Gli Unni
La storia del popolo unno (Hsiung-nu), formatosi nel XVIII secolo a.C.dalla fusione di tribù europeoidi (biondi e brachicefali, di cui conservavano un tratto somatico -il naso prominente- che i Cinesi consideravano distintivo), di cinesi Hsia vessati dai funzionari imperiali e di genti mongoliche, è contrassegnata da una serie pressoché ininterrotta di guerre con la Cina e con i nomadi delle steppe: gli Yueh-chi dell'Ordos (i Massageti?) e i Ting-ling dello Jenissei (i futuri Khirgisi), -entrambi di stirpe europeoide-, e i Hsien-Pi di stirpe mongolica. Un momento cruciale della storia unna fu l'unificazione, tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C., dei 24 clan degli Hsiung-nu sotto il comando del condottiero (shan yu) Mao-tun e la costituzione di un regno unno che si estendeva su tutta la Mongolia centrale e le steppe transbaikaliche.
Il regno di Mao-tun era retto da un sistema amministrativo sorprendentemente complesso e difeso da un imponente esercito di cavalleggeri. Una serie di sconfitte militari e di feroci contrasti intestini portò tuttavia alla scissione del regno nel 47 d.C. in due stati unni: quello del Sud, vincolato all'ordinamento tribale e ben presto assimilato dall'Impero cinese, e quello del Nord, fondato su una democrazia guerriera e definitivamente disgregato nel II secolo d.C. da Tang-shi-huai, condottiero dei Hsien-pi.
Il tramonto della potenza Hung-nu e gli effetti del progressivo inaridimento delle steppe costrinsero gli Unni del nord a migrare verso occidente: alcune tribù (i Yue-pan) si fermarono allora nel paese siberiano dei Sette Fiumi, gli altri, dopo essersi fusi con gli Ugri dell'Ural, si spinsero invece fino in Europa. Questi meticci unno-ugri erano certamente molto mutati sia nell'aspetto esteriore, sia negli ordinamenti e nei costumi dai loro antenati, che avevano incominciato a dedicarsi all'agricoltura, si servivano di una scrittura di origine indiana ed erano in grado di produrre magnifiche manifestazioni d'arte.
Per quanto riguarda il periodo della migrazione degli Unni verso Occidente ricordiamo che, nel 160 d.C., il geografo Tolomeo segnala la presenza di avanguardie unne nella regione compresa tra il Don e il Volga e individui le sedi di questo popolo sullo Iaxarte, ai confini della Sogdiana. Fu dunque grazie ai contatti con l'Iran partico e sassanide e con le genti nordiraniche che alcuni termini iranici come shad=re, bäg=signore, bag=dio, kavay=saggio-re (turco kavkan, kaghan=re dei re) passarono nella lingua degli Unni, i quali appresero dai Sogdiani anche quell'alfabeto "runico" che trasmisero, in seguito, ai Bulgari. Tra il 160 e il 375 non si ha invece nessuna notizia del popolo unno né dalle cronache cinesi né dalle fonti classiche greche e latine. Sappiamo solo che, nel 290, il re dell'Armenia, Tigrane, aveva al suo soldo dei mercenari unni.
Nel 375, gli Unni raggiunsero le steppe dell'attuale Ucraina, popolate a quel tempo da Goti, Sciri, Gepidi, Alani (sarmati di stirpe ariana, affini sotto il profilo linguistico ai Saci e ai Sogdiani) e Slavi "poljani" (dei campi) e "drvljani" (delle foreste). Dopo aver proceduto alla sottomissione di Sciri e Gepidi, gli Unni sconfissero i re goti Ermanaric e Vithimeris: gli Ostrogoti (o Greutungi, "gente della campagna") fecero allora atto di dedizione al re unno Balamir, mentre i Visigoti (o Thervingi, "gente della foresta") di Athanaric, dopo un vano tentativo di resistenza sul fiume Dniestr, si risolsero nel 376 a oltrepassare la frontiera romana sul Danubio. Alle loro spalle incombevano gli Unni.
"Animali selvaggi", "bestie a due zampe", "semi-uomini che mangiano i loro vecchi", "bevono il sangue" e "si nutrono della carne scaldata sotto le selle dei loro cavalli": così uno storico di Antiochia, Ammiano Marcellino, definì gli Unni, che, giunti nel 376 sulle rive del fiume Danubio, erano entrati allora per la prima volta in contatto con i Romani. Non si deve credere che questi feroci cavalieri armati di archi di corno, di frecce d'osso, di lacci e di reti costituissero un'armata sterminata. Si deve piuttosto pensare ad una miriade di minuscole bande pronte tanto a coalizzarsi quanto a combattersi da campi avversi. Solo la frammentazione del popolo unno può infatti spiegare come mai, dopo aver sottomesso gli Alani, alcuni di questi arcieri a cavallo abbiano mosso guerra agli Ostrogoti, mentre altri si siano schierati al fianco del loro re Vithimeris o come mai, a distanza di pochi mesi, gli Unni abbiano dapprima sconfitto e poi aiutato (battaglia di Adrianopoli, 378) i Visigoti di Athanaric.
La complessità dei loro rapporti con i Goti è inferiore solo all'ambiguità delle relazioni degli Unni con Roma: scorrerie, compromessi e relazioni amichevoli si susseguono e si alternano con una rapidità tale da confondersi. Sappiamo difatti che gli Unni prima saccheggiarono l'Impero e poi si posero al servizio dell'imperatore Teodosio (contro l'usurpatore Massimo, 388) schierandosi, in seguito, al fianco dei magistri militum Stilicone e Olimpio (contro i Visigoti, 405, 409), Bauto (contro gli Iutungi ) ed Ezio (contro i ribelli Bagaudi e i Burgundi, 436). Fu dunque in accordo con l'aristocrazia terriera delle Gallie, della quale Ezio era di certo il principale esponente, che gli Unni massacrarono il re burgundo Gundikher e 20 mila dei suoi uomini: l'impressione destata tra i Germani da tale carneficina fu tale che la disfatta dei Burgundi divenne uno degli episodi centrali della saga dei "Nibelungen".
Si può quindi asserire che, per far fronte al pericolo germanico, -scatenato in definitiva dalla pressione dagli Unni-, Roma fece un massiccio ricorso a questi cavalieri delle steppe. La presenza nell'esercito tardo-imperiale romano di reparti di Unni è attestata nella "Notitia dignitatum", un documento ufficiale, redatto in forma definitiva nel 429-430: tra le insegne delle 283 formazioni militari al servizio dell'Impero compare infatti il simbolo cosmico del tao che sembra ascrivibile proprio ad un contingente unno. E' possibile inoltre che alcune tribù unne (gli Amilzuri, i Tunsuri, i Boisci e gli Itimari) si siano poste al servizio dell'Impero d'Oriente per sfuggire al controllo tirannico del loro nuovo re Rua.
Fu dunque Rua a unificare i vari clan da cui era formato il suo popolo. Una volta consolidato il suo dominio sulle tribù delle steppe, il re riuscì quindi ad imporre agli imperatori d'Oriente, oltre al libero accesso degli Unni ai mercati romani, un tributo di 350 soldi aurei: l'importo di questo tributo fu ben presto portato prima a 700, poi a 2100 e infine a 6000 soldi dal nipote e successore di Rua: Attila.
La politica che il nuovo re, -un uomo tarchiato, di bassa statura, con gli occhi incassati, il naso schiacciato e una rada barbetta-, perseguì nei confronti dell'Impero era senza dubbio fondata sul ricatto: una politica cui i Romani, ben consci che una loro spedizione contro i nomadi delle steppe non avrebbe portato, a fronte di spese e perdite enormi, a nessun risultato concreto e che, alle spalle delle loro armate, vivevano genti che non erano più ostili verso gli Unni di quanto lo fossero verso i propri eserciti, non poterono che accettare. Nel 435, un anno dopo la morte di Rua, Attila e il cugino Bleda (ben presto eliminato dal "flagellum Dei"), stipularono quindi a Margos un trattato che prevedeva la restituzione degli Unni passati ai Romani. L'Impero romano d'Oriente (afflitto dalla pirateria dei Vandali, dalle incursioni dei predoni Isauri, dalle scorrerie degli etiopi Blemmi in Egitto e impegnato nella guerra contro la Persia) fu costretto a cedere alle richieste della controparte e a fare notevoli concessioni anche di carattere territoriale.
La potenza di Attila si fondava dunque sul rispetto di.delicati equilibri: sulla fedeltà -comprata con oro, doni e denari- dei suoi luogotenenti, noti dalle fonti con il nome greco di "logades"; sul favore dei capitribù germanici suoi vassalli che poterono consolidare la propria posizione, sancita da Attila, a scapito dell'individualismo dei loro sudditi; sull'appoggio dei ceti mercantili dell'Impero d'Oriente (politicamente parlando: i "verdi") che trovavano estremamente vantaggiosa la presenza, aldilà del confine, di uno stato unno esteso dal Reno al Mar Caspio e, infine, sul favore di molti viri potentes dell'Occidente, che -come Ezio- furono amici degli Unni almeno finché non videro intaccati i loro interessi, vale a dire fino alla vigilia della campagna di Attila in Gallia. Al tempo stesso, la politica di ricatto nei confronti dell'Impero d'Oriente fruttò (448) al re unno, che, nel frattempo, aveva distrutto Viminacium (Kostolac), Margo, Singidunum (Belgrado), Naissus (Nis>), Sardica (Sofia) e Arcadiopoli, la conquista di un territorio a sud del Danubio profondo cinque giorni di viaggio (100-120 miglia).
Nel 451, invocato dai Bagaudi in lotta con i latifondisti gallo-romani e istigato dal vandalo Genseric da sempre desideroso di annientare i Visigoti (Genseric era acerrimo nemico del re visigoto cui, dopo il fallimento di un attentato, aveva rimandato mutilata la figlia), Attila si volse poi a Occidente. Con il pretesto di intervenire in qualità di "custode dell'amicizia romana" contro i Visigoti, il re unno ambiva infatti a sposare Onoria, sorella di Valentiniano III, e a sostituirsi ad Ezio nel controllo della Pars Occidentis. Il suo piano fallì invece miseramente: l'esercito unno formato da Rugi, Gepidi, Sciri, Turingi e Ostrogoti venne sconfitto, il 20 giugno del 451, a qualche miglio dall'odierna Troyes nei Campi Catalauni (Champagne), dalle armate che Ezio, dando sfoggio di una straordinaria abilità diplomatica, potè reclutare tra i Visigoti, i Franchi, i Sassoni, i Burgundi, i contadini Bagaudi e gli invero malfidi Alani. Fu solo in prospettiva di servirsi ancora degli Unni per tenere a freno i Visigoti che Ezio non volle annientare le forze di Attila.
Il re unno non rinunciò però del tutto alle sue mire in Occidente: nel 452 scese nell'Italia settentrionale e distrusse Aquileia, Concordia, Altino, Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo. La carestia che a quel tempo affligeva il paese -più che la celeberrima ambasceria sul Mincio (453) guidata da papa Leone, dall'ex prefetto Trigezio e dall'ex console Gennadio Avieno-, lo dissuase tuttavia a continuare la sua spedizione. Sembra inoltre che questa rinuncia sia stata motivata anche da alcune considerazioni di carattere politico (le armate del nuovo imperatore d'Oriente Marciano stavano attaccando con successo gli Unni sul Danubio) e e di tipo, per così dire, scaramantico: Attila rammentava la repentina morte del visigoto Alarico dopo il sacco della Città eterna.
Come si è detto, una pericolosa minaccia si profilava intanto per il dominio unno in Oriente: a Teodosio II, fautore dei "verdi", era succeduto l'imperatore Marciano. Il nuovo imperatore, in ossequio all'aristocrazia latifondista degli "azzurri" penalizzata dalle scorrerie di Attila, aveva decretato la chiusura dei mercati romani da cui dipendeva la sussistenza degli Unni e aveva attaccato il regno di Attila. Ma, come spesso avviene, anche in questo caso, più che le armi valse la diplomazia e la corruzione: la politica bizantina finalizzata all'istigazione dei Germani alla rivolta sortì come effetto il tramonto della potenza unna: dopo la morte di Attila, gli Unni, disfatti dapprima sul fiume Nedao da una coalizione germanica (di Sciri, Rugi, Svevi ed Eruli) capeggiata dal re dei Gepidi Ardaric, e poi dagli Ostrogoti, -ribellatisi da soli e per primi al loro dominio-, finirono con insediarsi nelle fortezze di confine dell'Impero d'Oriente o furono annientati dalle armate imperiali o si arruolarono negli eserciti d'Occidente. In seguito i resti del popolo unno furono assoggettati dai nomadi Sabiri e Avari (560 ca.) o, fondendosi con i turchi Onoguri, diedero origine al popolo bulgaro.
Dopo il tramonto del regno di Attila, la steppa tornò quindi a ripullularsi di signori arroganti, litigiosi tra loro, a volte in lotta, a volte al servizio dell'Impero. Tra questi vanno ricordati almeno due ex-"luogotenenti" del re unno: il romano di Pannonia Oreste (il padre di Romolo Augustolo) e l'unno Edeco (ant. turco Ädgü, = "buono, nobile", il padre di Odoacre) che si segnalò per la sua ferocia nella lotta contro gli Ostrogoti. La funesta inimicizia tra Odoacre e il re ostrogoto Teodorico aveva dunque radici lontane.
I Vandali
In origine il termine Wandili designava un gruppo di popoli che comprendeva oltre ai Vandali anche i Goti e i Burgundi. Dalle loro sedi primitive -individuabili su base toponomastica in Norvegia, e più esattamente nella provincia dell'Hallingdal, e nella Svezia meridionale, nel Vendel nell'Uppland- i Vandali migrarono dapprima alla volta delle foci della Vistola e quindi (I secolo a.C.), sotto la pressione di Rugi e Burgundi, in direzione della Posnania meridionale. Qui sottomisero i celti Boi e, ricevuto un apporto di nuovi immigrati, i Silingi originari dello Seeland, diedero vita all'anfizionia dei "Lugi" (i "compagni").
Alleati di Roma nella guerra contro i Daci (inizi del II secolo), furono indotti dalla migrazione dei Goti e dall'attraversamento della Slesia da parte di truppe longobarde, ad entrare in conflitto con l'imperatore romano Marco Aurelio (167). I Vandali Hasdingi (detti anche Harii dal nome della loro dinastia dominante) si stanziarono allora nella valle della Tisza superiore e furono costretti a fornire contingenti all'Impero. In seguito, dopo esser stati sconfitti dai visigoti Thervingi del re Geberic, ottennero da Costantino (335) il permesso di insediarsi come federati sulla riva destra del Danubio. I Vandali Silingi, che erano invece insediati nella Slesia, presero parte intorno alla metà del III secolo ad una sfortunata scorreria dei Burgundi in territorio romano: battuti sul fiume Lech in Rezia, furono costretti a prestare servizio nella cavalleria romana (un'ala VIII Vandilorum è attestata in Egitto).
All'arrivo degli Unni in Europa, i Silingi della Slesia poterono mantenersi indipendenti; gli Hasdingi invece si spostarono alla volta della Pannonia e di qui, uniti agli Alani, passarono nel Norico e in Rezia dove furono accolti da Stilicone in qualità di federati. Nel 406, aggregatisi agli svevi Quadi e alla massa dei loro fratelli Silingi (quelli rimasti nella Slesia furono in seguito assorbiti dagli Slavi), i Vandali Hasdingi si mossero in direzione della Gallia: i detrattori del generale barbaro Stilicone, che, com'è noto, era figlio di un ufficiale di cavalleria vandalo dell'imperatore Valente, insinuarono che i barbari fossero stati spronati dal "traditore semibarbaro". In realtà, le armate imperiali di Stilicone, a quel tempo alle prese con i Goti di Radagaiso, non erano state in grado di respingere l'invasione. Attaccati dai Franchi, fedeli alleati di Roma, i quali massacrarono 20 mila Hasdingi e il loro re Godigisel, i Vandali passarono sotto la guida di Gunderic il Reno nei pressi di Magonza e avanzarono assieme agli Svevi e agli Alani in direzione di Treviri, Reims, Tournai, Amiens, Parigi e poi verso sud a Tours e Bordeaux. Di qui, oltrepassati i Pirenei, dilagarono nella penisola iberica e saccheggiarono Pamplona, Burgos, Salamanca e Siviglia (409): solo la Spagna Tarraconense rimase sotto il controllo romano. Riconosciuti federati dell'Impero d'Occidente, gli Hasdingi occuparono la Galizia oreientale, gli Svevi quella occidentale, i Silingi si insediarono nella Betica e gli Alani -che erano numericamente i più importanti dei barbari invasori, in Lusitania e Cartaginese.
Su mandato degli imperatori d'Occidente, i re visigoto Athaulf (il successore di Alarico) e Wallia tentarono di riconquistare la Spagna all'Impero: Fredbal, il re dei Silingi, fu sconfitto e inviato come prigioniero alla corte imperiale di Ravenna. Dopo la morte in battaglia del loro re Addac, gli Alani si unirono agli Asdingi e attaccarono gli Svevi che nel frattempo si erano schierati a fianco dell'Impero: gli Svevi furono salvati a stento da un'armata romana guidata dal comes Asterio. I Vandali sconfissero allora il generale romano Castino, perpetrarono delle scorrerie piratesche lungo le coste delle Baleari e della Mauretania ed espugnarono, nel 428, la città di Siviglia, l'ultimo bastione romano nella penisola iberica. Nonostante i successi, l'anno seguente, il re vandalo Genseric, fece imbarcare, 80.000 persone (delle quali ben 50 mila erano vandali) alla volta dell'Africa.
Dopo uno scontro vittorioso con il governatore romano Bonifacio (430), Genseric fissò la sua residenza a Hippo regius e cominciò ad assediare Cartagine che fu espugnata solo nel 439. Nel 440, i Vandali costruirono una flotta con cui conquistarono la Sicilia e coste spagnole. L'imperatore romano Valentiniano propose loro un accordo che prevedeva la spartizione dei domini africani: la Tripolitania sarebbe rimasta all'Impero mentre i Vandali avrebbero avuto la piena sovranità sull'Africa proconsolare, ma, dopo la morte dell'imperatore, i rapporti tra i Romani e i Vandali si deteriorarono. Genseric decise allora di saccheggiare la Città eterna (455).
Nel loro regno, i Vandali, ispirati dai vescovi ariani dell'Africa, perseguitarono crudelmente il clero cattolico. E' noto inoltre che Genseric, desideroso di stabilire il proprio dominio su tutto l'Impero romano, mantenne delle ottime relazioni diplomatiche con il re degli Unni Attila.
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