Vita e opere Poche sono le notizie in nostro possesso sulla vita di questo che ò certamente il personaggio più poliedrico e affascinante dell’età degli Antonini (lo stesso “praenomen” tramandatoci sembra essere piuttosto una conseguenza del fatto che il protagonista del suo romanzo si chiama appunto Lucio); notizie, del resto, tutte ricavabili da certe informazioni che lo stesso scrittore ci fornisce nelle sue opere, soprattutto nell’ “Apologia”. Così sappiamo che nacque a Madaura intorno al 125 d. C, che fu di estrazione agiata e che studiò a Cartagine, dove apprese le regole dell’eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi allo studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l’attraeva erano le dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: ma lo stoicismo, al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui Marco Aurelio sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della dottrina che allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo dire “teosofico”), impregnata di misticismo e addirittura di magia. L’iniziazione ai culti misterici. A. si fece iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano nell’Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside, culto dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza era di trovare il “segreto delle cose” e, al pari della sua eroina Psiche, si abbandonava a tutti i dòmoni della curiosità , avventurandosi fino alle frontiere del sacrilegio. L’accusa di magia e il processo. La strada del ritorno dalla Grecia all’Africa lo condusse attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica, dove lo attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). Ad Oea (l’odierna Tripoli), infatti, conobbe Pudentilla, madre di uno dei suoi compagni di studi ad Atene, Ponziano, la quale, rimasta vedova, desiderava riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti della nobildonna, adirati nel vedere compromessa l’eredità , intentarono un processo al “filosofo” straniero accusandolo di aver plagiato e sedotto la donna con arti magiche per impossessarsi dei suoi averi, e lo tradussero davanti al governatore della provincia. Per difendersi, A. compose un’arringa scintillante di spirito, che ci ò stata conservata col titolo di “Apologia” (158). Gli ultimi anni. Dopo il processo, lo scrittore tornò a Cartagine, dove ottenne varie dignità (come quella di “sacerdos provinciae” del culto imperiale, ma fu pure sacerdote e propagandista del culto di Asclepio) e dove proseguì la sua brillante carriera di conferenziere (i Cartaginesi giunsero ad innalzare statue in suo onore). Infine, la sua morte va collocata probabilmente dopo il 170 d. C., dal momento che da quest’anno in poi non abbiamo più notizie sul suo conto. Apologia [trad. it] o “De magia” (158), come detto, versione successivamente rielaborata della propria, vittoriosa, orazione difensiva. L’episodio autobiografico viene filtrato attraverso una densa rete letteraria, che lo rende quasi emblematico, se non addirittura mitico; costante vi ò poi l’ironia, da cui traspare la sicurezza della vittoria. In quest’opera, così, ò già in nuce lo stile caratteristico dello scrittore, fatto di folgorazioni, sospensioni, parallelismi, allitterazioni, di espressioni nuove ed inaspettate, dove il ciceronianismo di fondo già si sfalda in una serie di brevi, frizzanti periodi. Dal punto di vista della difesa, invece, A. distingue tra filosofia e magia: la differenza ò che il filosofo può avere contatti coi demoni (vd. oltre, “De deo Socratis”) per fini di purificazione spirituale, mentre il mago, con le sue arti, intende raggiungere scopi malefici. E’, infine, interessante paragonare questo genere di eloquenza, di discorso effettivamente pronunciato davanti a un tribunale, con quella dei “Florida” [vers. lat] (antherà , “selezioni di fiori”), estratti di conferenze (23 brani oratori) tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma, antologizzati in 4 libri da un anonimo ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico. De mundo Rifacimento – in chiave stoicheggiante – dell’omonimo trattato pseudoaristotelico; – “De Platone et eius dogmate” [vers. lat], una sintesi della fisica e dell’etica di Platone, cui doveva seguire una logica (“Perì ermeneias”? ): ne emerge un Platone permeato di neopitagorismo, di teorie misteriche ed iniziatiche; – “De deo Socratis” [vers. lat], un opuscolo in cui A. esamina la demonologia di Socrate: sotto l’influsso delle filosofie orientali, i “demoni” (ovvero, divinità ) diventano Angeli, o affini ad essi, per A., spiriti che fungono da intermediari tra gli dòi e gli uomini, e che presiedono a rivelazioni e presagi. – Numerose, poi, le opere perdute, o di cui ci resta molto poco. Scrisse di aritmetica, musica, medicina ecc., e, tra le altre cose, compose “Carmina amatoria”, “Ludicra” (di questa raccolta faceva parte un carme su un dentifricio e due epigrammi d’amore conservati nell’ “Apologia”) e poi una traduzione del “Fedone” platonico, un romanzo, “Hermagoras”, di cui ci restano due frammenti e nel quale doveva essere celebrato il culto di “Ermete Trismegisto”. Il carattere enciclopedico e insieme misterico e salvifico della sua produzione minore ò confermato pure da scritti trasmessi sotto il suo nome, specie da un dialogo ermetico apocrifo, l’ “Asclepius”. Metamorfosi (“Metamorphoseon libri XI”), denominato a volte “L’asino d’oro” (“Asinus Aureus”), certamente il suo capolavoro (“Asino d’oro” ò il titolo con cui la prima volta lo indicò Sant’Agostino nel “De civitate Dei”: ma non si sa se l’aggettivo “aureus” sia stato coniato in riferimento alle doti eccezionali dell’asino, oppure alla qualità artistica del romanzo, oppure ancora al valore di edificazione morale insito nella storia del protagonista). Le “Metamorfosi”. Considerazioni *Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, ò forse l’adattamento (almeno nei primi 10) di uno scritto di Luciano di Samosata di cui non siamo in possesso, ma del quale ci ò pervenuto un plagio intitolato “Lucius o L’asino”: si discute se A. abbia seguito il modello solo nella trama principale, o ne abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche tragiche ed erotiche. Non ò improbabile, poi, che sia A. che Luciano abbiano (sia pure con intenti del tutto diversi) rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata, manco a dirlo, “Metamorfosi”, e attribuito ad un certo Lucio di Patre, il cui canovaccio esteriore ò praticamente lo stesso dell’opera del nostro. “Le “Metamorfosi” di A. gravitano comunque nella tradizione della “milesia”, ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo, arricchito però dall’originale e determinante elemento magico e misterico. Dunque, nell’opera, il magico si alterna con l’epico (nelle storie, ad es., dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati ovviamente in un unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza rigoroso), che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella piena padronanza di diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale: e il tutto in una lingua, comunque, decisamente “letteraria”. Trama *La storia narra di un giovane chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore), appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là , per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila ò ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio – avvinto dalla sua insaziabile “curiositas” – vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia da soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema ò un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di “Amore e Psiche”, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura di Psiche, l’Anima, innamorata di Eros, dio del desiderio, uno dei grandi dòmoni dell’universo platonico, la quale possiede senza saperlo, nella notte della propria coscienza, il dio che lei ama, e che però smarrisce per curiosità , per ritrovarlo poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli “elementi” del mondo) (vd oltre, la parte dedicata specificamente alla favola). Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finchè – dopo altre peripezie – si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia di Cancree; durante la notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride. La chiave “mistagogica” *L’ultima parte del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione mistica ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E’ evidente che ò un’aggiunta di A., al pari della celebre “favola” di Amore e Psiche, che si trova inserita verso la metà dell’opera: centralità decisamente “programmatica”, che fa della stessa quasi un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta decodificazione. Ci si può chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare l’intenzione dell’autore. In realtà l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, ha un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo, interpretato specificamente ora come mito filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di iniziazione al culto iliaco, ora – ma meno efficacemente – come un mito cristiano. Certo ò, comunque, che tutto il romanzo ò carico di rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’XI libro ò certamente la conclusione religiosa (lo stesso numero dei libri, 11, sembra del resto far pensare al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, 10 appunto di purificazione e 1 dedicato al rito religioso). Il tutto farebbe delle “Metamorfosi”, così, un vero e proprio romanzo “mistagogico”, che sembrerebbe invero registrare l’esperienza stessa dello scrittore. Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione, ci offre una straordinaria descrizione delle province dell’impero al tempo degli Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto. Confrontato con quello di Petronio, dà però la curiosa impressione che i personaggi vi siano osservati a maggiore distanza, come in un immenso affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse. La favola di “Amore e Psiche”. Come detto, la favola di Amore e Psiche, che si estende emblematicamente dalla fine del IV libro (paragrafo XXVIII) a buona parte del VI (prg. XXIV incl. ), ha un’importanza esemplare nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo esornativa, ma fornendocene invero la corretta chiave di lettura e di decodificazione, fulcro artistico ed etico dell’opera tutta. Trama La favola inizia nel più classico dei modi: c’erano una volta, in una città , un re e una regina, che avevano tre figlie. L’ultima, Psiche, ò bellissima, tanto da suscitare la gelosia di Venere, la quale prega il dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione disonorevole per l’uomo più vile della terra. Tuttavia, lo stesso Amore si invaghisce della ragazza, e la trasporta nel suo palazzo, dov’ella ò servita ed onorata come una regina da ancelle invisibili e dove, ogni notte, il dio le procura indimenticabili visite. Ma Psiche deve stare attenta a non vedere il viso del misterioso amante, a rischio di rompere l’incantesimo. Per consolare la sua solitudine, la fanciulla ottiene di far venire nel castello le sue due sorelle; ma queste, invidiose, le suggeriscono che il suo amante ò in realtà un serpente mostruoso: allora, Psiche, proprio come Lucio, non resiste alla “curiositas”, e, armata di pugnale, si avvicina al suo amante per ucciderlo. Ma a lei il dio Amore, che dorme, si rivela nel suo fulgore, coi capelli profumati di ambrosia e le ali rugiadose di luce e il candido collo e le guance di porpora. Dalla faretra del dio, Psiche trae una saetta, dalla quale resta punta, innamorandosi, così, perdutamente, del’Amore stesso. Dalla lucerna di Psiche una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, e lo sveglia. L’amante, allora, fugge da Psiche, che ha violato il patto. L’incantesimo, dunque, ò rotto, e Psiche, disperata, si mette alla ricerca dell’amato. Deve affrontare l’ira di Venere, che sfoga la sua gelosia imponendole di superare quattro difficilissime prove, l’ultima delle quali comporta la discesa nel regno dei morti e il farsi dare da Persefone un vasetto. Psiche avrebbe dovuto consegnarlo a Venere senza aprirlo, ma la curiosità la perde ancora una volta. La fanciulla viene allora avvolta in un sonno mortale, ma interviene Amore a salvarla; non solo: il dio otterrà per lei da Giove l’immortalità e la farà sua sposa. Dalla loro unione nascerà una figlia, chiamata “Voluttà “. La chiave di lettura della favola La successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la “curiositas” punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità . La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di “hybris” (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica ò appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso ò evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi ò caduto, e lo fa di sua spontanea volontà , non per i meriti della creatura umana. Le Metamorfosi Libro I: Prologo: il protagonista e narratore si presenta, dicendo di essere greco e di chiamarsi Lucio, ed invita il lettore a prestare attenzione alle fabulae Milesiae che intreccerà per lui. Inizia quindi il racconto principale o cornice. Lucio si trova in Tessaglia, terra della magia, ove si ò recato per affari. Durante il viaggio incontra due viandanti, uno dei quali, Aristòmene, strada facendo racconta l’incredibile storia che gli ò capitata. Racconto di Aristomene: Aristomene incontra per caso ad àpata, in Tessaglia, il suo ex-commilitone Socrate, ridotto ad una larva umana per essere stato l’amante di una strega. Lavato e rivestito l’amico, Aristomene lo porta in una locanda e decide di fuggire con lui l’indomani. Ma durante la notte, per magia, la strega e sua sorella penetrano nella stanza dei due, sgozzano Socrate sostituendo il suo cuore con una spugna ed inondano Aristomene di urina; indi se ne vanno. Mentre Aristomene, terrorizzato, cerca di darsi la morte per non essere accusato dell’omicidio dell’amico, ecco che questi si risveglia come se niente fosse. I due si rimettono in viaggio verso casa. Giunti presso un ruscello, si fermano per riposarsi e mangiare; ma all’improvviso, mentre Socrate si china sull’acqua per bere, il suo collo si squarcia e ne esce la spugna, ed egli cade stecchito. Aristomene fugge e cambia vita, lasciandosi alle spalle il terribile passato. Fine del suo racconto. Lucio, lasciati i due viandanti, giunge ad àpata e si reca a casa del suo ospite Milone. Libro II: L’indomani, al mercato, Lucio viene riconosciuto, proprio a causa della sua bellezza, da una donna che non conosce affatto, Birrena, che si dice amica intima della madre di lui. Il giovane accetta il suo invito e si reca a casa di costei, che lo mette in guardia contro Pà nfila, la moglie di Milone, famosissima maga. L’avvertimento ottiene l’effetto contrario a quello sperato: Lucio, curiosus per natura, ò elettrizzato dalla prospettiva di sperimentare la magia. Per avere accesso ai segreti della padrona di casa, il giovane fa leva sui propri mezzi fisici e seduce la graziosa Fòtide, ancella di Panfila. Quella notte stessa Lucio ha il primo incontro d’amore con lei. Qualche sera dopo egli si reca a cena in casa di Birrena, ove ascolta il terribile racconto autobiografico di uno dei commensali, Telìfrone. Racconto di Telìfrone: giunto a Larissa, in Tessaglia, Telìfrone accetta una stranissima offerta di lavoro: dovrà fare la guardia ad un cadavere per tutta la notte, onde evitare che le streghe ne asportino le parti ad esse necessarie per i loro incantesimi. Il contratto prevede che, in caso di inadempienza, il sorvegliante malaccorto debba rifondere il danno in natura, mutilandosi delle corrispondenti parti del corpo. Il morto in questione ò il marito di una bellissima matrona, che accoglie Telìfrone in lacrime; il giovane si pone a fare la guardia; ma durante la notte penetra nella stanza una donnola, e Telìfrone sprofonda in un sonno pesante. Al mattino si risveglia pieno d’angoscia, ma il cadavere ò intatto. Durante il rito funebre, tuttavia, il vecchio zio del defunto accusa la vedova di averlo assassinato. Il cadavere viene risuscitato temporaneamente per magia e rivela la verità , ma non viene creduto; allora, per dimostrare che dice il vero, racconta ciò che solo lui può sapere, cioò che cosa ò successo mentre Telìfrone dormiva: alcune streghe hanno invocato il nome del morto per attirarlo fuori; ma disgraziatamente il morto ò omonimo di Telìfrone; quest’ultimo, sonnambulo, si ò recato dalla streghe, che gli hanno mozzato naso ed orecchie sostituendoli con organi posticci. A quelle parole, il povero Telìfrone nega disperatamente e si tocca il naso e le orecchie, che subito si staccano. Fine del racconto di Telìfrone. Durante il ritorno verso casa Lucio, ubriaco, s’imbatte in quelli che crede essere tre ladri in procinto di scassinare la porta del suo ospite Milone, e li uccide. Libro III: In un’atmosfera surreale ed onirica, Lucio viene arrestato il mattino successivo e sottoposto a processo per l’uccisione dei tre supposti ladroni. Quando ormai dispera della salvezza, i tre cadaveri vengono condotti in aula, coperti, e lui stesso viene costretto a scoprirli: con sua enorme sorpresa, sotto il drappo appaiono tre otri. Troppo tardi Lucio si accorge, mentre tutti scoppiano a ridere, che il processo ò una farsa: ricorre infatti quel giorno la festa del dio Riso, in cui gli abitanti della Tessaglia amano divertirsi alle spalle degli ingenui. Sarà Fòtide, più tardi, a spiegare a Lucio come siano andate le cose: i tre otri hanno preso vita per un incantesimo di Panfila, e Lucio, nel buio, ubriaco com’era, li ha scambiati per esseri umani e si ò reso così… otricida. Lucio coglie la palla al balzo e chiede a Fotide di permettergli di vedere la padrona mentre si trasforma per virtù di magia; la ragazza acconsente. Il giovane assiste così, non visto, alla trasformazione di Panfila in uccello, e tale ò il suo entusiasmo, che immediatamente chiede a Fotide di spalmarlo con quel filtro portentoso. Ma la ragazza sbaglia unguento, e Lucio viene trasformato in asino, pur conservando intelletto umano. Infuriato ma impotente, Lucio-asino si dirige nel luogo che gli sembra più adatto al suo nuovo stato, e cioò la stalla, in attesa di poter disporre dell’antidoto indicatogli da Fotide: dovrà infatti mangiare delle rose, e subito ritornerà uomo. Ma durante la notte alcuni briganti fanno irruzione in casa di Milone e si portano via anche tutte le bestie da soma, fra cui Lucio. Egli, pur avendone l’occasione, evita di mangiare delle rose, poichè teme di essere ucciso dai briganti una volta tornato uomo. Libro IV: Lucio-asino cerca invano delle rose. Ma i ladroni lo conducono nel loro rifugio sulle montagne, dove le rose non crescono; sopraggiungono ben presto altri componenti della banda. I briganti raccontano le prodezze di tre loro compagni morti: Là maco, àlcimo e Trasileòne. Il giorno seguente viene portata al rifugio una bella e giovane prigioniera, Cà rite, che ò stata rapita con la speranza di ricavarne un riscatto. Per lenire la sua angoscia, la vecchia custode del rifugio racconta una storia: quella di Amore e Psiche. La favola di Amore e Psiche (clicca qui per il testo integrale): C’era una volta un re che aveva tre figlie; la minore, Psiche, era di una tale bellezza che Venere stessa ne era invidiosa e nessun uomo osava chiederla in moglie. Un vaticinio di Apollo, espresso per l’occasione in latino (sic!), chiede che Psiche venga posta in cima ad una rupe, dove andrà sposa ad un orribile mostro. Fra le lacrime di tutta la popolazione, Psiche viene portata sul luogo del supplizio. Ma Zòfiro la solleva e la depone su un prato. Libro V: Psiche, esausta, si addormenta. Al suo risveglio si trova di fronte ad una reggia incantata, nella quale entra. Nel magnifico palazzo non vede nessuno, ma le fanno compagnia le “voci nude”, che la servono, le parlano e suonano per lei. Di notte, nel buio, la raggiunge il misterioso mostro suo sposo, che la fa sua senza permetterle di vederlo. Dopo qualche tempo Psiche, che, contrariamente al previsto, trova molto piacevole la compagnia notturna del marito, ma soffre la solitudine di giorno, riesce a strappargli il permesso di vedere le sue sorelle. Queste, tuttavia, prese da una feroce invidia per la fortuna toccata a Psiche, macchinano la sua rovina e con subdole insinuazioni la convincono che quello con cui giace tutte le notti (e da cui ormai aspetta un figlio) ò un mostro orrendo e pericolosissimo: ella dovrà perciò ucciderlo, per essere salva. Psiche, atterrita, vìola quella notte stessa il comando del marito, portando una lucerna nel talamo mentre lui dorme: ma alla luce della lampada appare, addormentato, un giovane bellissimo, Cupìdo. Psiche si punge con una delle frecce del marito e all’istante si innamora pazzamente di lui; si china per baciarlo, ma nel far questo rovescia sul suo braccio l’olio bollente della lampada, e Cupìdo si sveglia di soprassalto. Vedendosi tradito, vola via, invano trattenuto da Psiche. Prima di andarsene le rivela la verità : Venere, sua madre, gli aveva imposto di dare Psiche in moglie al più abietto degli esseri, ma lui stesso se n’era innamorato e l’aveva voluta come sua sposa. Detto questo, il dio fugge. Psiche, fuori di sè per il dolore, si vendica delle sorelle: fa credere loro che Cupido le desideri come spose e che Zòfiro le traporterà giù dalla rupe; in tal modo le due perfide si sfracellano sulle rocce. Frattanto anche Venere, scoperto l’inganno del figlio, medita vendetta. Libro VI: Psiche chiede invano aiuto a Còrere ed a Giunone. Venere, dal canto suo, fa cercare con un bando Psiche, ma la ragazza decide di presentarsi spontaneamente. La dòa infierisce su di lei con maltrattamenti di vario genere, nel tentativo di imbruttirla; infine, non contenta, le impone alcune prove terribili, che tuttavia Psiche supera con l’aiuto delle formiche, di una canna palustre e di un’aquila; ma la quarta prova ò pressochè impossibile: si tratta di scendere all’Ade per chiedere a Prosòrpina una fiala di bellezza per Venere. Psiche vi riesce con l’aiuto di una torre, ma sulla via del ritorno non sa resistere alla curiosità ed apre la fiala, come Venere aveva previsto: la fiala di Prosòrpina non contiene infatti bellezza, ma morte. Psiche cade a terra esanime. Ma Cupìdo, guarito dalla scottatura e più innamorato che mai, vola presso di lei e la salva. Subito dopo, per intervento di Giove, Cupìdo ottiene il permesso di sposare Psiche, che viene resa immortale. Poco dopo Psiche darà alla luce una figlia, Voluttà . Fine del racconto. Al loro ritorno, i briganti decidono di sbarazzarsi dell’asino; Lucio li previene e fugge. La giovane prigioniera ne approfitta e gli balza in groppa. Ma la fuga dei due viene interrotta dai ladroni, che li catturano e decidono di ucciderli l’indomani, cucendo la giovane nel ventre dell’asino morto. Nel frattempo anche la vecchia si ò impiccata, per timore del castigo. Libro VII: Sopraggiunge un ladrone, il quale informa gli altri che la colpa della rapina in casa di Milone ò ricaduta su Lucio: la notizia affligge moltissimo il povero asino, che vorrebbe discolparsi. Intanto i briganti eleggono come loro capo una nuova recluta, dopo avere ascoltato il racconto delle sue straordinarie prodezze. Il nuovo capo propone di non uccidere la ragazza, ma di venderla ad un lenone: la proposta viene accettata all’unanimità . L’asino, fra sè e sè, ò indignato dell’atteggiamento della giovane, la quale ò tutta contenta di essere venduta come prostituta e per di più si lascia continuamente baciare dal nuovo capo. Ma Lucio si sbaglia: il nuovo ladrone altri non ò che Tlepòlemo, il fidanzato della prigioniera, il quale, ubriacati i briganti, riesce a fuggire con lei e con l’asino. Il giorno dopo i ladroni vengono uccisi e l’asino viene raccomandato alle attenzioni di un mandriano; ma la moglie di quest’ultimo, una perfida megera, lega la povera bestia alla macina; come se non bastasse, Lucio viene assalito dagli stalloni e sottoposto alle sevizie di un malvagio ragazzo, che per di più lo accusa di sconcezze del tutto inventate. In tal modo gli altri pastori si risolvono ad ucciderlo o a castrarlo; finalmente però l’asino riesce a fuggire, spaventato da un’orsa. La libertà ò effimera: Lucio viene catturato da un passante, che verrà accusato a torto dell’assassinio del cattivo ragazzo (ucciso in realtà dall’orsa) e condannato a morte; anche l’asino viene condannato, e, nell’attesa che il supplizio si compia, la madre del ragazzo morto incrudelisce selvaggiamente su di lui. Libro VIII: Il mattino seguente giunge dalla città un servo di Cà rite, la bella fanciulla che era stata prigioniera dei briganti; egli racconta la tristissima fine della storia di Cà rite: Trasillo, un antico pretendente della ragazza, ha ucciso in una battuta di caccia Tlepòlemo, suo novello sposo; la sposa si ò chiusa in un cupo dolore, rifiutando inorridita la proposta di matrimonio di Trasillo, quando una notte le appare in sogno Tlepòlemo e le rivela la verità ; allora la ragazza finge di acconsentire a trascorrere una notte d’amore con l’assassino, ma, dopo averlo narcotizzato, lo acceca con uno spillone. Quindi corre sulla tomba del marito e si uccide. Analoga sorte tocca a Trasillo, che non riesce a sopravvivere alla tragedia e muore dopo avere confessato tutto. Tuttavia per l’asino questa tragedia ò una fortuna, dal momento che i mandriani, temendo che il nuovo padrone sia meno generoso del precedente, decidono di andarsene e portano Lucio con sè, carico di bagagli. Durante il viaggio i mandriani temono l’assalto dei lupi, ma vengono invece ridotti a malpartito da alcuni contadini, che aizzano loro contro dei cani; un giovane pastore viene poi divorato da un drago. Quando finalmente il gruppetto giunge in una grande città , l’asino viene venduto ad un vecchio pederasta dedito al culto di Cìbele, che lo porta subito alle sue “ragazze” (ossia i cinedi che convivono con lui): costoro utilizzano l’asino per portare in processione l’immagine della dòa durante la questua. L’asino, già infastidito da tutto ciò, e disgustato dalle sconcezze di quei pervertiti, richiama l’attenzione dei passanti col suo raglio mentre i “sacerdoti” sono tutti presi dalle loro libidini, col risultato di farsi picchiare quasi a morte. Ma i pericoli, per la povera bestia, non sono finiti: capitato in casa di un cittadino devoto di Cìbele, rischia ora di essere ucciso per andare a sostituire un prosciutto rubato da un cane. Libro IX: L’asino scappa, ma viene catturato da alcuni servi che lo credono ammalato di rabbia; appurato che ò sano, viene restituito ai sacerdoti di Cìbele e ricomincia, suo malgrado, i suoi vagabondaggi. In una locanda apprende la gustosa storia di un marito credulone gabbato dalla moglie traditrice. Un bel giorno, finalmente, i sedicenti sacerdoti vengono arrestati, e Lucio viene acquistato da un mugnaio, che lo pone nuovamente alla macina; qui la bestia ha modo di constatare, con profonda pietà , le misere condizioni degli animali suoi compagni. Il mugnaio, brava persona in fondo, ha per moglie una vera e propria megera (cristiana? N. d. R. ), che lo tradisce con un giovane delle cui prestazioni amorose ultimamente ò scontenta; la vecchia serva che le sta sempre accanto le magnifica le imprese amatorie di un certo Filesìtero, che ha sedotto impunemente la moglie del gelosissimo decurione Barbaro, e la moglie del mugnaio decide senz’altro di fare del focoso giovane il suo amante. Ma mentre i due sono soli in casa, il mugnaio ritorna inaspettatamente; Filesìtero si nasconde e il povero marito confida alla moglie tutto il suo sdegno per il triste caso di un lavandaio suo amico, la cui consorte ò stata appena colta in flagrante tradimento. L’asino decide allora di intervenire e, calpestando le dita all’amante nascosto, lo costringe a svelarsi. Ma il marito non si scompone ed escogita per l’adultero una punizione davvero originale: costringe infatti il giovane a passare la notte con lui. Poi caccia di casa i due adulteri. La vendetta della perfida moglie non si fa attendere: ella ricorre alle arti di una strega, e l’indomani il mugnaio viene trovato morto. Lucio viene venduto ad un ortolano poverissimo ma onesto e a modo suo generoso, che si affeziona all’asino; una sera, per ricompensa di un favore, il poveretto viene invitato a cena da un ricco signore. Ma la cena si muta in tragedia: al padrone di casa viene riferito che i suoi tre figli sono appena morti, per cui il poveretto si sgozza con lo stesso coltello con cui stava tagliando il formaggio. Sconvolto, l’ortolano s’incammina verso casa con l’asino, ma ad un tratto un legionario romano lo ferma e pretende di portargli via l’animale; l’ortolano reagisce: ne nasce una rissa. Infine il legionario ha la peggio, ma l’ortolano e Lucio devono nascondersi in casa di un amico per sfuggire alle ricerche del soldato. Ma sarà proprio l’asino, con la sua sciocca curiosità , a perdere sè e il suo padrone, sporgendosi dal nascondiglio per guardare. L’ortolano ò condannato a morte. Libro X: Lucio ò ora al servizio del legionario, che odia profondamente. Un giorno, in casa di un decurione, viene a conoscenza di un fatto terribile che vi si ò appena verificato: la seconda moglie del padrone di casa si ò follemente invaghita, novella Fedra, del figliastro; poichè questi non le si concede, decide di ucciderlo, ma il veleno a lui destinato viene assunto per errore dal figlio della donna, che muore; costei accusa il figliastro dell’assassinio e di tentato incesto con lei. Ma quando ormai il povero giovane sta per essere condannato a morte, un medico interviene e rivela la verità : egli stesso ha venduto il veleno, ma al servo della donna, non al ragazzo; e, poichè il servo nega, aggiunge che non si trattava di veleno, ma della mandrà gora, un potentissimo narcotico: se dunque il figlio minore non ò morto, non c’ò dubbio che sia stato “avvelenato” dall’acquirente della mandrà gora, e cioò dal servo. Infatti il giovinetto ò vivo e riprende di lì a poco i sensi: il servo viene condannato a morte e la donna all’esilio perpetuo, mentre il padre, fuori di sè per la gioia, ritrova in un colpo solo i due figli che credeva perduti. Lucio viene venduto dal soldato a due fratelli, l’uno cuoco e l’altro pasticciere, e finalmente può rimpinzarsi a dovere di pasticcini; ma un giorno i due scoprono le strane abitudini alimentari della bestia e le rivelano al padrone di casa: costui le trova così divertenti che si compra l’asino e lo fa ammaestrare, anche perchè il suo mestiere consiste appunto nell’allestire spettacoli circensi. Recatosi a Corinto con l’asino, guadagna un discreto gruzzolo grazie alle sue esibizioni; ma una matrona s’invaghisce follemente di Lucio e pretende di passare alcune notti con lui. Scoperte le prodezze amatorie dell’asino, si decide di farlo esibire nel circo come amante di una feroce assassina condannata a morte. Lucio decide di morire piuttosto che subire questo oltraggio: durante lo spettacolo di apertura dei ludi riesce a fuggire strappando la corda, e non si ferma prima di avere raggiunto la riva del mare, dove, sdraiato sulla sabbia, sprofonda esausto nel sonno. Libro XI: All’improvviso l’asino si sveglia e vede sorgere dal mare la luna. Profondamente commosso, le rivolge una preghiera, chiedendole di potersi liberare della bestia che ò in lui, oppure di morire. Poi si riaddormenta. In sogno gli appare Iside, che gli annuncia la fine dei suoi tormenti: il giorno seguente (il 5 marzo) ò la festa della dea; Lucio dovrà avvicinarsi al sacerdote e mangiare i petali delle rose della sacra ghirlanda: all’istante ritornerà uomo. La sua vita però cambierà del tutto: egli diventerà un adepto del culto della dea, che gli promette beatitudine eterna dopo la morte. L’asino si risveglia: ò una stupenda giornata primaverile e tutto ò permeato di una strana gioia. Passa la processione: finalmente Lucio vede il sacerdote, gli si avvicina e mangia le rose. All’istante ridiventa uomo. Il sacerdote gli spiega il senso delle sue traversìe e lo esorta ad abbracciare la nuova fede. Lucio, commosso, segue il corteo del navigium Isidis. Il giovane può finalmente rivedere i suoi, da cui era creduto morto; ma tutti i suoi desideri sono rivolti all’iniziazione, che finalmente, dopo una lunga attesa, avrà luogo. Una seconda iniziazione avverrà a Roma: Lucio diverrà anche adepto di Osiride. Infine vi sarà la terza e definitiva consacrazione di Lucio, che ora scopre le sue carte e si dice non più greco, ma originario di Madauro (la sovrapposizione con l’autore ò ormai completa); il dio Osiride in persona promette al giovane una brillante carriera come retore giudiziario e lo esorta a non preoccuparsi delle calunnie della gente. Lucio, prima di entrare a far parte di un collegio sacerdotale, con gesto altamente simbolico si rasa i bei riccioli biondi di cui andava tanto fiero. Amore e Psiche La novella di Amore e Psiche ò inserita in un lungo “romanzo” dal titolo Metamorfosi (chiamato in seguito da S. Agostino L’asino d’oro) composto da Apuleio nel II secolo d. C., nel quale vengono narrate le peripezie di Lucio che, per errore, viene trasformato in asino, pur conservando mente e sentimenti umani: solo dopo molte avventure, talvolta anche dolorose, Lucio potrà infine riprendere forma umana grazie all’intervento della dea Iside, di cui Lucio diventerà sacerdote. Si tratta dunque della rappresentazione simbolica del percorso dell’uomo dallo stato bestiale allo stato spirituale, un complesso cammino interiore dalla materia allo spirito. La novella di Amore e Psiche, che come vedremo rappresenta “in piccolo” questo medesimo itinerario, ò posta in bocca ad un personaggio del romanzo e rappresenta uno dei primi esempi nella letteratura occidentale di “fiaba di magia”, cioò un tipo di narrazione che conserva l’eco di antichi riti di iniziazione durante i quali, attraverso racconti “esemplari”, le popolazioni primitive trasmettevano alle nuove generazioni la loro concezione del mondo, il loro patrimonio mitico-religioso, le loro “regole” sociali. La novella presenta infatti lo schema narrativo tipico di tutte le fiabe di magia (messo in luce per la prima volta da V. Propp in Morfologia della fiaba di magia), che ò assai semplice, ripetitivo e strutturato su una serie di sequenze obbligate: ⢠l’eroe/l’eroina ò costretto ad allontanarsi dall’ambiente familiare per inoltrarsi in un ambiente nuovo e sconosciuto (un bosco, una foresta, un castello… ); ⢠deve quindi affrontare situazioni pericolose (“prove”), che riesce a superare solo grazie all’intervento di “donatori”, cioò grazie all’aiuto offerto da persone, o anche da animali, piante parlanti o da oggetti magici; ⢠infine, dopo aver superato le prove, si ritrova in una nuova condizione (ad esempio corona il suo sogno d’amore con il matrimonio) e vive una nuova esistenza, per definizione felice (il lieto fine ò infatti d’obbligo). ⢠I protagonisti e la trama La novella si snoda attraverso le sequenze tipiche della “fiabe di magia”: racconta infatti le peripezie di una giovane e bellissima ragazza dall’emblematico nome di Psiche, che significa “anima”, di cui si innamora perdutamente il dio Cupido, cioò Amore, figlio di Venere, il quale trasporta Psiche in uno splendido palazzo e la fa sua sposa, imponendole tuttavia di non cercare mai di conoscere la sua identità . Ma la felicità dei due giovani ò minacciata sia dall’invidia delle due sorelle di Psiche, sia dalla decisa ostilità di Venere, che non vuole per suo figlio una sposa mortale e soprattutto una ragazza tanto bella da essere addirittura paragonata a lei. Seguendo i perfidi consigli della sorelle, Psiche disobbedisce ad Amore, che di conseguenza l’abbandona; disperata va alla ricerca dello sposo, ma finisce tra le mani di Venere che la costringe a sottoporsi a prove “impossibili”, dalle quali esce tuttavia vittoriosa grazie ad una serie di aiuti straordinari. Segue l’immancabile lieto fine: Giove in persona celebrerà le nozze tra Amore e Psiche e conferirà alla fanciulla l’immortalità ed il rango di dea. Attorno ai due protagonisti si muovono poi altri personaggi appartenenti al mondo degli uomini (ad esempio le sorelle “cattive” di Psiche), degli dòi (ad esempio Venere, Giove, Pan) e della natura magicamente animata (ad esempio animali, fiumi ad alberi parlanti), in un continuo intreccio fra realismo e magia. Che il senso della novella vada oltre il semplice piacere del racconto fantastico, ma rimandi ad un significato allegorico, e necessiti quindi di un’interpretazione, appare evidente sin dalle prime battute e dal nome stesso dei protagonisti: Amore e Psiche. La novella rappresenta quindi una qualche conquista simbolica attraverso una complessa serie di esperienze difficili e dolorose: ma il senso esatto di questa esperienza sfugge: le interpretazioni che ne sono state date sono molteplici, alcune anche banalizzanti, nella loro velleità pseudo-scientifica di ridurre quello che ò certamente un complesso simbolismo esoterico, “per iniziati”, ad un residuo di cultura semi-tribale che davvero fa sorridere se attribuita ad un personaggio come Apuleio. Insoddisfacenti risultano quindi, a nostro parere, i tentativi dell’antropologia culturale di interpretare questa novella come la descrizione simbolica del rito di iniziazione che in tutte le società primitive segna il passaggio dei ragazzi alla società adulta. Qui di seguito, perciò, tenteremo di fornire una nostra chiave di lettura, alla luce della filosofia platonica della quale Apuleio era seguace ed autorevole esponente. L’allegoria della caduta dell’anima nelle “Metamorfosi” Tutto il romanzo di Apuleio costituisce una singolare allegoria, imperniata sulla vicenda dell’Anima che, caduta per un fatale errore, attraverso una serie di durissime prove riconquista alla fine – ma solo per l’intervento della Grazia divina – la piena felicità , e con essa l’immortalità . Sebbene l’esatto significato di questa esperienza filosofico-religiosa sia tuttora oggetto di discussione, occorre sottolineare come Apuleio sia e rimanga un filosofo platonico, e non rinneghi mai questa sua appartenenza culturale, per quanto sincretisticamente fusa con esperienze di segno diverso: in un primo momento l’ermetismo e la magia – o l’alchimia -, quasi certamente praticata dal “bel filosofo” africano (che nell’Apologia sive de magia lo nega, ma in modo sempre ambiguo e mai davvero convincente); successivamente la conversione al culto misterico di Iside. L’allegoria assume connotati a nostro parere esplicitamente platonici proprio nella favola di Amore e Psiche, dove i nomi stessi dei protagonisti ( ErwV = Amore; Yuch = Anima) non possono non evocare alla mente la teoria dell’eros platonico, così come la troviamo espressa nella triade Fedone – Simposio – Fedro. D’altra parte la vicenda di Psiche rispecchia quella di Lucio, per cui si direbbe che la funzione della novella di Amore e Psiche – non a caso situata in posizione centrale nel romanzo – sia appunto quella di esplicitare in modo quasi didascalico, nella microstruttura della favola, il senso della macrostruttura che la include. Ciò su cui ci pare opportuno riflettere ò il tipo di peccato per cui cade l’Anima. Si tratta, come ò noto, di un peccato di curiositas: tanto Lucio quanto Psiche vogliono vedere, sapere. Ma che cosa sia e che cosa rappresenti esattamente la curiositas nell’universo filosofico di Apuleio non ò chiaro. Alcuni critici ritengono, a nostro parere a torto, che la curiositas venga valutata in modo positivo da Apuleio, quasi fosse per lui il tratto distintivo dell’intelligenza; salvo poi, dopo avergli attribuito questa opinione, tacciarlo spesso di superficialità e frivolezza. Ci sembra che il significato dell’esperienza adombrata nelle Metamorfosi debba essere valutato con maggiore attenzione, ad esempio alla luce della definizione che Heidegger dà della curiosità : “ciò che preme a questo tipo di visione non ò la comprensione o il rapporto genuino con la verità , ma unicamente le possibilità derivanti dall’abbandono al mondo. [… ] La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente pieno di meraviglia, con il qaumazein; non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende, perchè essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo” (Sein und Zeit, Halle 1927). Avanziamo a questo punto qualche ipotesi. Apuleio, come già Euripide in un’opera altrettanto discussa ed enigmatica, le Baccanti, sembrerebbe contrapporre, nel suo romanzo, due modalità del conoscere: 1) la curiositas (che in Euripide ò designata con il termine sophòn), che si illude di poter arrivare alla decifrazione dell’Essere attraverso l’osservazione delle forme dell’Apparenza (l'”abbandono al mondo”), dei fenomeni (etimologicamente “ciò che appare”) e dei segni in essa impressi: ò questa l’illusione della scienza, della gnosi, la stessa di Apuleio mago-alchimista-scienziato, la stessa, a ben guardare, del primo Socrate ancora physikòs, studioso dei fenomeni della natura; essa si rivela, a quanto pare, suprema stoltezza, perchè la multiforme varietà delle cose nè può essere realmente conosciuta, nè può condurre alla conoscenza di ciò che veramente ò al di là delle apparenze e dà loro significato; 2) la rivelazione (che in Euripide ò designata con il termine sophìa), che avviene – si direbbe – attraverso una stretta collaborazione tra uomo e Dio: l’uomo, una volta caduto, deve passare attraverso l’inferno dell’abiezione morale e della disperazione (si pensi anche all’esperienza dantesca ed a quella autobiografica raccontata da S. Agostino nelle Confessioni), per arrivare a conoscere fino in fondo la nullità delle risorse intellettuali umane: solo a questo punto potrà intervenire la Grazia divina (Eros nella favola, Iside nella storia principale) a portare la salvezza, e con essa le fede. Troveremo più tardi in atto questa contrapposizione, in campo religioso, nella secolare e sanguinosa lotta della Chiesa cattolica contro le multiformi eresie di derivazione gnostica, che rifiutano categoricamente ogni dogma, non attribuiscono alcun valore alla fede ed alla mediazione delle istituzioni ecclesistiche e ritengono che la salvezza sia una conquista strettamente individuale, che si attua attraverso la conoscenza (in greco gnòsis, appunto). A proposito delle Baccanti di Euripide ci si ò spesso domandati se la contrapposizione tra le due modalità del conoscere adombri una “conversione” dell’autore dal razionalismo alla fede (cosa che a noi non sembra affatto verosimile); nel caso di Apuleio il senso della contrapposizione appare ancor più problematico, data la natura composita dell’esperienza filosofico-religiosa dell’autore: e questo deve certo indurre alla cautela nel formulare giudizi. Ma, quale che sia il senso esatto da attribuire alla parabola esistenziale adombrata dal romanzo apuleiano, ò da notare un particolare: nella prospettiva della novella di Amore e Psiche, l’Anima ò già amata da Dio fin dall’inizio (cioò ò già salva), ma non lo sa. Questo elemento riconduce inevitabilmente alla teoria platonica della reminiscenza (si veda soprattutto la teoria dell’anà mnesi esposta nel Menone): in termini platonici, l’anima ò già immortale, ma non lo sa, o per meglio dire non se ne ricorda: l’estrema ignoranza e confusione in cui ò precipitata, piombando nella materia, la porta a voler sapere ciò che in realtà non conta nulla, a vedere, sperimentare (la trasformazione magica nel caso di Lucio, le sembianze dello sposo divino nel caso di Psiche), immergendosi nelle illusioni della materia ed allontanandosi così sempre più dalla sua originaria condizione immortale. Per poter essere di nuovo salva e garantirsi l’immortalità dovrà arrivare alla conoscenza per una via completamente diversa, che la costringerà a ricordare ciò che era in origine.
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