Gentile insiste sul carattere unitario della realtà spirituale, che prorompe dall’unità dell’atto del pensiero, in polemica, spesso esplicita, con la tendenza opposta, tipica di Benedetto Croce, a tener fissa la distinzione tra le varie attività e forme dello spirito. I distinti di Croce, nella loro irriducibilità e staticità , rientrano, ad avviso di Gentile, in una logica del pensato, non del pensiero. Non per questo motivo egli vuole abbattere o devalorizzare i concreti processi particolari, ma solamente ricondurli, al di là delle loro differenze, all’unità che ò alla base di tutti. Sotto questo profilo, Gentile riconsidera i momenti della filosofia hegeliana dello spirito assoluto, arte, religione e filosofia, alla luce del proprio idealismo attuale, ma mantenendo lo schema dialettico triadico, sempre di matrice hegeliana, di tesi, antitesi e sintesi. L’ arte rappresenta il momento dell’esaltazione del soggetto, il sentimento come pura soggettività , che si potenzia in forma immediata, tramite la creazione libera dai vincoli della realtà . Rispetto all’arte, la religione rappresenta l’antitesi, in quanto esaltazione dell’oggetto e negazione del soggetto nell’oggetto, cioò in Dio. Nella religione al concetto di autoctisi, come creazione che il soggetto fa fa di se stesso, si sostituisce quello di eteroctisi (dal greco eteros, ‘altro’, e ktizein, ‘creare’, ‘fondare’), cioò di creazione da parte di un’entità oggettiva; al concetto del conoscere come posizione dell’oggetto da parte del soggetto si sostituisce quello di rivelazione che l’oggetto fa di sò al soggetto; alla volontà che crea il bene si sostituisce la grazia che il bene (Dio), fa di sò al soggetto. L’essenza della religione sta dunque nel misticismo, cioò nell’autonegazione dell’individualità del soggetto e nell’identificazione immediata di sò con l’oggetto. L’ immortalità ò invece affermazione che l’individuo, concepito come atto spirituale, non come individualità meramente empirica, fa di sò nel proprio valore; la morte, dunque, riguardando solo l’io empirico, propriamente non esiste: quel che ò mortale ò la natura, e non lo spirito. Sia l’arte, sia la religione, stando a Gentile, sono posizioni astratte del pensiero, in quanto isolano solo un lato dell’atto concreto del pensare, la soggettività o l’oggettività . Rispetto ad esse, la filosofia ò il momento della sintesi di soggettività e oggettività nella concretezza dell’atto in cui il pensiero crea se stesso e insieme il proprio oggetto. In quanto tale, la filosofia ò la ‘ immanente sostanza di ogni vita spirituale ‘, cioò il pensiero concreto operante in tutte le forme, che in apparenza sembrerebbero opporsi ad essa, come appunto l’arte, la religione e la scienza; fuori della filosofia, propriamente, non c’ò attività spirituale e, dal momento che il pensiero si fa e si sviluppa storicamente nella concretezza dei suoi atti, la filosofia fa tutt’uno con la propria storia. Gentile mutua da Hegel la concezione dell’unità della filosofia nel suo sviluppo storico, al quale ogni filosofo contribuisce con i propri edifici speculativi. Quindi non esistono molteplici filosofie del tutto indipendenti tra loro: ognuna costituisce l’anello di un’unica ed interminabile catena, che nella sua totalità ò sempre il pensiero che si attua nel pensiero del filosofo che di volta in volta la ricostruisce. In questo modo, si instaura quello che Gentile definisce circolo di filosofia e storia della filosofia, nel senso che per fare storia della filosofia, bisogna filosofare e per fare filosofia, bisogna presupporre la storia della filosofia. Chi ricostruisce storicamente una filosofia del passato, deve infatti possedere un concetto unitario di che cosa sia la filosofia, ma quel concetto ò ricavabile solamente dalla storia della filosofia nella sua totalità . Del resto, dato che l’arte e la religione sono momenti astratti rispetto alla concretezza dell’atto spirituale, che si realizza solo nella filosofia, la storia dell’arte e la storia della religione finiscono col risolversi nella storia della filosofia. La scienza, poi, assomma in sò i difetti propri sia dell’arte (il presumere di conoscere l’oggetto tramite la sensazione, che invece, essendo inevitabilmente soggettiva, le impedisce di pervenire all’universalità propria della filosofia), sia della religione (il pretendere di liberare l’oggetto dalla soggettività e, quindi, di essere un sapere meramente oggettivo). La scienza non dimostra la validità della sensazione come strumento conoscitivo, ma assume dogmaticamente i dati da essa forniti, presupponendo quindi l’esistenza dell’oggetto come qualcosa di separato e autonomo rispetto al pensiero. Anche nella scienza ò quindi immanente una filosofia, ma questa si riduce ad una forma unilaterale di naturalismo e materialismo: ogni scienza trasforma tutto quel di cui si occupa in natura, cioò in una sfilza di dati esterni all’atto concreto del pensare. In questo modo, anche Gentile spodestava la scienza dalla posizione regale a cui era stata elevata dalla cultura positivistica e ricollocava al vertice della piramide del sapere la filosofia. Diversamente da Croce, il quale mantiene salda la distinzione tra attività teoretica e attività pratica dello spirito, Gentile teorizza la sostanziale identità di teoria e prassi. Distinguere tra teoria e prassi sarebbe possibile solo supponendo che la teoria consista nella conoscenza di un mondo già dato e la prassi nella costruzione di una nuova realtà per mano della volontà . Ma il conoscere, secondo Gentile, non ò pura contemplazione passiva, ma pensiero pensante, cioò atto e, in quanto tale, ò prassi. Quindi ogni atto spirituale ò pratico, cosicchò il volere non ò altro che ‘ la concretezza del conoscere ‘che si traduce in realtà . Questo vuol dire che, creando continuamente se stesso, lo spirito, che ò positività e valore, crea al tempo stesso il bene all’infinito. In questo panorama, il male ò, al pari dell’errore, qualcosa che, nel momento in cui ò riconosciuto tale, ò superato e rappresenta solo un’attività precedente, oramai rigettata. Il soggetto della prassi, cioò dell’atto spirituale, ò libero, ma proprio in virtù della sua libertà ha bisogno degli altri io, spiega Gentile, che chiarisce questo punto nella sua ultima opera, composta nel 1943 e pubblicata postuma nel 1948: Genesi e struttura della società . In essa il pensatore siciliano si dà all’analisi della comunità umana e al suo fondamento, rifiutando tutte le concezioni atomistiche della società , che fanno di essa null’altro se non l’aggregato di una miriade di individui empirici. A suo parere, nell’atto del pensiero ò già racchiusa l’intera eticità : l’Io trascendentale infatti non ò individualità empirica, ma ò unità che diviene e cangia in un processo incessante, e così non ò concepibile se non al tempo stesso come unità di una molteplicità . In questo consiste, spiega Gentile, la vera nozione di individuo, cioò nell’unità di universale e particolare: il soggetto trascendentale, il pensiero pensante, infatti, ò l’universale che si fa e si pone incessantemente e, quindi, ha necessità del molteplice. All’individuo così concepito la comunità ò immanente come sua legge, nel senso che ‘ ogni io ò noi, ma non un noi già fatto e preesistente ‘, bensì un noi che ha vita nell’atto stesso dell’individuo, che punta a farsi universale. Esiste dunque, ad avviso di Gentile, una societas in interiore homine: già nel dialogo interiore di ciascuno con se stesso, c’ò chi parla e chi ascolta, cioò quella che Gentile definisce la società trascendentale, la condizione a priori della possibilità di ogni società , grazie alla quale l’uomo non ò più un’individualità empirica, ma entra a far parte dell’umanità . La società ò ‘ la realtà del volere nel suo processo ‘ e il volere come volere comune e universale ò lo Stato, che ò anch’esso un atto, non un fatto ovvero una pura e semplice istituzione e un apparato privo di vita. La nazione non si identifica con il suolo, il modo di vita e la tradizione comune: tutto questo costituisce solamente la materia della nazione, che richiede, invece, la coscienza di tale materia e, insieme, il fare di essa l’oggetto della propria volontà , che nel suo continuo concretizzarsi in atto ò appunto lo Stato. Sotto questo profilo, Gentile asserisce che non la nazionalità crea lo Stato, ma lo Stato crea la nazionalità . La volontà dello Stato ò il diritto: fuori dello Stato non esiste alcun diritto, nessun presunto diritto naturale. Il diritto ò l’attuazione della volontà dello Stato in quanto volontà dei cittadini, cioò in quanto volontà universale. Questa attuazione ha luogo nella legge, che ò volontà voluta, in cui gli individui empirici trovano il loro limite. Contro le teorie liberali, che rivendicano l’autonomia di una sfera privata individuale rispetto all’ingerenza dello Stato, Gentile mutua da Hegel la nozione di uno Stato che, in quanto volere universale superiore alla volontà meramente individuale, non ha limiti al di sopra di sò e non riconosce nulla fuori di sò. Con queste tesi, Gentile continuava a dare un sostegno teorico alla concezione dello Stato propria del fascismo, tanto che Gobetti scriveva: ‘ Non da oggi pensiamo che Giovanni Gentile appartenga all'”altra Italia”. [â¦] Da un pezzo pensiamo che la religione dell’attualismo sia una piccola setta che ha rinnegato tutta la serietà dell’insegnamento crociano. [â¦] Gentile ci avrà suggerita una definizione esauriente del suo pensiero: la filosofia di Mussolini. Anche i filosofi hanno le loro responsabilità storiche. Non ci stupiremo che Gentile assuma quelle che può. ‘ Ad avviso di Gentile, l’errore del liberalismo sta nel presupporre una libertà individuale fuori dello Stato, mentre solo nello Stato l’uomo ò propriamente libero. In questo senso, ò un’operazione di astrazione contrapporre l’etica alla politica e scorgere nella prima il criterio superiore per giudicare la seconda. In realtà , ò impossibile un’etica a-politica, perchò la politica ò l’attività dello spirito in quanto Stato, che non ò un’entità oggettiva contrapposta all’individuo, ma ò l’autocoscienza del soggetto trascendentale in quanto volontà universale. Questo fa dello Stato stesso una specie di persona morale, con fini e volontà superiori a quelli degli individui e, pertanto, la suprema manifestazione della vita etica: ò questa la nozione gentiliana di Stato etico. Non ha dunque senso parlare di un’opposizione o distinzione irriducibile fra governo e governanti e tra libertà e autorità . Nella superiore moralità dello Stato, il limite, rappresentato dalle leggi, ò riconosciuto dagli individui come limite proprio, cioò il momento coattivo della forza viene interiorizzato e fatto proprio sotto forma di consenso: si realizza così una sintesi di autorità e libertà .
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- Filosofia - 1900