Uno, Nessuno e Centomila - Studentville

Uno, Nessuno e Centomila

Trama e analisi di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello.

LA VITA: Luigi Pirandello

“Io dunque sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà”, diceva Pirandello in quel frammento d’autobiografia dettato, nell’estate 1893, dall’amico Pio Spezi, che lo pubblicò molti anni dopo sulla “Nuova Antologia” (16 giugno 1933). L’allusione è alla rustica casa, detta “il Caos”, nella campagna intorno a Grigenti (divenuta, nel 1927 Agrigento), dove Luigi nacque il 28 giugno del 1867. Nella famiglia di Pirandello era particolarmente viva la componente patriottica: Stefano, il padre, di origine ligure, aveva combattuto con Garibaldi e, nel novembre 1863, aveva sposato la sorella di un commilitone, Caterina Ricci Gramitto. Gli anni della formazione siciliana di Luigi, lo vedono alle prese con il locale patrimonio folcloristico di superstizioni e leggende e un’educazione religiosa. Luigi è iscritto dal padre, commerciante di zolfo, alle scuole tecniche, ma l’attrazione per i classici è così forte che prepara un esame integrativo e passa al ginnasio. In seguito al rovescio economico del padre, la famiglia si trasferisce a Palermo, dove Luigi si iscrive alla facoltà di Lettere e a quella di Legge. Qui si innamora della cugina Paolina e entra in contatto con quella generazione di giovani fra cui si formeranno i dirigenti dei Fasci siciliani. Nel 1887 si trasferisce a Roma e nel 1889 si iscrive alla facoltà di Bonn. Dal 1892 grazie a un assegno concessogli dal padre, si stabilì a Roma, dedicandosi interamente alla letteratura. Strinse legami con il mondo culturale romano, soprattutto grazie al letterato siciliano Ugo Fleres e a Luigi Capuana. Nel ’93 scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa, e un anno dopo sposò Maria Antonietta Portulano. Nel 1903 un allagamento alla miniera di zolfo, in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio e la dote stessa della nuora, provocò il dissesto economico della famiglia, ciò portò, inoltre, la moglie, a un irreversibile follia. La convivenza con la donna, che era ossessionata da una patologica gelosia, costituì per Pirandello un tormento continuo, che può essere considerato, come il germe della sua concezione dell’istituto familiare come “trappola” che imprigiona e soffoca l’uomo. Per uscire dalla precaria condizione economica Pirandello intensificò la sua produzione letteraria che, tra il 1904 e il 1915, si fece più fitta. Dal 1910 ebbe il primo contatto con il mondo teatrale, con la presentazione di due atti, ma la sua produzione teatrale si fa più feconda dopo il 1915 con opere del calibro di Così è se vi pare, il berretto a sonagli, Il piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti, fino ad arrivare nel 1920 a Sei personaggi in cerca di autore. I drammi pirandelliani nel corso degli anni Venti e Trenta furono conosciuti e rappresentati in tutto il mondo. Nel 1925 assunse la direzione del teatro d’arte a Roma, mettendo in scena spettacoli tratti da opere proprie, ma anche di altri autori. L’esperienza del teatro d’arte fu resa possibile anche dal finanziamento dello Stato. Pirandello, nel 1924, si era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. Negli ultimi anni lo scrittore seguì particolarmente la pubblicazione organica delle sue opere, in numerosi volumi: le Novelle per un anno, che raccoglievano la produzione novellistica, e le maschere nude, in cui venivano sistemati i testi drammatici. Nel 1934 gli venne assegnato il premio Nobel per la letteratura, a consacrazione della sua fama mondiale. Era attento anche al cinema, pur sapendo del pericolo che questa nuova forma di spettacolo costituiva per il teatro, e seguiva da vicino gli adattamenti cinematografici delle sue opere. Mentre negli stabilimenti di Cinecittà a Roma assisteva alle riprese di un film tratto da un suo romanzo, Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite e morì il 10 dicembre 1936, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro teatrale, I giganti della montagna, in cui culminava una nuova fase della sua produzione drammatica, quella dei “miti”.

Leggi anche:

NARRATORE:

Il romanzo è narrato in prima persona da un narratore interno: Vitangelo Moscarda, il protagonista della vicenda. Il narratore non racconta, commenta ad intervalli, distaccati l’uno dall’altro, e alterna alla riflessione, la provocazione. È un tono di voce, questo del narratore, che alla fine riesce forte ed uniforme, pur nei frequenti scatti e nei non meno improvvisi abbassamenti di tensione intellettuale, a favore di momenti idillici, se non addirittura estatici. All’impressione quasi grafica di discontinuità compositiva, certamente voluta, fa da riscontro quindi, la presenza di una voce narrante, le cui alternanze e contrazioni, o dilatazioni, governano non un racconto tradizionale, ma una sorta di flusso di coscienza, “stream of consciosness”. Dal mio punto di vista ho trovato particolarmente interessante e originale questo modo di raccontare, intervenendo continuamente a destare l’attenzione del lettore, chiamato in prima persona a partecipare alle vicende, il “voi” diventa un vero e proprio personaggio. Questa funzione di “pungolo” che Pirandello ha attribuito a Vitangelo è focalizzata a invogliare il lettore a riflettere su quanto detto, non può lasciarti indifferente.

 

IL ROMANZO HA UNA DIVISIONE INTERNA?

Il romanzo presenta una divisione interna piuttosto articolata: si suddivide in otto libri che comprendono capitoli identificati, ciascuno con il proprio titolo. L’unità nominale dei loro argomenti e la significazione complessiva sono, in questo modo, garantiti. Ma se si guarda all’interno, il taglio e la misura dei singoli capitoli risultano sempre più rapidi e incisivi.

Il libro I è una sorta di preambolo necessario per lo sviluppo del romanzo intero. Il protagonista scopre infatti, grazie ad un’osservazione della moglie, che il naso gli pende verso destra, si rende così conto di non conoscere il suo stesso corpo, le cose che più intimamente gli appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe.

Il libro II introduce un altro elemento di riflessione annunciato, ma non sviluppato nel precedente. Riguarda il soprannome impiegato da Dida per rivolgersi a Vitangelo: Gengè.

Su questo tono prosegue il terzo libro: continua il rifiuto del nome, questa volta tocca anche al cognome Moscarda. È chiamata in causa, poi, la storia della famiglia e la vita del padre, un banchiere che esercitava l’usura e della cui attività Vitangelo continua a godere.

Il libro IV parla della prima “pazzia” commessa dal protagonista: inizialmente sembra voler sfrattare uno scultore mancato ridotto in povertà, ma alla fine decide di donargli una casa sotto gli occhi di tutti, ma invece di ottenere riconoscenza, viene bollato come PAZZO.

Il libro V rincalza l’attenzione precedente di sottrarsi del tutto alla taccia di usuraio, ritirando nomi e soldi dalla banca gestita dagli amici. Siffatta decisione è maturata, però, soprattutto contro la moglie, sino al punto di afferrarla e sbatterla su una poltrona.

Il libro VI, che registra l’abbandono della casa da parte di Dida, un inutile dialogo tra Vitangelo e il suocero, la volontà del protagonista di laurearsi, dimostra l’impossibilità di liberarsi di Gengè.

Il libro VII contiene una sorta di intervallo romanzesco, dove Vitangelo è alle prese con un’amica della moglie: Anna Rosa, che gli rivela che i familiari vogliono interdirlo.

Il libro VIII conduce il protagonista là dove da tempo è diretto: un ospizio di mendiità, costruito per penitenza dei suoi peccati, dietro intervento ecclesiastico.

TIPOLOGIA TESTUALE: romanzo di carattere (filosofico – umoristico).

 

TRAMA:

Da uno specchio, superficie ambigua e inquietante, emerge un giorno per Vitangelo Moscarda, un volto di sé finora ignorato: un naso in pendenza verso destra. Questo avvenimento provoca in lui una profonda crisi che lo porta a scoprire che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere “uno”, come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere “centomila”, nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi “nessuno”. Questa presa di coscienza fa saltare tutto il sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle “forme” in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere “nessuno”. Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell’usuraio” ( il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca), per cercare di essere “uno per tutti”. Incomincia così a ribellarsi facendo cose che, agli occhi di chi gli sta attorno, appaiono incomprensibili. Ricorre così ad una serie di gesti folli, come regalare una casa a un vagabondo. Vuole vendere la banca di cui non si è mai occupato e che gli assicura una certa agiatezza economica, e quando rivela alla moglie e all’amico Quantorzo che vuole cancellare la nomea di usuraio, loro scoppiano a ridere senza ritegno. Così colpito nell’animo, già, fortemente contrastato, strattona la moglie ribellandosi a quella marionetta, di nome Gengè, di cui ella si era sempre compiaciuta. Le pazzie si intensificano: ferito gravemente da un’amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri, ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale.
Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della vita, rifiutandosi di fissarsi in alcuna “forma”, rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aeri. Pensare alla morte, pregare. C’è pure che ha ancora questo bisogni, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma ogni cosa fuori.

TEMPO:

Fabula e intreccio sostanzialmente coincidono perché gli avvenimenti seguono l’ordine cronologico. Bisogna, però, sottolineare il fatto che nella prima parte del romanzo non vi è racconto, ma solo l’arrovellarsi ossessivo del protagonista, monologante, sui temi dell’identità fittizia, dell’inconsistenza della persona. Solo nella seconda parte il filo di un intreccio comincia a dipanarsi, ma anche qui l’organicità del racconto, la concatenazione logica e coerente delle cause e degli effetti, salta: i gesti inconsulti del protagonista sono la negazione di una logica comune, sono coerenti solo all’interno della sua follia, e così pure il gesto di Anna Rosa, l’amica della moglie che spara a Vitangelo, resta del tutto gratuito, immotivata, inspiegabile.

Da sottolineare, inoltre, la presenza di alcune digressioni ( il racconto della casa del padre, le corse in carrozza da ragazzo ), incisi filosofici ( nuvole e vento, l’uccellino, campagna e città), nonché anticipazioni (mia moglie, che non era stata mai mia moglie, ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi più amare, di non poter più convivere con me neanche un minuto e scappò via. Sissignori, come vedrete, scappò via).

Non viene esplicitamente indicato nel testo quando avvengono le vicende, ma è plausibile pensare che il romanzo sia ambientato nei primi anni del Novecento, lo possiamo dedurre dalle descrizioni degli ambienti, dei personaggi e dalle professioni esercitate. Non si parla di avvenimenti storici di rilievo tali da farci dedurre il contesto storico del romanzo, che appare così in escono piano. Non sappiamo neppure quanto durano le vicende, presumibilmente qualche mese.

Il tempo della storia è sicuramente minore rispetto al tempo del racconto, non vi sono infatti sommari, ma solo pause, descrittive e dialogate, e analisi soprattutto filosofiche. Il ritmo è lento, in modo particolare nella prima parte del racconto.
Alla luce di quanto detto, emerge, in primo luogo, l’esiguità dei fatti, estremamente pochi e l’assenza di riferimenti temporali, questo perché per Piarandello non sono importanti gli avvenimenti quanto le considerazioni che si possono trarre. Lo stesso vale per l’aspetto temporale: l’autore ha tentato di creare un romanzo “fuori dal tempo” che potesse cioè adattarsi a qualsiasi epoca, in effetti gli argomenti trattati sono moderni, riguardano anche noi stessi, provocando in questo modo, un vero e proprio annullamento del tempo storico.

SPAZIO:

Gli avvenimenti si svolgono nella nobile città di Richieri, inventata e che potrebbe rifarsi tanto ad Agrigento quanto a Palermo, e si articolano in ambienti sia interni che esterni: la casa del protagonista, la banca, le vie della città, la Badia Grande ecc. ecc. di questi luoghi l’autore ci fornisce particolari descrizioni: e pareva un lago la piazza con tutto quel brillio di stelle un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava…- Quella Badia, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridoio con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rossi del pavimento avvallato lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e di aspetti di vita aveva accolto in sè.
L’ambiente che prevale è cittadino, e la folla è importante perché alimenta le dicerie sulla pazzia di Vitangelo, che si sente continuamente osservato e giudicato da tutti come un usuraio. I luoghi sono presentati dal punto di vista del protagonista e nelle sue descrizioni prevalgono sostanzialmente elementi visivi.

PERSONAGGI:

Il protagonista assoluto di questo romanzo è Vitangelo Moscarda, di lui l’autore ci offre anche una descrizione fisica in diversi punti della narrazione, e in particolare mentre analizza i suoi difetti fisici: “avevo ventotto anni e sempre fino allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona- le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti”. Ancora più interessante è la descrizione che Vitangelo si fa guardandosi allo specchio: “gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura e pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella cornea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato”.

La “crisi” di Vitangelo scoppia con la presa di coscienza di un difetto fisico: di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, del signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali…alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc.ecc ? È la sua mente che ci interessa e che viene accuratamente scrutata e vediamo che il protagonista si arrovella, perde il sonno pur di trovare una risposta ai suoi quesiti, per vedere in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale. Bisogna per Vitangelo vivere di attimo in attimo, in perenne mutazione, e ciò è una condizione esaltante, gioiosa. Ma per arrivare a questa conclusione ha dovuto affrontare la società e distruggere quelle immagini che la gente si era creata di lui: non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto…nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri.

Gli altri personaggi che compaiono nel racconto possono essere così suddivisi:
quelli che lo considerano Gengè:

• La moglie Dida, innamorata di quella marionetta che reputava sciocca, timida, quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito… quando il protagonista la strattona, incredula che quell’uomo possa essere il suo Gengè, lo abbandona. Vitangelo ne era comunque innamorato.

• Il padre di Dida, molto curato, non pur nei panni, anche nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo, biondo; e d’aspetto non dirò volgare, ma comune ad ogni modo. Anche per lui Vitangelo era uno stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé

Anna Rosa, un’amica di Dida, presente nella parte più romanzata del racconto, orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badia Grande. Sembra pazza quando si ferisce incidentalmente e poi ferisce lo stesso Vitangelo.

Quelli che lo considerano usuraio:

Firbo e Quintorzo, gli amici fidati di Vitangelo così come li definisce lui, voluto bene da tutti quei consoci, da Quantorzo, come figliuolo, da Firbo, come un fratello: i quali tutti sapevano che con me era inutile parlare di affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare… Infatti questi due soci del protagonista non avevano di lui alcuna considerazione, gestivano gli affari non curanti dell’opinione del padrone della banca: Vitangelo che di fatto era per tutti un usuraio. Quando Vitangelo assume un atteggiamenti inconsueto e commette delle “pazzie”, i due cari amici del protagonista non si preoccupano di scoprirne la causa, ma si limitano a trovare la soluzione migliore per non vedere danneggiati i loro interessi. Risultano così infidi, privi di compassione, interessati solo al denaro.

La folla, le persone del paese non sono dei veri personaggi, ma sono importanti perché concorrono ad aumentare la crisi del protagonista, che si vede da tutti bollato come usuraio.

Monsignor Partanna, era stato eletto vescovo per istanze e mali uffici di potenti prelati a Roma. Don Antonio Sclepis, era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto.

STILE:

il romanzo assume la forma del soliloquio, trasformabile o meno in un dialogo con un pubblico chiamato all’ascolto della voce narrante, e voluto presente, quasi come prima incarnazione di un pubblico di lettori. I quali a teatro ovviamente non esistono; ed anche nel romanzo dovrebbero per Pirandello, uscire dalla loro condizione passivi ed essere coinvolti da chi li provoca.

Per quanto riguarda la sintassi, Piandello fa di tutto perché il soliloquio di Vitangelo Moscarda perda il timbro di protesta e di denuncia in nome dei valori umani genericamente condivisi. Deve risuonare, piuttosto, come pronuncia di una voce singola, socialmente, e prima ancora familiarmente emarginata. Comunque Pirandello non si serve di toni accesi e disperati, come invece aveva fatto nel Fu Mattia Pascal. Frequenti sono le frasi esclamative nelle quali si esprime tutto il desiderio di fuga dal mondo e di annullamento della natura che anima Vitangelo Moscarda, un mio dunque che non era per me!, tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente!

Il lessico è ricco di aggettivi, molte sono le affermazioni incidentali, le interrogative retoriche, forme verbali esortative o imperative: ma in attesa di che, lui? Di vedermi? no. egli poteva essere veduto, ma non vedermi,- la campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Si; ma se mi sapete dire dov’è? Dico la pace. No, non temete, non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua?. 

Interessante è il passo nel racconto in cui Pirandello arriva a chiedere scusa ai suoi lettori per gli ammiccamenti cui è costretto a ricorrere, non potendo sapere come loro appare in quel momento: scusatemi, tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare così perché, non potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare.

Pirandello ha utilizzato un linguaggio originale, diretto, in grado di comunicare al lettore l’angoscia più o meno esplicita del personaggio senza filtri ipocriti e fuorvianti. Pirandello ha dato luogo ad uno sperimentalismo straordinario grazie ad un lessico raffinato e letterato, elementi dialettali e gergali, termini specialistici, espressioni trite e banali, il discorso indiretto libero e primo fra tutti il dialogo, usato con grandissima frequenza e segnalatore di una qualità scenica della scrittura pirandelliana che si manifesta anche con l’immediatezza visiva dei gesti e delle parole.
Ne risulta una lingua parlata, intessuta di movimenti, drammatica, che riflette la propensione di Pirandello perla scrittura teatrale: una scrittura che è il risultato di un sapiente impasto di parole, silenzi, gesti, espressioni e rapporti spaziali.

TEMI:

ALCUNE INFORMAZIONI SULLA FORMAZIONE DEL ROMANZO:
Uno, nessuno, centomila, l’ultimo romanzo di Pirandello, fu pubblicato a puntate sul settimanale “La fiera letteraria” nel 1926. L’idea del romanzo era già nella mente di Pirandello nel 1910, come si capisce dalla lettera a Botempelli. La previsione di Pirandello non si realizzò e il romanzo non comparve nel 1913. Un testo che anticipa la stampa del romanzo appare nel gennaio del 1915, il lavoro di scrittura procederà poi fra alti e bassi negli anni successivi: ” sto ora ultimando un romanzo che avrebbe dovuto uscire prima di tutte le mie commedie. In questo romanzo c’è la sintesi completa di tutto ciò che ha fatto e la sorgente di quello che farò”, questa una delle dichiarazioni di Pirandello. Il libro appare quasi ultimato nel 1922, ma vedrà la luce solo quattro anni più tardi.

Un lungo processo che abbraccia trasversalmente non solo la vita, ma l’opera stessa di Pirandello; in questo romanzo si ritrovano infatti le principali tematiche trattate dallo stesso:

1. La presa di coscienza della prigionia delle “forme”:
il problema dell’identità era già presente nel Fu Mattia Pascal e viene affrontato da Vitangelo Moscarda che parla in modo retrospettivo: il protagonista conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo. Dopo la scoperta che il naso gli pende da una parte egli, che non se ne era ami avveduto, scopre così che l’immagine che si è creato di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Si rende conto del fatto che esistono infiniti “Moscarda”, l’uno diverso dall’altro, a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la moglie. In lui nasce pertanto un vero orrore per la prigionia delle “forme” in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non essere “nessuno” per sé, e questo genera in lui un’altra forma di orrore, un senso angoscioso di assoluta solitudine.

2. La rivolta e la distruzione delle forme: la pazzia:
La pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani per scardinare il meccanismo delle forme, delle convezioni e degli istituti sociali che imprigionano la vita nel suo fluire. Viene quindi vista positivamente.

3. Sconfitta e guarigione:
Moscarda ha cercato, con le sue follie, di ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è rimasto sconfitto. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano, alienarsi da se stessi, rifiutare il proprio nome, per abbandonarsi gioiosamente al fluire della vita, morendo ad ogni attimo e rinascendo nuovo e senza ricordi, per identificarsi con tutte le cose fuori.

4. L’umorismo:
Esso si basa sulla finzione, per cui l’individuo, per non essere emarginato dai suoi simili, deve ricorrere a continue menzogne e ipocrisie, deve insomma indossare una maschera che solo la riflessione umoristica permette di individuare e denunciare. La consapevolezza dell’inganno del vivere conduce inevitabilmente ad una rottura dei valori borghesi tradizionali e soprattutto a una visione lacerata e frammentaria della creatura umana e a nessuna identità profonda, che si rispecchia in un’arte disorganica e trasgressiva, deformata e critica.

5. L’identificazione uomo – natura:
Nella parte finale del racconto tra uomo e natura si crea un’identificazione profonda, quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, quasi mistica, è proposta come modello per ogni uomo che sappia rompere il meccanismo delle convenzioni sociali.

6. Lo specchio:
Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più viva, perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita per vedersi. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo e non può mai vedere veramente se stessa…lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive… non si può vivere davanti a uno specchio. Vitangelo si è reso conto che nessuno di noi può vedersi e anche se uno riuscisse a conoscersi, di fatto non potrebbe mai sapere che cosa pensano gli altri.

Scopri tutte le risorse per l’approfondimento di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello:

  • Letteratura Italiana
  • Luigi Pirandello
  • Letteratura Italiana - 900

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti