LE VICENDE CHE HANNO PORTATO ALL'UNITÀ D'ITALIA
IL 1848, L’ANNO DELLE RIVOLUZIONI
Il 1848 fu un anno di enormi fermenti rivoluzionari in tutta Europa. In Italia diversi avvenimenti avevano stimolato speranze di cambiamento in tutto il territorio. A Roma, ad esempio, il nuovo pontefice Pio IX, non appena eletto (1846), aveva dato prova di una notevole volontà di mutamento:
- liberazione di numerosi prigionieri politici
- diminuzione dei controlli di polizia
- concessione di una parziale libertà di stampa
Fu definito un «papa liberale», che avrebbe potuto garantire l’avvio della liberazione d’Italia. Nei fatti, la questione era molto più complessa. Pio IX, di carattere certamente tollerante e contrario alla repressione delle idee e dei regimi di polizia, non era realmente un liberale, come non poteva essere considerato liberale il granduca di Toscana Leopoldo II che pure aveva realizzato alcune riforme in senso democratico.
Solo il re piemontese, Carlo Alberto, che si dichiarava vicino alle posizioni liberali e ostile all’Austria,
sembrava intenzionato ad impegnarsi per il processo di unificazione italiano.
LE COSTITUZIONI
Il cosiddetto ’48 italiano ebbe inizio a Palermo: dalla città siciliana partì la rivolta che si estese a tutta l’isola e che fu finalizzata alla concessione della Costituzione e all’elezione di un Parlamento. L’esempio di Palermo fu seguito da Napoli: qui, il re Ferdinando II fu costretto da insistenti
sollevazioni di massa a concedere la Costituzione. L’iniziativa del re delle Due Sicilie provocò a sua volta una sorta di reazione a catena:
- furono concesse delle Costituzioni (più o meno liberali) da Leopoldo II di Toscana
- da Carlo Alberto (dal suo nome la costituzione piemontese fu detta “Statuto Albertino”)
- dallo stesso papa Pio IX
Erano tutte costituzioni “concesse” (cosiddette Costituzioni “octroyées” o ottriate) dai sovrani e non
votate dai cittadini, ma, in quella fase storica, costituirono in ogni caso un importante passo verso
l’evoluzione in senso avanzato dei singoli governi della penisola.
LO STATUTO ALBERTINO
La più importante di queste prime Carte costituzionali, lo Statuto Albertino, concesso nel 1848, era diviso in due parti:
- nella prima parte veniva definiva l’autorità della monarchia e della figura del re riaffermando l’importanza della religione cattolica, considerata unica religione ufficiale dello Stato
- nella seconda parte, era invece previsto un articolato sistema di garanzie, in particolare per quanto riguarda i diritti civili e le libertà già sancite dalle Costituzioni francese, inglese e americana.
LE INSURREZIONI DI VENEZIA E MILANO
Il governo austriaco non fece invece alcuna concessione. In questo clima:
- Venezia insorse, formando un proprio governo guidato dai patrioti Daniele Manin e Niccolò Tommaseo
- Milano fu teatro di notevoli manifestazioni di piazza dei cittadini che, guidati da Carlo Cattaneo, per cinque giorni (cosiddette “cinque giornate di Milano”), diedero vita a duri combattimenti per le strade del capoluogo lombardo sino a determinare la ritirata degli Austriaci nelle quattro fortezze di Verona, Peschiera, Legnago e Mantova (cosiddetto “quadrilatero”). A Milano si formò pertanto un governo provvisorio, come a Parma e a Modena. Il problema non risolto era tuttavia quello di eliminare definitivamente la presenza dell’esercito austriaco da tutto il Lombardo-Veneto. Non possedendo un esercito proprio, Milano e Venezia potevano limitarsi alla raccolta di volontari per poi aggregarli ad un esercito professionale già esistente. L’unico sovrano in grado di gestire un esercito preparato era Carlo Alberto.
LA PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA
Nonostante infatti l’insurrezione di Milano avesse colto il Piemonte di sorpresa e l’esercito piemontese non fosse pronto alla guerra, Carlo Alberto proclamò comunque la dichiarazione di guerra all’Austria.
L’esercito piemontese varcò il confine posto sul Ticino, adottando il tricolore come bandiera nazionale, al posto della bandiera del regno di Sardegna e sulla scorta dell’entusiasmo popolare, altri sovrani si videro costretti a inviare proprie truppe in sostegno a quelle piemontesi. Le tappe successive del conflitto furono, sinteticamente, le seguenti:
- gli Austriaci vennero battuti a Goito, dopo che i volontari toscani, in gran parte studenti universitari di Pisa e Siena, avevano opposto intensa resistenza a Curtatone e Montanara
- i Governi provvisori di Milano, Venezia, Modena e Parma si risolsero allora per l’unione col Piemonte
Tale gesto provocò tuttavia immediatamente i sospetti degli altri sovrani italiani;
- temendo infatti un eccessivo rafforzamento del regno di Carlo Alberto, la Toscana e il Regno delle Due Sicilie ritirarono le loro truppe
- il Papa fece lo stesso, temendo che la cattolica Austria si volgesse contro la Chiesa di Roma
Questi elementi impedirono all’esercito piemontese di sfruttare la vittoria ottenuta. L’offensiva si
fermò davanti alle fortezze del quadrilatero, mentre altre truppe austriache giungevano da Vienna.
Riorganizzato l’esercito, il maresciallo Radetzky sferrò la controffensiva.
Carlo Alberto, sconfitto a Custoza, fu costretto a firmare un armistizio e a ritirarsi in Piemonte.
LA SCONFITTA DEFINITIVA
L’anno seguente (1849) Carlo Alberto riprese la guerra, ma di nuovo l’esercito piemontese apparve impreparato (sconfitta di Novara). Il sovrano rinunciò pertanto al trono a favore del figlio, Vittorio Emanuele II. Questi firmò un vantaggioso trattato di pace con gli Austriaci, mantenendo, oltre ad alcune riforme, anche l’importante Statuto albertino.
La prima guerra d’indipendenza si chiudeva dunque con una serie di fallimenti:
- si dimostrò l’impraticabilità dell’ideale moderato neo-guelfo (l’ipotesi, prefigurata da Gioberti, di una confederazione di Stati italiani guidata dal pontefice)
- emerse la grave debolezza di un Piemonte isolato
- fu chiaro che il processo di indipendenza italiana doveva trovare il sostegno di altre potenze europee
Diversi politici italiani cominciarono dunque a convincersi della necessità di un programma politico
finalizzato al raggiungimento dell’indipendenza e dell’unità attraverso la monarchia liberalcostituzionale di Vittorio Emanuele II.
LA CADUTA DELLE REPUBBLICHE ROMANA E VENEZIANA
Nel frattempo, a Roma si era costituita una repubblica: del governo faceva parte Giuseppe Mazzini e difenderla era accorso anche Giuseppe Garibaldi. Insieme a loro, ricordiamo il genovese Goffredo Mameli, il lombardo Luciano Manara e molti altri.
Contro di loro si mosse Luigi Napoleone, che inviò una spedizione a Roma, in aiuto di Pio IX, sia per attrarre le simpatie dei cattolici francesi sia per contrastare il predominio austriaco in Italia. Dopo una iniziale resistenza, la città – assediata da truppe numerose e militarmente ben equipaggiate – cadde il 30 giugno 1849. Garibaldi fuggì con duemila volontari e la moglie Anita (che morì nella pineta di Ravenna) fu braccato e infine fatto arrestare ed esiliare dal governo piemontese, al fine di tranquillizzare l’Austria e le grandi potenze.
Anche a Venezia si era instaurato un governo repubblicano, costretto tuttavia ben presto alla resa dai bombardamenti, dal colera e dalle ristrettezze economiche (i responsabili della rivolta, Daniele Manin, Niccolò Tommaseo e il generale napoletano Guglielmo Pepe vennero condannati all’esilio). La vittoria dell’Austria in Italia fu quindi netta e profonda.
IL PIEMONTE E CAVOUR
In un clima di vittoria generalizzata delle forze reazionarie in Europa, emerse la figura e la personalità di uno dei più abili uomini politici del tempo, già ministro nel regno di Vittorio Emanuele II: Camillo Benso conte di Cavour.
Esponente di spicco del pensiero liberale e liberista, forte sostenitore della distinzione politica tra
Stato e Chiesa (“libera Chiesa in libero Stato”), presto nominato presidente del Consiglio dei
ministri (1852), Cavour procedette alla realizzazione del suo progetto di indipendenza italiana. In
particolare, Cavour:
- riteneva che soltanto il Piemonte potesse essere in grado di realizzare l’unificazione nazionale, in quanto non sottomesso all’Austria (come invece erano i Borboni di Napoli, il granduca di Toscana, i duchi di Modena e di Parma)
- e che solo il Piemonte potesse avere la forza di garantire alle monarchie europee che l’Italia non avrebbe abbracciato pericolose derive democratiche e radicali
LA GUERRA DI CRIMEA
Per realizzare la complessa strategia di unificazione, Cavour aveva necessità di essere riconosciuto politicamente dalle grandi potenze europee.
L’occasione fu trovata nella guerra di Crimea (scatenatasi a seguito della dichiarazione di guerra della Russia alla Turchia), cui Cavour decise (assieme a Francia e Inghilterra) di partecipare in aiuto della Turchia. Le conseguenze delle guerra furono durissime sul piano delle perdite umane, ma decisive sul piano politico: Vittorio Emanuele II fu acclamato come alleato a Londra e a Parigi e nel successivo congresso per la pace (Parigi, 1856) a Cavour fu concesso di esporre la grave questione dell’indipendenza italiana.
I FALLIMENTI DEI MAZZINIANI
Nel frattempo si verificarono vari tentativi insurrezionalisti dei mazziniani, tutti con esito tragico. Anche in conseguenza di ciò, diversi esponenti repubblicani (tra cui lo stesso Garibaldi) si convinsero progressivamente che l’unica speranza di unità nazionale fosse legata alla monarchia del Piemonte.
Nel 1858 un drammatico episodio rischiò di smantellare la complessa azione diplomatica intrapresa
da Cavour: un repubblicano, Felice Orsini, attentò infatti alla vita di Napoleone III. Cavour riuscì a
volgere il gesto dell’Orsini a vantaggio della causa italiana, facendo leva sul timore di un incipiente
pericolo estremista in Italia. Dopo lunghe trattative diplomatiche tra Napoleone III e Cavour, si
giunse all’accordo segreto di Plombières, con cui:
- Cavour ottenne l’impegno di un immediato intervento militare francese in caso di aggressione austriaca al Piemonte
- Napoleone III ottenne la promessa della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia
- Cavour si impegnò con l’imperatore a dividere il territorio italiano in quattro Stati: Nord, Centro, Sud e Stato Pontificio
LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA
Il problema era a questo punto provocare la guerra con l’Austria. Nei primi mesi del 1859 il Piemonte radunò le sue truppe sul Ticino. Ai soldati regolari si affiancarono migliaia di volontari giunti da tutta Italia (di nuovo Garibaldi ebbe il comando di un corpo di volontari).
Il governo austriaco inviò un ultimatum a Torino (richiesta di disarmo immediato dell’esercito). Al rifiuto del re, l’esercito austriaco varcò il Ticino. I piemontesi si ritirarono lentamente, riunendosi ai Francesi, comandati dallo stesso Napoleone III. Ecco in sintesi le tappe del nuovo conflitto:
- il primo scontro avvenne nei pressi di Magenta (i Francesi sconfiggono gli Austriaci)
- Napoleone III e Vittorio Emanuele II entrano trionfalmente a Milano
- Garibaldi conquista Varese, Como, Bergamo e Brescia
- contestualmente i Francesi sconfiggono di nuovo gli Austriaci a Solferino, mentre l’esercito piemontese otteneva una vittoria a San Martino
Si trattò di azioni militari che determinarono immediate conseguenze in tutta Italia: Firenze,
Modena, Parma, Bologna formarono nuovi governi e chiesero l’unione con il regno di Sardegna.
In questo clima, Napoleone III temette che la situazione potesse sfuggirgli di mano, ritenendo che
Cavour non si sarebbe limitato al governo dell’Italia settentrionale.
Così 1’11 luglio 1859 firmò un
armistizio a Villafranca con lo stesso imperatore Francesco Giuseppe, senza consultare gli alleati
piemontesi.
L’accordo prevedeva:
- la cessione della Lombardia al regno di Sardegna
- il Veneto sotto il governo austriaco
Mentre Vittorio Emanuele II accettò, Cavour, per protesta, si dimise. Richiamato tuttavia quasi
subito a capo del governo (1860), Cavour riprese l’iniziativa diplomatica con Napoleone III, cui
offrì nuovamente Nizza e la Savoia (non concesse a seguito del “tradimento” rappresentato dal
trattato di Villafranca) in cambio di libertà politica nella gestione dei rapporti con Toscana, EmiliaRomagna, Parma e Modena.
Da questo punto in poi, fu affidata all’istituto del plebiscito popolare la possibilità o meno di consentire l’annessione dei vari Stati al Regno di Sardegna. L’Italia centrale approvò in blocco.
LA SPEDIZIONE DEI MILLE
Mentre il 2 aprile 1860 apriva a Torino il nuovo Parlamento, con la presenza dei rappresentanti dell’Italia centrale, in Sicilia scoppiavano rivolte. Ne approfittò Garibaldi, convinto dell’utilità di una spedizione militare in Sicilia cui anche Vittorio Emanuele II era segretamente favorevole. Cavour inizialmente diffidente nei confronti dei democratici garibaldini e timoroso circa le possibili reazioni di Francia e l’Inghilterra, alla fine accettò il progetto.
Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, l’esercito garibaldino (i cosiddetti “Mille”, quasi tutti
volontari) si imbarcarono presso lo scoglio di Quarto (Genova), da cui giunsero nel porto di
Marsala, dove sbarcarono. Pochi giorni dopo, Garibaldi sconfisse le truppe borboniche a Calatafimi,
occupando Palermo e successivamente Reggio.
Il 7 settembre 1860 Garibaldi giunse trionfalmente a Napoli. Cavour decise in quel momento di assumere il controllo e il comando delle operazioni, per
diverse ragioni:
- temeva la proclamazione da parte di Garibaldi di una repubblica nel Mezzogiorno
- intendeva cogliere l’occasione per annettere anche le Marche e l’Umbria (ancora sotto il governo pontificio)
- intendeva evitare che Garibaldi attaccasse Roma, al fine di evitare un possibile intervento militare dei Francesi a sostegno del pontefice
Alla Francia Cavour fece credere d’essere costretto all’intervento armato per evitare i pericoli di
una rivoluzione democratica.
In realtà riuscì abilmente a far penetrare le truppe nello Stato
Pontificio: l’esercito piemontese, evitando Roma, si impadronì delle Marche e dell’Umbria.
GARIBALDI CONSEGNA AL RE IL MEZZOGIORNO
Nel frattempo, il 26 settembre 1860, Garibaldi e Vittorio Emanuele II si incontrarono a Teano (Caserta). Qui Garibaldi accolse il sovrano come re d’Italia, affidandogli tutti i territori liberati.
Altri plebisciti (in Sicilia e nel regno di Napoli) decretarono il sì l’annessione all’Italia. L’impresa di Garibaldi fu riconosciuta come straordinaria in tutta Europa.
LA SCOMPARSA DI CAVOUR
Il primo atto del nuovo parlamento italiano (17 marzo 1861) fu la proclamazione del regno d’Italia, con capitale fissata a Torino. Al completamento dell’unità del Paese mancavano soltanto Roma e il Veneto. Vittorio Emanuele II assunse per sé e i suoi discendenti il titolo di «re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione».
Poco dopo moriva Camillo Cavour: fu una gravissima perdita, che privò l’Italia di uno straordinario uomo politico proprio nel momento in cui appariva necessario dare avvio all’organizzazione del nuovo Stato unitario.
ROMA CAPITALE
Ottenuto successivamente anche il Veneto (al termine della cosiddetta “terza guerra di indipendenza”) permaneva insoluta la “questione romana”, cioè l’ipotesi di concludere l’unificazione decretando facendo di Roma la capitale del regno d’Italia. I maggiori ostacoli del progetto di Roma capitale d’Italia venivano dalla Francia: i cattolici, tradizionalmente, chiedevano a Napoleone III di difendere lo Stato Pontificio.
Per evitare scontri con la Francia, il capo del governo, Urbano Rattazzi ordinò persino l’arresto di
Garibaldi che da tempo intendeva liberare Roma (siamo nel 1867). Tuttavia Garibaldi, riuscito a
fuggire, penetrò successivamente con un esercito di circa duemila volontari nel Lazio, venendo
sconfitto a Mentana dalle truppe francesi accorse in difesa del Papa.
Solo nel 1870, nel momento in cui Napoleone III, sconfitto dai Prussiani, perse il potere, il governo
italiano si sentì libero di agire: il 20 settembre 1870 il corpo dei bersaglieri cannoneggiò le mura di
Roma (cosiddetta “Breccia di Porta Pia”) e fece il suo ingresso in città. Si trattò di una azione
essenzialmente dimostrativa, senza eccessive violenze. Terminava in questo modo, dopo circa
dodici secoli, il potere temporale dei papi. Roma fu pertanto ordinata capitale del regno d’Italia. Nel
maggio 1871 il Parlamento regolò la questione romana secondo i principi già prefigurati da Cavour.
Con la cosiddetta legge delle Guarentigie (cioè della “garanzie”), il governo concesse al pontefice:
- il territorio della Città del Vaticano
- la piena libertà per la Chiesa cattolica nell’esercizio dell’apostolato, della propaganda di fede e nella gestione della propria organizzazione in tutto lo Stato italiano
- una somma annuale di denaro finalizzata al mantenimento della Città del Vaticano
Il pontefice, ritenendosi «prigioniero in Vaticano», non accettò le risoluzioni del governo italiano:
procedette pertanto alla scomunica del re, dei ministri e dei parlamentari, vietando contestualmente
ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica della nazione.
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