in entrambe vi ò l’essenza, ma quelle semplici hanno un essere più nobile e sono causa delle sostanze composte, ma giacchè per noi risulta più difficile la conoscenza dell’essenza di tali sostanze, ò opportuno iniziare la trattazione dall’essenza delle sostanze composte, in modo che – partendo da ciò che ò più agevole in rapporto al nostro modo di conoscere – il cammino di apprendimento risulti più adeguato. Capitolo II Le sostanze composte si dicono tali perchè hanno una “materia” e una “forma”, ed entrambe sono elementi costitutivi della loro essenza. Che la sola materia non possa costituire l’essenza delle sostanze composte ò evidente (visto che il motivo per cui si ascrive una sostanza ad una determinata specie ò sul versante della forma e non della materia), ma neanche la sola forma coincide con l’essenza: infatti – si ò detto – l’essenza ò ciò che viene indicato mediante la definizione della realtà  di cui stiamo parlando e la definizione delle sostanze naturali non contiene solo la forma, ma anche la materia, altrimenti le definizioni fisiche e quelle matematiche non differirebbero tra loro (9). Dopo avere escluso che la materia entri nelle definizione delle sostanze naturali “in aggiunta” all’essenza (questo ò proprio degli accidenti) o che l’essenza designi la relazione tra materia e forma, Tommaso conclude: “rimane dunque che il termine essenza nelle sostanze composte significa ciò che ò composto da materia e forma”, citando a suffragio di tale conclusione anche le posizioni di Severino Boezio, Avicenna e Averroè, per poi riprendere e precisare il discorso, dicendo che “concorda con questo anche la ragione, poichè l’essere di una sostanza composta non ò soltanto della forma, nè soltanto della materia, ma dello stesso composto. Ora l’essere ò ciò secondo cui si dice che una cosa ò. Perciò bisogna che l’essenza, per la quale una cosa ò denominata ente, non sia soltanto forma, nè soltanto materia, ma l’una e l’altra”. A questo punto, però, si pone il problema di conciliare tre elementi: l’universalità  dell’essenza di ciò che esiste (tutti gli uomini sono uguali in quanto uomini, come tutti i cavalli sono uguali in quanto cavalli, cioò hanno la stessa essenza); il fatto che nell’essenza delle sostanze composte sono incluse sia la materia che la forma (ò quanto si ò appena affermato); il fatto che il principio di individuazione dipenda dalla materia (se due cavalli sono uguali in quanto cavalli, si distinguono perchè l’uno ò questo cavallo e non quello). Tommaso scioglie questo nodo precisando in che senso la materia vada considerata principio di individuazione: non in assoluto (il fatto che Socrate abbia un corpo “umano”, con carne e ossa, fa parte della sua essenza di uomo), ma in quanto “signata quantitate” (10) (cioò “materia contrassegnata dalla quantità “, nel senso che un individuo ò tale non perchè ha carne ed ossa, ma perchè si tratta di questa carne e queste ossa). Un ulteriore approfondimento di tali idee passa attraverso la precisazione dei rapporti tra genere e differenza specifica, cercando di fugare alcuni equivoci derivanti dalle speculazioni di quanti hanno confuso l’ente reale con l’ente logico. Se stiamo parlando dell’ente reale, infatti, il rapporto tra genere e specie non va concepito intendendo il primo come una sorta di realtà  “chiusa” in se stessa, a cui le perfezioni proprie delle specie in cui si distingue si aggiungerebbero in modo quasi “estraneo”, mentre le diverse differenze specifiche sono contenute in modo implicito nella nozione del genere. Di conseguenza – scrive Tommaso – “se animale significasse soltanto una realtà  che possiede una perfezione tale che possa sentire e muoversi mediante un principio esistente in essa, con esclusione di un’altra perfezione, allora qualunque perfezione ulteriore si aggiungesse starebbe rispetto all’animale a modo di parte, e non come contenuta implicitamente nel concetto di animale: e così animale non sarebbe genere; invece animale ò genere in quanto significa una realtà  dalla cui forma può provenire il senso e il moto, qualunque sia quella forma, sia essa un’anima soltanto sensitiva, oppure allo stesso tempo sensitiva e razionale. Così dunque il genere indica in modo indeterminato tutto ciò che ò nella specie, giacchè non significa la sola materia. Allo stesso modo la differenza significa il tutto e non soltanto la forma”. In altri termini potremmo dire che l’essenza dell’ente reale include in sè il genere, la differenza specifica e la stessa materia da cui le sostanze composte non possono prescindere, anche se ciascuna si rapporta all’essenza in modo diverso: il genere (es. animale) designa la sostanza nel suo complesso, senza indicare la determinazione della forma che le ò propria, per cui esso viene – in qualche modo – ricollegato alla materia, anche se non deve essere confuso (11) con essa (il termine “animale”, detto di un uomo, non indica semplicemente la sua parte materiale, ma la sostanza di quell’uomo in quanto essere capace di sensazione e movimento, prescindendo dalla forma razionale che gli ò propria). La differenza specifica (es. “razionale”, nel caso dell’uomo) viene desunta direttamente dalla forma, prescindendo in prima istanza dal riferimento ad una materia determinata. La definizione, ossia la specie (“animale razionale”) li comprende entrambi, con un riferimento alla materia, designata dal genere, ed alla forma, designata dalla differenza specifica. Il genere, la differenza specifica e la specie si rapportano – rispettivamente – alla materia, alla forma ed al composto (sinolo), ma non vanno identificati con essi, perchè ciascuno di essi in realtà  designa il tutto (la sostanza) sotto un determinato aspetto. Per questo diciamo che l’uomo ò animale razionale e non che consta di animalità  e razionalità , come invece diciamo che consta di anima e corpo, per cui sono corrette tutte e tre le seguenti affermazioni: l’uomo ò un animale, l’uomo ò razionale, l’uomo ò animale razionale; mentre non ò corretta nessuna delle due: l’uomo ò corpo, l’uomo ò anima. A questo punto Tommaso considera il rapporto tra la specie e l’individuo, ovvero prende in esame la differenza tra l’essenza dell’individuo e l’essenza della specie. Se parliamo dell’ente reale vi ò un certo parallelismo tra il rapporto che abbiamo descritto tra genere e specie ed il rapporto tra specie ed individuo: come la natura del genere ò indeterminata rispetto alla specie, così la natura della specie ò indeterminata rispetto agli individui e come il genere contiene indistintamente il principio formale delle diverse differenze specifiche delle specie che esso racchiude, così la specie contiene in sè indistintamente il principio materiale dell’individualità . àˆ in questo modo che il termine “uomo” indica l’essenza della specie e si può predicare di tutti gli individui (Socrate ò uomo), nel senso che non esclude la designazione della materia (per cui Socrate ò un individuo diverso da Alcibiade), ma la contiene in modo indistinto. Se invece ci riferiamo all’ente di ragione, per cui intendiamo alludere all’essenza dell’uomo inteso come specie, allora usiamo il termine “umanità “, che non si può predicare degli individui (non si può dire “Socrate ò l’umanità “) perchè esclude il principio di individuazione ed ò questo il motivo per cui degli individui non si può dare una definizione. Capitolo III Si può parlare dell’essenza in termini di genere o di specie, se questa viene intesa come un “tutto” che contiene indistintamente e implicitamente ciò che ò proprio dell’individuo. La natura o essenza, così intesa, può a sua volta venire considerata in due modi: in primo luogo secondo la propria definizione, in astratto, in modo tale da escludere ogni determinazione accidentale che ò propria degli individui; in secondo luogo l’essenza può essere considerata secondo l’essere che ha nei diversi enti ed in questa seconda accezione si può predicare dell’essenza anche qualche determinazione accidentale. La natura – considerata in tal modo – ha due livelli di esistenza: l’uno nelle realtà  singolari, l’altro nella mente di chi le conosce. Nelle realtà  individuali la natura o essenza ha un essere molteplice, che dipende dalla loro diversità , e tuttavia alla natura stessa – considerata in astratto – non appartiene nessuna di tali differenze in senso proprio. Si deve dunque affermare che la natura dell’uomo, considerata in assoluto, astrae da qualsiasi essere, in modo tale – però – da non escludere nessuno di essi. La natura umana, considerata in astratto, non coincide però con la nozione universale di “umanità “, che ha la caratteristica di essere “comune” a tutti gli uomini: se la natura umana (ancorchè considerata in astratto) coincidesse semplicemente con l’universale “umanità ” ognuno degli uomini (di cui si dice che ha la natura umana) avrebbe anche la caratteristica della “comunanza” che invece ò propria della specie intesa in senso logico. La nozione della specie appartiene dunque alla natura umana – intesa in astratto – solo per quell’essere che questa (la natura umana) ha nell’intelletto e non per quello che ha negli individui. Interessante ò l’esempio che Tommaso usa per chiarire questo delicato passaggio della propria opera; supponiamo che esista una statua raffigurante (dal punto di vista corporeo) una pluralità  di individui (possiamo immaginare dei gemelli o degli individui dai tratti somatici molto simili), ò facile constatare come l’immagine corporea (la figura) di quella statua avrebbe un suo essere individuale in quanto esistente in quella materia (marmo o bronzo) e l’aspetto della comunanza in quanto capace di rappresentare una pluralità  di individui (tutti i gemelli che hanno quell’aspetto fisico) (12). La natura umana – considerata in astratto, quindi prescindendo dalle differenze individuali – si predica di Socrate in senso proprio, mentre l’umanità  (intesa come specie) ò tale solo in forza di un accidente che le deriva dal fatto di esistere nell’intelletto umano (ò proprio della specie il fatto di essere “predicabile di molti” in quanto nozione comune ad essi). Tuttavia, il motivo per cui l’intelletto individua nel genere e nella specie la caratteristica di cui sopra (il fatto di essere predicabile di molti allo stesso modo) ha un fondamento nella realtà  delle cose, che hanno una loro unità  per cui l’una si dice dell’altra: il fatto che di Socrate si possa dire che ò “uomo”, come lo si può dire di Platone dipende dal fatto che la loro natura – considerata in astratto e prescindendo dalle differenze individuali – ò effettivamente “una”: per questo motivo si dice che l’umanità  (intesa come specie) ò comune a tutti coloro di cui si può predicare (gli uomini). La nozione di specie si rapporta a quella di natura o essenza in forza di un accidente che questa assume quando esiste nell’intelletto umano. Capitolo IV Si discute sull’esistenza di sostanze totalmente immateriali (le intelligenze angeliche e le anime umane) di cui Avicebron sostiene che sono composte di materia e forma, mentre Aristotele dimostra che – essendo capaci di accogliere le forme intelligibili – devono essere a loro volta prive di ogni materialità , ma non sono prive della composizione tra essenza ed essere. àˆ infatti possibile che esistano forme senza materia (visto che ò la forma a conferire l’essere alla materia nelle sostanze materiali, e non viceversa), anzi si tratta di forme più vicine al principio primo che ò Atto Puro e in esse coincidono la forma e l’essenza (mentre questo non accade per le sostanze materiali, in cui la stessa essenza ò composta di materia e forma). Questo comporta il fatto che le essenze delle realtà  composte, per il fatto di essere ricevute nella materia contrassegnata dalla quantità  (che ò principio di individuazione), si moltiplicano in forza della divisione della materia e possono essere identiche nella specie e diverse nel numero, mentre per le sostanze immateriali vi sono tante specie quanti sono gli individui, come affermava anche Avicenna. Tali sostanze però non sono del tutto prive di ogni forma di composizione e di potenzialità , visto che nessuna di tali sostanze ha l’essere per essenza (questo si può dire solo dell’Essere assolutamente primo, che esiste in modo necessario, cioò l’Atto Puro), dunque vi ò in esse – come in tutte le sostanze che esistono (13) – una distinzione reale tra essenza e atto di esistere. Tutto ciò che caratterizza una determinata realtà  o ò causato dai principi della sua stessa natura (come ò per l’uomo il fatto di essere capace di sorridere) o proviene da un principio estrinseco (come la luce nell’aria quando ò illuminata); ma non ò possibile che l’atto di essere di una determinata forma sia causato da quella stessa forma come causa efficiente. Quindi – dato che l’essere delle sostanze immateriali ò distinto dalla loro forma o essenza – ò necessario che ogni realtà  in cui l’essere ò distinto dalla sua essenza riceva l’atto di esistere da un altro. Tutto ciò che riceve da un altro qualcosa ò in potenza rispetto ad esso e ciò che viene ricevuto rappresenta il suo atto, il che significa che la stessa essenza – in quanto tale – ò in potenza rispetto all’atto di essere che riceve da Dio (14). Vi ò pertanto una distinzione ed una gerarchia tra le intelligenze separate, secondo il grado della potenza e dell’atto: l’intelligenza superiore, che ò più vicina (ontologicamente, cioò simile) al primo ha un grado maggiore di atto e minore di potenza, e così via. L’anima umana si trova in una situazione particolare: occupa l’ultimo posto (cioò il grado ontologicamente più basso) tra le sostanze intellettive, per cui il suo intelletto passivo si rapporta alle forme intelligibili come la materia prima si rapporta a quelle sensibili e – scrive Tommaso – “per il fatto che tra le altre sostanze intelligibili ha un grado maggiore di potenzialità , si fa talmente vicina alle altre realtà  materiali, che la realtà  materiale viene tratta a partecipare del suo essere, cosicchè dall’anima e dal corpo risulta un solo essere in un solo composto; benchè quell’essere, in quanto ò proprio dell’anima, non sia dipendente dal corpo. Dopo questa forma che ò l’anima si trovano le altre forme che hanno un grado ancora maggiore di potenza e sono più vicine alla materia, tanto che non possono sussistere senza la materia” (15). Capitolo V Da quanto affermato nei capitoli precedenti risulta chiaro come l’essenza si possa trovare nelle diverse realtà  in tre modi, che Tommaso presenta secondo un ordine discendente: Dio, le sostanze puramente spirituali create, le sostanze composte di materia e forma. In Dio l’essenza coincide con il suo stesso essere, nel senso che gli compete l’essere per essenza (ò l’Essere Necessario) e che ò perfettamente in atto (Atto Puro, non vi ò nella sua essenza nulla che non sia anche esistente in atto); da ciò consegue che Egli non sia un genere nè in un genere, ò distinto da ogni essere, possiede in modo eminente ed eccellente tutte le perfezioni che si trovano in tutti i generi e che in Lui sono una cosa sola. Nelle sostanze intellettuali create l’essere ò distinto dall’essenza, benchè la loro essenza sia priva di materia e coincida con la forma. Perciò il loro essere non ò assoluto, ma ò “ricevuto”, mentre la loro forma non ò ricevuta in alcuna materia (16), per cui ognuna di esse ò una specie a se stante (non si trova rispetto ad esse la pluralità  degli individui della stessa specie), con eccezione dell’anima umana, a motivo del corpo a cui – per essenza – ò unita. Riguardo alla possibilità , da parte nostra, di conoscere le differenze essenziali (cioò le differenze specifiche) che distinguono tali sostanze Tommaso propone una sintetica riflessione che risulta illuminante anche in rapporto al modo con cui ci ò dato conoscere l’essenza delle realtà  materiali: “si trovano in esse il genere, la specie e la differenza, benchè le loro differenze specifiche siano per noi inconoscibili. Infatti anche nelle realtà  sensibili ci sono ignote le differenze essenziali (che le distinguono tra loro); per cui tali differenze (che ci sono ignote) vengono indicate mediante le differenze accidentali che nascono da quelle essenziali, come la causa ò designata mediante il suo effetto (… ). Gli accidenti propri delle sostanze immateriali ci sono ignoti; per cui le loro differenze non possono essere indicate da noi, nè per sè, nè mediante le differenze accidentali” (17). Le differenze specifiche delle sostanze immateriali dipendono dal loro grado di perfezione. In un terzo modo l’essenza si trova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali l’essere ò contrassegnato da un duplice legame con la finitudine e la potenzialità : l’atto di essere ò finito e ricevuto da un altro essere e l’essenza stessa ò ricevuta nella materia contrassegnata dalla quantità . Nelle sostanze corporee, propria a motivo della loro materialità , ò possibile la molteplicità  numerica degli individui di una stessa specie. Capitolo VI Tommaso introduce l’ultimo capitolo chiedendosi in qual modo si possa parlare di essenza degli accidenti. Questi, avendo una definizione incompleta (non ò possibile definirli in modo completo senza dire anche “di quale soggetto” sono accidenti) che dipende dal fatto che hanno un essere solo accidentale (non possono esistere “in se”, ma solo “in altro”), avranno anche una “essenza incompleta”. Gli accidenti infatti ineriscono a sostanze che hanno già  un loro “essere in sè” e causano in esse solo un essere secondario, perciò l’unione stessa dell’accidente con la sostanza non ò a sua volta un essere in sè, ma ha una sua consistenza ontologica accidentale. Gli accidenti si possono a loro volta distinguere secondo il fatto che il loro essere (che si collega all’essenza delle sostanze a cui ineriscono) dipenda più dalla forma o dalla materia (18); le nozioni di genere, specie e differenza specifica vanno dunque intese – negli accidenti – in modo diverso rispetto alle sostanze. L’unione dell’accidente con il soggetto, infatti, non costituisce per sè un’unità  essenziale, per cui dalla loro unione non risulta una natura che possa essere designata come genere o specie. Si distinguono i diversi tipi di accidenti (i nove predicamenti diversi dalla sostanza) secondo il modo diverso in cui si riferiscono alla sostanza: la quantità  perchè costituisce la misura delle sostanze corporee, la qualità  in quanto disposizione della sostanza, e così via (19). All’interno di ciascuno di tali generi di accidenti le differenze specifiche (cioò i diversi tipi di qualità , di quantità , ecc. ) si desumono dalla diversità  dei principi da cui gli accidenti vengono causati e poichè gli attributi propri vengono causati dai principi propri del soggetto, questo entra nella loro definizione in luogo della differenza specifica, come ad esempio quando si dice che la scienza (cioò il possesso di determinate conoscenze organizzate) inerisce ad una determinata sostanza (un uomo) come accidente di tipo qualitativo (e si tratta di una qualità  di specie diversa rispetto, ad es., al colore). Risulta pertanto evidente – conclude Tommaso – che l’essenza si trova in modo diverso nelle sostanze e negli accidenti, così come si trova diversamente nelle sostanze composte, nelle sostanze semplici e nell’essere perfettissimo in cui essenza ed esistenza coincidono. Interpreti novecenteschi del De Ente et Essentia: Stein, Maritain, Gilson, Fabro Storicamente, il primo celebre commento del De Ente et essentia ò indubbiamente quello del Card. Gaetano (20), scritto per gli studenti di metafisica dell’Università  di Padova nel 1493 e pubblicato nel 1496. Si tratta di un commento non molto ampio, ma acuto e originale, sostenuto dall’autorevolezza di un grande interprete del pensiero di Tommaso che ha certamente contribuito alla fortuna dell’opera nel corso della storia. Tra i commentari “antichi” del nostro testo possiamo citare anche quello di Pietro di Crokaert (21) pubblicato nel 1510, quello del De Ripa (22) e quello di Geronimo Contanero (23) del 1606. I nodi concettuali maggiormente dibattuti dagli scolastici dei secoli successivi al XIII ruotano attorno alle definizioni fondamentali poste da Tommaso nell’opuscolo, a partire dagli stessi termini che ne costituiscono il titolo, con particolare riferimento alle modalità  della distinzione tra essenza e atto di essere: i tomisti rigorosi sostengono la necessità  di affermare una distinzione reale (distinctio realis), i suareziani contestano tale scelta e propendono per una differenza a livello puramente concettuale, che ha il suo fondamento nella reale contingenza dell’esistenza delle realtà  create (distintio rationis cum fundamento in re, detta anche distinctio virtualis); gli scotisti parlano – a loro volta – di una differenza formale con un fondamento nella cosa stessa (distinctio formalis ex natura rei). Edith Stein Un posto peculiare nel panorama delle interpretazioni dell’opuscolo De Ente et Essentia va riservato a Edith Stein, che aveva elaborato all’inizio del 1930 un ampio studio dal titolo Potenz und Akt. Quando nel 1934 la direzione delle Carmelitane le affidò l’incarico di predisporre tale scritto per la pubblicazione, la Stein riscrisse interamente l’opera, ponendo al centro della propria riflessione un confronto plurilaterale tra le dottrine di Tommaso, rilette alla luce dei criteri interpretativi della fenomenologia husserliana, le riflessioni di Heidegger sul senso dell’essere e le sollecitazioni provenienti dal testo di Pwzywara (Analogia entis, la cui prima parte fu pubblicata nel 1931) e la prima delle allieve di Husserl, Hedwig Conrad-Martius. In tale orizzonte possiamo collocare la prospettiva in cui la Stein vede la centralità  del problema dell’essere in vista dell’elaborazione di una philosophia perennis, nel senso più alto dell’espressione: “Se possiamo considerare predominante il problema dell’essere tanto nel pensiero greco che in quello medioevale – sia pure con la differenza che per i Greci questo problema sorgeva in relazione alla datità  naturale del mondo creato, mentre per i pensatori cristiani (e in una certa misura anche per quelli ebrei e islamici) si allargava a motivo del mondo soprannaturale costituito da ciò che ò offerto dalla Rivelazione -, costatiamo che il pensiero moderno, staccatosi dalla tradizione, ò caratterizzato dal fatto d’avere considerato centrale il problema della conoscenza invece che quello dell’essere e d’aver sciolto di nuovo il legame con la fede e la teologia. (… ) E si giunse alla scissione della filosofia in due correnti, che avanzarono separatamente, usando diversi linguaggi, senza preoccuparsi più di intendersi reciprocamente: da un lato la filosofia moderna e dall’altro la filosofia scolastica cattolica, che si riteneva philosophia perennis, ma che dal di fuori venne considerata come un fatto privato delle facoltà  teologiche, dei seminari ecclesiastici e dei collegi religiosi. (… ) Il flusso della vita, tuttavia, si ò scavato un altro letto. Gli ultimi decenni hanno portato un cambiamento di situazione che si era preparato da varie parti e innanzi tutto in campo cattolico. (… ) Non ò sorprendente che occorressero proprio i decreti di Leone XII e di Pio I per dare nuova vita allo studio di san Tommaso, che ciò fosse indispensabile perchè si sentisse prima di tutto l’urgenza di provvedere a un’edizione utilizzabile delle sue opere, che nelle biblioteche ci fosse ancora tanta dovizia di materiale manoscritto inedito e totalmente sconosciuto, e che solo negli ultimi anni si sia iniziata un’ampia opera di traduzione? (… ) Il moderno rifiorire delle scienze dello spirito, esso stesso frutto della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX ha sostanzialmente contribuito alla riuscita di queste imprese. Noi sappiamo oggi che il tomismo non ò uscito dalla mente del suo maestro come un sistema già  compiuto di concetti; sappiamo che ò una vivente creazione dello spirito, di cui possiamo seguire la formazione e la crescita. Esso richiede d’essere assimilato da noi e di ritrovare in noi una nuova vita” (24). Tre sono dunque i problemi di fondo che emergono nell’ontologia di Edith Stein: l’essere stesso, la struttura dell’ente e infine la sua articolazione nella molteplicità  fenomenica. Scorrendo l’indice dell’opera da cui abbiamo preso le mosse si osserva immediatamente come le tre problematiche suddette vengano articolate in otto grandi temi che costituiscono i capitoli in cui si divide il testo: il problema dell’essere; atto e potenza come modi dell’essere; essere essenziale ed essere attuale-reale; essenza–essentia, ousia-sostanza, forma e materia; l’ente in quanto ente (i trascendentali); il senso dell’essere; l’immagine della Trinità  nella creazione; significato e fondamento dell’essere individuale. L’impostazione fenomenologica dell’analisi della Stein emerge con evidenza fin dalla scelta del punto di partenza dell’indagine sulla questione dell’essere, individuato nel “dato di fatto” dell’esistenza del proprio essere: “Tutte le volte che lo spirito umano nella sua ricerca della verità  ha cercato un punto di partenza infallibilmente certo, si ò imbattuto in questo qualche cosa inevitabilmente vicino: il dato di fatto del proprio essere. (… ) Questa certezza del proprio essere ò in certo senso la conoscenza più originaria; non ò la prima nell’ordine temporale, poichè l’atteggiamento naturale dell’uomo ò rivolto innanzitutto al mondo esterno, e occorre molto tempo prima che egli trovi finalmente se stesso; e non lo ò nemmeno nel senso di un principio da cui si possano dedurre logicamente tutte le altre verità  o in base al quale commisurare tutte le altre; ma lo ò nel senso di ciò che mi ò più vicino, che ò da me inseparabile e perciò come un punto di partenza al di là  del quale non si può andare. (… ) Appena lo spirito si immerge con la riflessione nella considerazione del semplice dato di fatto del suo essere, gli si affaccia un triplice interrogativo: che cos’ò l’essere di cui io sono consapevole? Che cos’ò l’Io, che ò consapevole del suo essere? Che cos’ò quel moto dello spirito in cui mi trovo e in cui sono consapevole di esso in quanto mio e in quanto moto? ” (25). Le modalità  dell’indagine della Stein procedono – in linea con l’impostazione husserliana – attraverso l’analisi delle unità  di vissuto di cui si possono stabilire le condizioni di esistenza; al termine di questa disamina ella confronta le proprie conclusioni con quelle di Tommaso nel De Ente et essentia, mettendone in luce la sostanziale convergenza: “Concludiamo: la ousia nel senso più stretto e proprio, quello che in fondo importava ad Aristotele, ò la sostanza cioò un reale fondato in sè, che contiene in sè la propria essenza e la sviluppa. L’essentia ò la determinazione essenziale di questo ente inseparabile dall’essere, e che lo fonda. Negli esseri materiali ha la sua radice nella forma essenziale che dà  forma alla materia; se sono oggetti materiali simpliciter, non si può separare la materia dalla forma: l’essenza ò la materialità  di una determinata specie, o forma; la materia ò sempre formata in modo caratteristico, non ò pensabile senza forma. Nei viventi la forma e la materia sono separabili: la forma ò forma vivente, ossia anima. Ha il potere di dare forma al tutto in modo caratteristico e di animarlo. Il suo essere ò vita, e la vita consiste nel dare progressivamente forma alla materia, e quindi in una attuazione progressiva dell’essenza, la cui caratteristica ò appunto quella di dare forma alla materia. Gli esseri materiali estesi – inanimati e viventi – non esauriscono quanto si intende per ousia. L’ente sussistente esiste anche nel mondo dello spirito” (26). La vera conclusione dell’opera della Stein, che dà  il titolo alla medesima, consiste nell’esplicitazione dei nessi che distinguono da un lato e legano dall’altro l’essere temporale con l’essere eterno: “L’essere reale-temporale non ò una realtà  compiuta (= atto puro), ma la realizzazione di possibilità  essenziali, aventi un inizio e un progresso. Questo implica l’opposizione tra essere autonomo e essere non-autonomo: l’inizio della realizzazione ò il passaggio della possibilità  essenziale alla realizzazione temporale o ingresso nell’essere reale (Dasein) temporale; la realizzazione graduale implica un ente che porta in sè delle possibilità  non realizzate: qualcosa che non ò ancora ciò che deve essere, però ò già  determinato nel suo dover essere, e quindi il suo procedere ò prestabilito. L’essere reale-temporale ò fondato su di sè e determinato in quanto all’essenza (ousia = sostanza). Le sue possibilità  (potenze) non realizzate sono fondate in esso e il loro essere partecipa del suo essere. La loro realizzazione ò la sua realizzazione e quindi il suo passaggio ad un grado superiore dell’essere” (27). Jacques Maritain Un contributo particolarmente significativo ò quello di Jacques Maritain, la cui riflessione si inserisce nel dibattito sul primato dell’esistenza sull’essenza sollevato da Heidegger e Sartre. Maritain sostiene il primato non già  dell’esistenza, ma dell’esistente, della concreta realtà  dell’ente in cui la nostra intuizione intellettuale può cogliere l’essere, fondamento primo di ogni riflessione metafisica. “L’oggetto della metafisica (… ) ò l’essere in quanto essere, ens in quantum ens, l’essere non investito o incorporato nella quiddità  sensibile, nell’essenza o natura delle cose sensibili, ma al contrario abstractum, l’essere liberato e isolato (per quel tanto che l’essere può fare astrazione dai suoi inferiori), ò l’essere liberato e isolato dalla quiddità  sensibile, l’essere visualizzato come tale e liberato nei suoi puri valori intelligibili. Quindi, la metafisica, al grado più elevato della conoscenza naturale, e nel momento in cui la conoscenza naturale diviene pienamente sapienza, fa emergere nei suoi valori puri, e svela ciò che ò avviluppato e velato nella primissima conoscenza intellettiva. (… ) Notiamo adesso che l’essere presenta due aspetti: l’aspetto essenza, che risponde innanzitutto alla prima operazione dello spirito (la formazione dei concetti ò ordinata prima di tutto a cogliere, sia pure in molti casi ciecamente, le essenze, che sono attitudini positive a esistere); e l’aspetto esistenza, l’esse propriamente detto, che ò il termine perfettivo delle cose, il loro atto, la loro ‘energia’ per eccellenza, la suprema attualità  di tutto ciò che ò. E non bisogna credere che questo secondo aspetto, sovrano e perfettivo dell’essere, sfugga all’intelligenza. I platonici tendono generalmente a limitare l’oggetto dell’intelligenza umana alle essenze, mentre la direzione profonda della filosofia di san Tommaso porta l’intelligenza, la filosofia, e la metafisica, non solo alle essenze, ma anche all’esistenza, a questo termine perfetto e perfettivo, a questo estremo completamento dell’essere” (28). Tra le dottrine più caratteristiche – e più discusse – della riflessione di Maritain vi ò quella dell’intuizione dell’essere in quanto essere, che egli esprime in questi termini: “L’essere che ò oggetto del metafisico, l’essere in quanto essere, non ò nè l’essere particolarizzato delle scienze della natura, nè l’essere vago del senso comune, nè l’essere derealizzato della vera logica, nè lo pseudo-essere della pseudo-logica, ma ò l’essere reale in tutta la purezza e l’ampiezza della sua intelligibilità  propria e del proprio mistero. Questo essere ò sussurrato nelle cose e in tutte le cose, le cose lo dicono all’intelligenza, ma non lo dicono a tutte le intelligenze: solo a quelle che sanno intendere, per cui anche qui si può dire con ragione: qui habet aures audiendi, audiat. L’essere appare allora secondo i suoi caratteri propri come transoggettività  consistente, autonoma e essenzialmente varia, perchè l’intuizione dell’essere ò nello stesso tempo intuizione del suo carattere trascendentale e del suo valore analogico. Non basta imbattersi nella parola essere, dire ‘essere’, bisogna avere l’intuizione, la percezione intellettuale dell’inesauribile e incomprensibile realtà  così manifestata come oggetto. àˆ questa intuizione che fa il metafisico” (29). àˆ nell’intuizione intellettuale dell’essere in quanto essere che il metafisico “vede” – secondo Maritain – la pluriforme ricchezza analogica dell’essere stesso e – in essa – il principio primo del conoscere, ossia il principio di non contraddizione: “Il filosofo, quando esprime il principio di identità , lo esprime in funzione dell’intuizione metafisica dell’essere, e, allora, vede in quel principio la prima legge fondamentale della stessa realtà , legge meravigliosa perchè afferma ex abrupto il primo mistero dell’essere, la sua consistenza e nello stesso tempo la sua abbondanza, legge che si tradurrà  nelle cose, secondo modalità  infinitamente differenti e secondo un’infinita varietà  di applicazioni; non ò affatto in ragione di una specie di procedimento logistico che il metafisico vede e impiega il principio di identità , quasi che secondo tale principio, si debba ridurre al puro identico, cioò cancellare tutte le diversità  e tutte le varietà  dell’essere. Perchè egli intuisce questo principio col suo modo di realizzazione analogico; nello stesso momento in cui ha intuito l’essere in quanto essere, l’essere nel suo puro tipo intelligibile, egli ha intuito il valore analogo, essenzialmente analogo, del concetto di essere, che ò implicitamente molteplice e si realizza nelle diverse cose in modo da ammettere tra di esse delle differenze di essenza, anche totali e abissali; il principio di identità  salvaguarda la molteplicità  e la diversità  delle cose e, ben lontano dal riportare tutte le cose all’identico, ò, come dicevamo altrove, il custode della molteplicità  universale, l’assioma delle diversità  irriducibili dell’essere: se ogni essere ò ciò che ò, esso non ò ciò che sono gli altri esseri” (30). à‰tienne Gilson Tra i grandi interpreti che nel ‘900 hanno proposto autorevoli interpretazioni del De Ente et essentia, va citato certamente à‰tienne Gilson, che nella sua celebre opera del 1948 (31), L’essere e l’essenza, si muove secondo le tre coordinate fondamentali della sua riflessione: l’analisi del patrimonio storico della filosofia, l’esplicitazione storico-critica delle problematiche gnoseologiche sottese alle diverse posizioni, per giungere fino a considerazioni di teologia naturale come momento culminante della speculazione metafisica a cui la riflessione gnoseologica deve sempre rimanere ancorata. Il nodo storico fondamentale che viene affrontato ò quello del rapporto tra la tentazione “essenzialista” ed una metafisica dell’essere, nel corso dei secoli. Dopo avere preso le mosse dai filosofi della Grecia antica, Gilson giunge al dibattito proprio del pensiero medievale, esponendo in modo analitico le ragioni di Avicenna, Averroè, Sigieri di Brabante, per poi presentare – all’interno del proprio contesto storico – la riflessione metafisico-gnoseologica di Tommaso d’Aquino, di cui si coglie la specificità  in questi termini: “Il rapporto dell’esistere con l’essenza si presenta quindi come quello di un atto che non ò una forma, con una potenzialità  che non ò una materia, cioò con una sorta di potenzialità . àˆ necessario ora stabilire la possibilità  stessa di un tale rapporto, poichè ci si può domandare se, nel caso in cui l’atto di cui si tratta sia l’esistenza, la sua composizione con una potenza qualunque sia concepibile. Per poter entrare in composizione reale con l’esistenza, bisogna evidentemente che l’essenza stessa sia reale, cioò che essa esista; ciò che si chiama composizione reale di essenza e di esistenza, si dirà , dovrebbe dunque piuttosto chiamarsi composizione reale di esistenza e di esistenza, il che ò assurdo. In altri termini, se l’essenza di cui si parla esiste, essa non deve più comporsi con l’esistenza; se essa non esiste, poichè non ò nulla, essa non può comporsi col nulla. (… ) Ora, ciò che dice proprio Tommaso, ò che l’esistenza non ò concepibile se non come quella di una sostanza che esiste. Poichè ò esatto dire che, se noi la separiamo dal concetto di ciò che esiste, cioò dalla sostanza o dalla “cosa”, la “esistenza” come tale ò un termine senza contenuto proprio, ma non bisogna affrettarsi a concludere che ciò che non ò oggetto di concetto, non ò oggetto di conoscenza, e che ciò che non ò oggetto di conoscenza non ò. àˆ tuttavia quello che si fa; poichè, si dice – in quanto nè per l’uomo nè per Dio stesso l’atto d’essere non ò concepibile al di fuori di un’essenza qualunque – l’esse non ha esistenza propria che gli permetta di comporsi con l’essenza, nè di distinguersene. Qui non si tratta più semplicemente di scegliere tra due interpretazioni possibili dell’ontologia tomista, ma tra due concezioni eterogenee e della filosofia stessa. Sul fatto che non possediamo un concetto quidditativo dell’esse, tutti sono d’accordo; ma la difficoltà  non ò qui. Ci si dice che ciò che non ò concepibile non ò pensabile, e ciò che non ò pensabile non ò. Ora, può darsi precisamente che la metafisica di san Tommaso richieda un metodo più complesso di questo concettualismo intransigente, la cui legge sembra talvolta voler dominare l’intelletto di Dio stesso. Se l’ontologia tomista include, come abbiamo detto, quella di Aristotele, essa deve in effetti riconoscere la presenza, nella struttura di ciascun essere reale, di una causa dell’essere afferrabile da un concetto, che ò l’essenza, ma se l’ontologia tomista comporta inoltre uno sforzo per oltrepassare quella di Aristotele, ponendo al di là  dell’essenza un atto dell’essenza stessa, essa obbliga a riconoscere l’attualità  propria di un esse che, poichè trascende l’essenza, trascende anche il concetto. Le argomentazioni in senso contrario sono formalmente impeccabili, ma esse provano che san Tommaso non avrebbe potuto distinguere realmente l’essenza dall’esistenza, se avesse identificato il reale con il pensabile e il pensabile con ciò che ò oggetto di un concetto quidditativo. Come avrebbe potuto fare? Esigere che l’esse sia concettualizzabile, ò volere che esso sia una cosa; ora, se ciò che abbiamo detto ò vero, l’esse ò l’atto costitutivo ultimo di ogni cosa; esso stesso non potrebbe esserne una. Resta dunque possibile, per un’ontologia che non sia un “cosismo” integrale, comporre l’esistere con l’essenza e distinguerlo” (32). Gilson può poi passare all’analisi del rapporto tra essere ed essenza, mettendo in luce quello che dal suo punto di vista ò il “cuore” dell’opera di Tommaso di cui qui ci stiamo occupando, ossia le modalità  della distinzione tra essenza e atto di essere: “Il principio che fonda la necessità  di questa distinzione si trova nel fatto stesso che finisce per renderla inconcepibile. L’esse, facciamo notare, non ò concepibile che in un’essenza. Niente ò più vero, ma ò proprio per questo che, quando si parla di un atto finito di esistere, bisogna necessariamente che questo atto e la sua essenza siano aliud et aliud. Ci sono degli esseri finiti, ò un fatto, e sono anche i soli esseri di cui abbiamo esperienza; ora, la possibilità  di un essere finito suppone che il suo atto di esistere sia “altro” dalla sua essenza. Se si trattasse in effetti dell’esse puro, non sarebbe così. L’atto puro di esistere ò integralmente atto, cioò lo ò sotto tutti gli aspetti e in tutti gli ordini, per la semplice ragione che essendo anteriore a tutti come la condizione della loro stessa possibilità , li trascende tutti. L’esse puro non ò dunque solamente illimitato nell’ordine dell’esistenza propriamente detta, lo ò anche nell’ordine dell’essenza, poichè precede quest’ordine e, di conseguenza, nessuna determinazione essenziale si applica ad esso. Ed ò per questo, come san Tommaso nota nel De ente et essentia, che alcuni filosofi hanno potuto sostenere che Dio non ha essenza; poichè egli ò l’esse puro, ciò che si chiamerebbe la sua quiddità , o essenza, si confonde in effetti necessariamente con il suo esse. Per ragioni legate senza dubbio alla sua dottrina dei nomi divini, san Tommaso sembra avere evitato di negare che Dio abbia una essenza; preferisce dire che l’essenza di Dio ò il suo atto stesso di esistere. D’altronde in qualsiasi modo lo si esprima, il fatto resta quello che ò: l’esse puro non ò determinato da alcuna essenza che lo faceva essere tale. Al livello supremo dell’essere in cui tentiamo qui di elevarci, il problema del rapporto tra essenza ed esistenza svanisce, per riduzione dell’essenza all’atto puro di esistere” (33). Gli interrogativi che lo storico della filosofia si pone di fronte a tali riflessioni sono numerosi e profondi, per cui lo stesso Gilson si preoccupa di approfondire ulteriormente il significato delle speculazioni metafisiche di Tommaso, anche per mettere in luce il rapporto che esse hanno con il dibattito filosofico del loro tempo e porre le premesse per capire per quali motivi siano state lette in un certo modo dagli autori delle epoche successive. Riportiamo ancora alcuni passaggi che ci sembrano importanti: “Non bisogna dunque immaginare la composizione metafisica di essenza e di esistenza come una composizione fisica tra due elementi, di cui ciascuna dovrebbe già  godere, per renderla possibile, dell’esistenza concreta che la loro composizione ha per fine di spiegare. Un esistente non ò composto da esistenti, ma da elementi che dipendono tutti dall’ordine dell’essere, sebbene sotto aspetti diversi. Non soltanto può darsi che questi elementi componenti non siano nulla gli uni senza gli altri, ma ò necessario (… ) che ciascuno di questi elementi non sia in effetti nulla di ciò che ò l’altro. E questo ò proprio il caso. In una sostanza concreta realmente esistente, la forma, presa in se stessa, ò un non essere di esistenza attuale, poichè, precisamente in quanto forma, essa non ha nessun’altra esistenza se non quella di cui essa partecipa. Se ora si vuole parlare non più solamente di un non-essere di esistenza attuale, ma del non-essere dell’atto o della forma per cui qualcosa partecipa all’esistenza, allora ò la materia, naturalmente priva di questo atto che diventa un non-essere; quanto alla forma sussistente, non si presenta più allora come un non-essere, ma come essente, al contrario, un atto. In senso proprio, presa in se stessa, essa ò la forma che partecipa all’atto ultimo, che ò l’esistere. Ritroviamo dunque qui, sotto un altro aspetto, l’ordine ontologico doppio di cui notavamo la presenza all’interno della sostanza stessa. La materia non ha essere attuale che per la forma; chi negherà  tuttavia che vi sia, in san Tommaso, distinzione reale di forma e di materia? A sua volta l’unione della materia e della forma non ha esistenza che attraverso il suo atto di esse, rispetto al quale essa ò essa stessa in potenza, da cui essa ò a sua volta veramente distinta e inseparabile, e con il quale essa deve dunque necessariamente comporsi. (… ) Queste analisi ci lasciano in presenza di un universo, il cui essere ò, questa volta, tutt’altro che quello del mondo di Aristotele. Il cuore del reale non ò più la sostanza che ò, e neanche la forma, il cui atto la fa essere ciò che essa ò, ma l’esse, il cui atto la fa esistere. Si ritrova naturalmente qui, ma su un altro piano e ad una profondità  mai prima attinta, la formula neoplatonica del Liber de causis tante volte citata e commentata nel medioevo: prima rerum creatarum est esse. Essa non significa più ormai che la prima realtà  che merita il nome di essere sia prodotta da un principio primo trascendente l’essere stesso, essa vuol dire invece che da un principio primo, che ò esso stesso l’Esse assoluto, derivano per via di creazione gli atti di esse, finiti e delimitati dalla loro essenza, ma in ciascuno dei quali si trova anzitutto, come condizione della possibilità  di tutto il resto, il suo proprio atto di esistere” (34). Il testo di Gilson prosegue la sua analisi storica mettendo in luce come la possibilità  del ritorno di qualche forma di “essenzialismo” sia sempre in agguato e ad essa tornano già  gli scolastici immediatamente successivi all’Aquinate e molti dei grandi trattatisti che consegneranno al pensiero filosofico moderno una “ontologia” che sarà  prevalentemente caratterizzata da posizioni di tipo essenzialistico. Contro tale ontologia insorgerà  il pensiero moderno, da Cartesio a Kant e fino agli autori del XX secolo noti a Gilson mentre scriveva la sua opera. Parlando di Wolff, in particolare, Gilson sottolinea come egli definisca l’esistenza come il “complemento della possibilità “, fondandosi sulla definizione di “ente” più “essenzialista” che si possa immaginare: Ens dicitur quod existere potest, consequenter cui existentia non repugnat (35) (si dice “ente” ciò che può esistere, e – di conseguenza – ciò rispetto a cui non ò contraddittoria l’esistenza). Le critiche di Kant e dei filosofi a lui successivi contro questo tipo di ontologia “essenzialista” non fanno altro che metterne in luce i limiti e le contraddizioni, senza con questo inficiare quella metafisica dell’atto di essere che ò invece caratteristica del pensiero di Tommaso. Nei capitoli conclusivi del testo Gilson riflette, da storico, sulla “fortuna” della riflessione metafisica tomista, sui motivi del naufragio delle metafisiche essenzialiste, sull’opportunità  di rilanciare – in un modo adeguato ai tempi in cui viviamo – prospettive metafisiche più aperte all’essere nella sua globalità . Potremmo considerare queste pagine come una sorta di “bilancio speculativo” della riflessione tomista sui temi dell’essere e dell’essenza, alla luce delle istanze (delle domande) poste anche dai filosofia a lui successivi e che solo in minima parte lo avevano potuto direttamente conoscere: “Le ontologie dell’essenza non commettono solamente l’errore di ignorare il ruolo dell’esistenza, ma si ingannano sulla natura dell’essenza stessa. Dimenticano semplicemente che l’essenza ò sempre quella di un ente, che non viene espresso nella sua interezza dal concetto della sola essenza. Vi ò, nel soggetto che ciascuna essenza designa, un elemento metafisico che trascende la stessa essenza. Come dire che la realtà  corrispondente al concetto contiene sempre, oltre alla sua definizione astratta, quell’atto di esistere che, trascendendo insieme l’essenza e la sua rappresentazione concettuale, non può essere raggiunto nel giudizio. (… ) L’errore fondamentale dei metafisici dell’essenza ò quello di prendere la parte per il tutto e di speculare sull’essenza come se essa fosse l’ente. Le essenze non dovrebbero mai essere concepite come gli oggetti ultimi della conoscenza intellettuale, perchè la loro stessa natura le impegna nell’ente reale concreto. Astratte dall’ente, esse esigono di reintegrarlo. Il fine dell’astrazione intellettuale non ò quello di porre le essenze nel pensiero come delle presentazioni complete e sufficienti in se stesse. Noi non astraiamo le essenze in vista di conoscere delle essenze, bensì in vista di conoscere gli enti stessi ai quali esse appartengono. (… ) A Tommaso d’Aquino piaceva ripetere, con Avicenna, che l’ente ò ciò che cade in primo luogo sotto la presa dell’intelletto, e questo ò vero, ma non significa che la nostra prima conoscenza sia il concetto astratto di una essenza pura che sarebbe quella dell’essere in generale. Ci si può anzi chiedere se una tale conoscenza ò di per sè possibile. Ciò che si offre primariamente ò qualche percezione sensibile, il cui oggetto ò immediatamente conosciuto dall’intelletto come qualche “cosa” o come “un essere”, e tale apprensione diretta da parte di un soggetto conoscente comporta un’operazione duplice ma simultanea, con la quale egli coglie ciò che questo essere ò e giudica che esso ò. Questa ricomposizione istantanea dell’esistenza di un dato oggetto con la sua essenza non fa che prendere atto della struttura metafisica di tale oggetto, e la sola differenza sta nel fatto che anzichè essere semplicemente colto dall’esperienza sensibile, esso ò ormai conosciuto intellettualmente. (… ) L’essere non ò che venga per primo nel senso che ciò che viene dopo non sarebbe più essere. Giunto per primo, l’essere non se ne va mai più. L’essere accompagna tutte le mie rappresentazioni. E anche così non si ò detto a sufficienza, poichè, in verità , ogni conoscenza ò “conoscenza dell’essere”. La conoscenza non esce dall’essere in quanto fuori di lui non c’ò niente. L’esempio classico, tante volte citato dagli scolastici, racchiude una profonda verità  nella sua stessa banalità . Ciò che io non vedo a tutta prima che da lontano, all’inizio non ò per me che qualche cosa, un “essere”; se l’oggetto si avvicina, vedo che ò un animale, ma resta ancora “un essere”; se si avvicina ancora di più, saprò che ò un uomo e, infine, che ò Pietro, ma tutte queste successive determinazioni dell’oggetto conosciuto sono sempre e solo delle conoscenze via via più determinate di un essere. (… ) L’essere dunque non ò soltanto il primo oggetto di conoscenza intellettuale nel senso che sarebbe implicato fin dal primo oggetto conosciuto, ma altresì nel senso che ò implicato in ogni oggetto conosciuto e che ogni conoscenza, quale che ne sia l’oggetto, ò anche e anzi prima di tutto conoscenza dell’essere”(36). Cornelio Fabro Sulla stessa linea si colloca l’opera di Cornelio Fabro, che si colloca nel cuore del presente dibattito con almeno tre opere della sua ampia produzione: La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso (1939), Dall’essere all’esistente (1957), Partecipazione e causalità  (1961). L’ente, inteso nel senso generalissimo di “ciò che in qualche modo ha l’essere” rappresenta il primo oggetto del nostro pensiero (“quod primo intellectus concipit”), la cui apprensione iniziale precede ogni funzione iniziale di tipo formalistico (incluso il principio di non contraddizione) che invece ò resa possibile solo in seno a tale apprensione dell’ente. D’altro canto l’ente, nel tomismo autentico, non ò unità  di essenza ed esistenza (come pretende la scolastica essenzialistica o formalistica), ma ò composizione reale di essenza ed esse partecipato, plesso concreto di potenza ed atto. Alla coscienza del primato dell’esse rispetto a tutte le altre perfezioni, però, non si giunge immediatamente, ma attraverso una “riflessione intensiva”, ovvero una resolutio di tutte le perfezioni formali nell’atto di essere inteso come loro principio fondante. Ripercorriamo attraverso un chiaro testo di Fabro i passaggi essenziali della sua argomentazione. “Ente ò un termine participiale di senso attivo, che indica in concreto l’esercizio di una formalità , quella dell’essere: ENTE allora ò ciò che ò, Id quod est, come camminante ò ciò che cammina. Ma questa indicazione grammaticale non basta; essa resta troppo vaga; poichè l’essere non ò una formalità  qualsiasi, ma al tutto speciale, e non suscettibile di un unico significato, ma di diversi, onde anche il concreto “Ente” ò un concreto sui generis, la cui intelligibilità  pone delle esigenze speciali. (… ) Pertanto al termine concreto “Ente” corrispondono in astratto nel pensiero tomista due termini: “Essenza ed Essere”, che stanno a significare due attualità , dalle quali si comprende risultare l’ente reale, cioò l’essenza e l’actus essendi, ovvero l’esse essentiae e l’esse existentiae. Quando ci ò noto di una cosa l’esse essentiae sappiamo “che cosa” ò, e perchè qualcosa venga a diversificarsi in mezzo alle altre con le quali coesiste; per l’esse existentiae sappiamo che c’ò, che esiste di fatto, e non può esser ridotta o confusa con un concetto od un vano desiderio. Si noti subito però che “essenza” e “actus essendi” sono bensì due significati (intentiones) distinti, ma non indipendenti, cioò perfettamente separabili, poichè l’uno implica necessariamente un riferimento all’altro; non si può comprendere un’essenza se non in relazione all’esistenza, o come possibile se l’essenza ò considerata in astratto, o come reale se l’essenza ò considerata come realizzata di fatto in natura. Similmente l’esistere non ò concepibile, per noi, se non come atto, possibile o reale, di qualche formalità : l’essere puro per sè sussistente, non ò per noi oggetto di semplice apprehensio o intuizione, ma ò una conclusione alla quale arriviamo dopo laboriosi ragionamenti, checchè abbiano voluto dire gli ontologi, e questo per le condizioni particolari del nostro modo di conoscere che ò finito e legato alla sensibilità  (… ). Ma il nostro intelletto, ciononostante, non resta sempre rinchiuso in una conoscenza di minimo contenuto nozionale: per la sua spiritualità  può riflettere sui dati delle sue conoscenze, e considerare in un modo universale e intensivo i dati particolari che giacciono nelle prime nozioni, avute nella conoscenza spontanea (… ). E si può osservare che l’essere, come ragione (astratta) di essere, in natura non esiste, come in natura non esistono nè l’animalità , nè l’umanità  â€“ ma esistono soltanto degli esseri, come esistono soltanto degli animali e degli uomini, individui. (… ) Per S. Tommaso il mondo intelligibile delle essenze non ò un “hortus conclusus”, risultante di elementi immobili che per un istante, che possiamo chiamare quello del pensiero categoriale o predicamentale, quello cioò della predicazione logico-formale del genere a riguardo delle sue specie, e della specie per gli individui. Ma nell’istante seguente della riflessione metafisica tutto quel mondo di perfezioni pure e formalità  astratte e indivisibili offre spontaneamente, anzi suscita lui stesso, il movimento dialettico del pensiero, che relaziona le varie formalità  fra di loro e rispetto alla formalità  suprema, l’essere che ò soltanto “essere”. (… ) Possiamo pertanto dire che nel Tomismo ò proprio l’essenza, considerata in relazione all’atto di essere, che obbliga la mente a trascendere i dati univoci delle astrazioni inferiori e a mettersi in cammino verso l’ultima fondazione di ogni cosa. Ciascuna formalità , per perfetta che sia, poichè ò questa e non quella, le manca sempre qualche perfezione reale, resta sempre qualcosa di limitato e di ristretto nell’ordine dell’essere; se a riguardo delle formalità  ad essa inferiori, può considerarsi come un partecipato, a riguardo dell’ultima formalità , quella dell’essere, essa resta un partecipante” (37). Note (1) Sia per la ricostruzione della storia dell’opuscolo, sia per la sua traduzione, ci serviremo del testo – molto accurato – di D. Lorenz, I fondamenti dell’ontologia tomista. Il trattato De Ente et essentia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti. Tale opera riporta, il testo latino dell’edizione leonina, la traduzione in lingua italiana curata da A. Lobato (Roma, 1989) ed un interessante apparato critico, con un chiaro commento delle

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