Vita e opere La famiglia dei Della Casa ha le sue origini nel Mugello, la vallata del Sieve nella parte alta alle falde degli Appennini, che in quella zona venivano chiamati “Alpi degli Ubaldini” al confine tra la Romagna e la Toscana, a una trentina di chilometri o poco più da Firenze sulla vecchia via per Faenza. Il Mugello, ricco di borghi e di castelli, nel Medioevo era in gran parte Signoria della famiglia degli Ubaldini; ma era anche la terra di molte altre notabili famiglie fiorentine. Il nome deriva da una località detta la Casa, e un ramo del casato sarà chiamato “da Pulicciano”, dal nome del castello omonimo del Mugello. E veniamo allo stemma: “Alzarono per arme i Signori della Casa un Ulivo verde sopra un monte dello stesso colore in campo dâargento; come si vede in molti luoghi, e fra gli altri, nellâantiche sepolture fabbricate da loro in varie Chiese di questa Città (Firenze, ndr); cioò in Santa Croce nel 1327., e in S. Maria Novella intorno al medesimo tempo; e nella più moderna di S. Croce del 1428. e nelle due di San Lorenzo restaurate dal Padre del nostro Giovanni: sicchò pare che non mutassero mai lâInsegna loro gentilizia, non ostante che quella famiglia non sia stata esente da quelle vicende, che obbligarono molte altre nobili casate a cambiare, non che lâarme, eziandio il cognome”. (Notizie intorno alla vita ed alle opere di M. Giovanni Della Casa, Scritte dal Sig. Abate Gio. Battista Casotti Accademico Fiorentino, e poste in fronte alla Edizione fatta in Firenze da Giuseppe Manni lâanno 1707. ) Proprio in Mugello (molto probabilmente: câò anche una teoria che lo vorrebbe nato a Firenze o addirittura in Bologna) nacque Giovanni Della Casa da Pandolfo, figlio di Giovanni Della Casa e di Marietta Rucellai, e da Lisabetta figlia di Gianfrancesco di Filippo de’ Tornabuoni e di Lisabetta Alamanni cugina del poeta Luigi Alamanni, poeta di grande fama nella prima metà del Cinquecento. Giovanni fu il primogenito di sei figli: gli seguirono prima Francesco (nato nel 1505 forse a Roma dove morì nel 1541 dopo aver sposato due anni prima Cosa deâ Girolami, sorella di un Raffaello Girolamo duce e Principe della Repubblica Fiorentina) e poi quattro femmine (tre secondo il citato Casotti): Agnoletta, Marietta, Lisabetta e Dianora; tutte andarono spose a nobiluomini fiorentini di chiara fama e un figlio di Dianora (andata sposa a Luigi Rucellai), Annibale, Ecclesiastico e vescovo di Carcassonne, fu nominato erede universale. Costretto a fuggire dal Mugello, il padre portò Giovanni a Bologna, dove lo lasciò per trasferirsi a Roma, come attestato da uno Strumento del 29 gennaio 1504. Qui lo raggiunse il figlio e qui morì il 19 giugno 1510 Lisabetta che fu sepolta nella Chiesa di San Gregorio. I primi studi, stando a quel che scrive lo stesso Casa in Ad Germanos ( ⦠quella Città mi fu nutrice e mi erudì fin da bambino), li compì a Bologna, e da Roma vi ritornò per studiarvi prima di trasferirsi a Firenze. Qui, dove suo padre aveva fatto ritorno certamente prima del 1524, frequentò le lezioni di Ubaldino Bandinelli, Suddecano fiorentino e poi Vescovo di Montefiascone, ricordato con affetto nel Galateo, e definito, in una lettera del 1532 a Ludovico Beccadelli, “persona di molto discorso e di ottimo giudicio, e pratico”, e infine pianto in una triste Elegia che troviamo fra le sue opere latine in cui lo definisce lâOnor dellâItalia. A Bologna fu mandato per seguire i corsi di diritto, ma l’amicizia ivi contratta con alcuni vivaci ingegni Ludovico Beccadelli, Carlo Gualteruzzi, Giovan Agostino Fanti e forse Francesco Maria Molza, con il quale avrebbe istituito in seguito più stretti legami a Roma) e ancor più la nativa disposizione per gli studi letterari, lo indussero a frequentare le lezioni di Pietro Pomponazzi e, con vero e proprio entusiasmo, quelle di Romolo Amaseo, docente di retorica e poesia nell’Università bolognese. Nel 1526, rompendo con il diritto e con i progetti e gli schemi mentali del padre, fuggì da Bologna e si ritirò con l’amico Beccadelli in Mugello, per dedicarsi, lontano da ogni distrazione, all’approfondita lettura delle opere di Virgilio e di Cicerone. Nel 1527 si recò a Padova (dove rimase fino al 1529) per apprendervi il greco, che studiò sotto la guida di Benedetto Lampridio, maestro, in tale disciplina, anche del Berni. Avvalendosi della mediazione del Lampridio e di Trifone Gabriele entrò allora in rapporto con il Bembo. Nel 1528 pubblicò a Venezia le Terze rime (ristampate poi presso Curtio Navo nel 1538), l’opera che avrebbe contribuito non poco a vanificare, per il contenuto osceno, la sua futura aspirazione al cappello cardinalizio (quando, in un’età assai mutata per i rigori della riforma cattolica, certi trascorsi non sarebbero apparsi proprio irrilevanti). Fu a Roma nel 1529 e a Firenze (dove ottenne il titolo di “Chierico fiorentino” e il canonicato nella chiesa di San Niccolò) nel 1530-’31. Tra la fine del 1531 e la primavera del ’32 soggiornò a Padova, frequentandovi le lezioni di greco e di latino del famoso maestro Lazzaro Buonamici. Non trovandosi peraltro a proprio agio in quell’ambiente fortemente influenzato dalla spiritualità di uomini quali il Priuli, il Pole e il Contarini, ritornò a Roma, dove, ad eccezione di brevi parentesi – come quella toscana, dovuta alla malattia e alla morte del padre (1533), restò fino al 1540. Seguono gli anni più spensierati e gaudenti della sua vita (1532-’34), nel corso dei quali, con gli amici Molza, Firenzuola e Berni, frequentò l’Accademia de’ Vignaiuoli. Furono anche gli anni in cui scrisse non pochi altri componimenti licenziosi, conquistandosi una certa fama e anche il favore di illustri personaggi, quali il Cardinale Alessandro Farnese, che verrà eletto Papa col nome di Paolo III nel 1534 e che molta parte avrà nella sua vita, avvalendosi anche dellâamicizia e della presenza del Molza. Proprio in questi anni, comunque la sua vita prese un indirizzo preciso, con la realizzazione di un suo progetto di carriera ecclesiastica. Progetto assecondato, oltre che dall’assunzione degli ordini minori, dalle attestazioni di pentimento per la vita libertina, ricorrenti in alcune sue lettere scritte tra il 1534 e il 1536, nel periodo in cui si diede seriamente agli studi ecclesiastici affiancandoli a quelli umanistici. E certi risultati non si fecero attendere. Ottenuto l’ufficio di chierico della Camera Apostolica il 12 marzo 1537, si accostò, al cardinale Alessandro Farnese. Si colloca in questo contesto la composizione del trattatello misogino in latino ciceroniano Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, notevole non solo per dottrina e per stile, ma per la riproposizione del tema del pentimento già riscontrato nelle lettere. Gli venne affidato allora nel 1540 da Paolo III, l’ufficio a Firenze di Commissario Apostolico per le decime, che lo impegnò in varie missioni (svolte con scrupolo e talora anche con durezza) in tutto il territorio fiorentino. E a Firenze lâ11 febbraio 1540, oltre ad assolvere ai suoi compiti di esattore, fu ammesso, insieme ad altri illustri personaggi, all’Accademia Fiorentina che proprio in quel giorno lesse e approvò i Capitoli della sua costituzione, decidendo di chiamarsi non più Accademia Fiorentina degli Umidi, ma semplicemente Accademia Fiorentina, sotto gli auspici del Gran Duca Cosimo deâ Medici. In questo periodo s’interessa anche dell’educazione dei nipoti (i figli della sorella Dianora), in particolare di Annibale, cui ò forse indirizzato il Galateo. Allâinizio del 1542 lo ritroviamo a Roma, con lâintento di proseguire la sua carriera ecclesiastica e il 27 marzo viene nominato Chierico della Camera Apostolica. Nello stesso periodo gli viene conferito anche l’incarico di curatore della riscossione del sussidio feudale e dei censi di Roma, e, subito dopo, quello di tesoriere pontificio. Il 2 aprile 1544, per i buoni uffici dei cardinali Bembo, Cervini, Del Monte e Farnese, gli viene assegnata la sede arcivescovile di Benevento, dalla quale resterà tuttavia lontano anche dopo la sanzione dell’obbligo della residenza per i vescovi da parte del Concilio di Trento. Le sue ambizioni erano altre. E l’occasione per metterle alla prova gli venne offerta appena quattro mesi dopo, con la nomina di Nunzio Apostolico a Venezia (agosto 1544; in una lettera del 3 agosto già ne parla il Cardinal Bembo in una lettera a Girolamo Quirino): nellâincarico succedeva al patrizio bolognese Mosignor Luigi Beccatelli nominato Vicario di Roma. L’incarico, particolarmente delicato per i non facili rapporti in materia giurisdizionale fra Curia romana e Venezia, gli consentì di mettere in luce le sue qualità diplomatiche e la sua assoluta dedizione al Pontefice. Difese infatti con energia il diritto del clero ad essere giudicato dai tribunali ecclesiastici, vigilò sul buon andamento del Concilio di Trento, iniziato nel 1545, contrastò con grande determinazione il diffondersi delle idee protestanti. Introdusse a tale scopo a Venezia, nel 1547, il tribunale della Santa Inquisizione e fu incaricato di istruire insieme al Patriarca di Venezia il processo contro Pier Paolo Vergerio il Giovane, vescovo di Capodistria accusato di eresia, che tuttavia non accettò di sottoporsi a un giudice non ancora in possesso degli ordini sacri e gli rinfacciò i trascorsi giovanili attestati dalle terzine burlesche: il Vergerio, sdegnato e intimorito, abbandonò lâItalia ritirandosi in Germania. Sempre nel 1547 fu adoperato dal Papa a sollecitare i Veneziani a stringere unâalleanza col Papa e coi Francesi dopo il caso di Piacenza. In propria difesa e a ribadire le accuse eli eresia egli pubblicò allora la Dissertatio versus Paulum Vergerium e il carme latino Ad Germanos. Nel 1546 aveva composto invece il trattatello De officiis inter potentiores et tenuiores amicos forse volgarizzato con il titolo Trattato degli uffici communi tra gli amici superiori e inferiori, dettato da quella stessa disposizione, moralistica e didascalica, ch’ò all’origine del Galateo. All’esperienza politico-diplomatica della sua nunziatura a Venezia e più in particolare al proposito di indurre la Serenissima a schierarsi con la coalizione di principi organizzata contro Carlo V e la Spagna da Paolo III, ò legata l’Orazione per la lega (pubblicata soltanto nel 1667), in cui un fervido antispagnolismo, sorretto, a ben vedere, da un non meno fervido amor di patria, trova modo di esprimersi in una forma solenne, di stampo ciceroniano e boccacciano. Nel maggio del 1548, fatto ritomo a Roma, pubblicò il primo Indice dei libri proibiti, ottemperando alle deliberazioni del Concilio tridentino. Non fu però compreso – si può immaginare con quanto disappunto dopo tanto adoperarsi – tra i cardinali nominati nel corso dello stesso anno da Paolo III, che morirà il 10 novembre 1549 e verrà sepolto in San Pietro in un mausoleo opera di Guglielmo Della Porta. Successore di Paolo III fu Giovan Maria de’ Ciocchi del Monte che venne eletto lâ8 febbraio 1550 e assunse il nome di Giulio III; nel 1550 scrive lâOrazione a Carlo V imperadore per la restituzione della città di Piacenza, in appoggio delle mire di Ottavio Farnese che con Paolo III prima e Giulio III poi, pur con qualche contrasto, aveva formato un ducato di Parma che avrà vita per circa due secoli. Il nuovo Pontefice ò ostile al Cardinal Farnese, tradizionale protettore del Della Casa, che fu perfino costretto ad allontanarsi da Roma per evitare guai maggiori. Anche il Casa, dopo aver venduto il suo Chiericato di Camera per diciannovemila scudi dâoro, dopo aver fatto il suo testamento, andò via da Roma. Il testamento, rogato il 30 Maggio 1551, lascia vari legati alle sorelle e ai nipoti e istituisce, come abbiamo detto, il nipote Annibale Rucellai, figlio della sorella Dianora, erede universale in sostituzione dellâaltro nipote, Orazio fratello dello stesso Annibale, che, sposato con Camilla Guicciardini, sarà avo di quel Rucellai che rimarrà celebre per gli Orti Oricellari di cui parlerà Francesco Redi nel suo Ditirambo di Bacco ed Arianna. Giulio III, dopo avergli revocato la nunziatura veneta, lo deluse poi nelle sue aspettative offrendogli la nunziatura in Francia. Il Della Casa si ritirò, allontanandosi da Roma, Di là dove per ostro e pompa dâoro Fra genti inermi ha perigliosa guerra, Fuggo io mendico e solo, e di quella esca Châiâ bramai tanto, sazio, a queste querce Ricorro, vago omai di miglior cibo, Per aver posa almen questi ultimi anni. Così spiega il suo allontanamento da Roma e dalla vita pubblica ed ecclesiastica il Casa, ritirandosi a vita privata, soggiornando dapprima a Venezia (l551-1553) e quindi in una solitudine non priva del conforto degli studi, nell’Abbazia di Nervesa sul Montello, presso Treviso (1552). Qui compose il Galateo e molte e delle sue rime più belle (1553-1556), notevoli, oltre che per certi esiti tematici connessi al ripensamento della sua biografia, per la peculiarità di una tecnica – quella dell’enjambement – rappresentativa di una svolta, stilistica e di gusto nella storia del nostro petrarchismo cinquecentesco. à in questo periodo che scrive anche una Vita Petri Bembi, morto il 18 gennaio 1547, che era stato un amico oltre che un modello per la sua attività letteraria e per la carriera ecclesiastica, pur senza raggiungere, come Bembo, mai il cardinalato, unâoperetta costruita secondo il consueto schema dellâelogio classico e umanistico; e una Vita Gasparis Contareni, la biografia dellâamico Contarini, nella quale pone una particolare attenzione alle qualità diplomatiche del nobile veneziano. Ma la fama del Casa non diminuì lontano da Roma, anzi si estese ancora di più, tanto che il nuovo pontefice Paolo IV Carafa, eletto dopo il brevissimo pontificato di Marcello II, lo invitò, sempre per consiglio del Cardinale Alessandro Farnese, di nuovo a Roma nell’aprile del 1555 con lâincarico di Segretario di Stato della Santa Sede. Lâinvito, a quanto pare fu piuttosto un ordine, perchè il Casa ne avrebbe fatto volentieri a meno, non solo perchè le condizioni della corte papale diventavano sempre più burrascose, ma soprattutto perchè la sua salute (soffriva di gotta) negli ultimi anni si era andata sempre più aggravando. Il Casa diviene così il consigliere privato del Papa insieme a Silvestro Aldobrandini e tale era la sua importanza che tutti avrebbero giurato sulla sua nomina a cardinale. Ma la delusione, già provata nel 1548 per non essere stato incluso nella lista dei nuovi cardinali nominati, divenne cocente la mattina del 20 dicembre, quando seppe che non era nel numero dei sette nuovi Cardinali. La meraviglia fu generale, ma della mancata promozione non si appurarono veramente le cause; in alcuni dispacci fra i regnanti del tempo si adombrò lâipotesi, come afferma il citato Casotti, che il Papa non volle nominare cardinale nessuno di coloro che gli erano stati proposti, e la nomina del Casa era stata caldeggiata, oltre che dai Farnese, addirittura dal re di Francia. La tesi del Casotti ò supportata da una lettera scritta dai cardinali di Loreno e di Tornone al re di Francia il 21 Dicembre 1555 e pubblicata fra le Lettere e Memorie di Stato, raccolte da Messer Guglielmo Ribier, e stampate a Blois lâanno 1666 in fol. a c. 620. Nella stesso lettera, afferma ancora il Casotti, ò contenuta la promessa fatta dal Papa al Re di promuovere Monsignor della Casa alla prima creazione di Cardinali, dopo di aver già udite ed esaminate tute le accuse dedotte contra di lui: Et pour cela, Sire, il sâest resolu, comme il nous a priè de vous escrire, sâestant fait cette promotion, de faire (Cardinaux) a la premiere Messieurs de S. Papoul (questi era Bernardo Salviati, che fu poi il secondo dei tre cardinali di questa famiglia) et de la Case⦠Ma alla nuova nomina di Cardinali, che avverrà il 15 Marzo 1557, il Della Casa non sarà presente. La mancata nomina aggravò le sue già precarie condizioni di salute; queste lo costrinsero ad accettare lâinvito del Cardinale Giovanni di Pierantonio deâ Ricci, detto il Cardinale di Montepulciano, che lo ospitò in uno dei suoi palazzi romani. E a Roma, ma secondo altri a Montepulciano, morì alle ore 21 del 14 novembre 1556. Sulla sua tomba, nella nobile cappella dei Rucellai nella chiesa di S. Andrea della Valle in Roma, fu posto questo Epitaffio: D. O. M. JOANNI CASAE ARCHIEPISCOPO. BENEVEN. CUJUS. SINGULAREM IN OMNI. VIRTUTUM. AC DISCIPLINARUM. GENERE EXCELLENTIAM IMMORTALIBUS. ILLUSTREM MONUMENTIS AEMULA. NECQUICQUAM POSTERITAS. ADMIRATUR. HORATIUS. ORICELLARIUS AVUNCULO. OPTIME MERITO POSUIT. Quasi due anni dopo, nel 1558, a cura di Erasmo Gemini De Cesis, ultimo segretario del Della Casa, vide la luce a Venezia coi tipi di N. Bevilacqua, la prima edizione delle opere del nostro autore, col titolo Rime e prose di Monsignor Giovanni Della Casa, comprendente le Rime, lâOrazione a Carlo V e il Galateo; questa edizione verrà poi accresciuta e corretta nella pubblicazione del Giunti del 1564 e migliorate ancora nella pubblicazione del 1598. Lâedizione del â58 era stata per un poâ tenuta in sospeso proprio per lâavvenuta morte del Casa. Il pensiero Il trattato del Cinquecento (1550 – 1555) Galateo overo deâ costumi di Monsignor Giovanni della Casa, sulla “buona creanza” e sul corretto comportamento, ha influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli ultimi secoli. Il termine “galateo” deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che ha suggerito a Monsignor Giovanni della Casa la stesura del trattato. Il libro, che ebbe un largo successo sia in Italia che allâestero, attraverso la voce narrante di un vecchio “idiota” (come ò scritto nel titolo completo dellâopera: Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona dâun vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi), vale a dire un illetterato che vuole consigliare un giovane, espone tutti quei comportamenti da evitare quando ci si trova in compagnia o in pubblico, suggerendo allo stesso tempo la giusta tenuta di condotta. Seguendo il precetto del rispetto della personalità altrui, il vecchio illetterato mette in guardia il suo allievo da comportamenti che possano sembrare sprezzanti (come la trasandatezza nel vestire) verso gli altri; lo invita nella conversazione a non affrontare argomenti sia troppo frivoli sia troppo complessi perchè potrebbero tediare lâ uditorio; suggerisce di evitare le moine e i consigli non richiesti; insegna come comportarsi a tavola, come vestirsi, insomma non tralascia nessun aspetto del vivere sociale. Vengono esposte norme sul modo di vestirsi, enumerati tutti i gesti e le cose spiacevoli da evitarsi; ò riprovato lo scherno, la beffa, la parola che morde e offende; si suggeriscono i modi del parlare, si consigliano i vocaboli da usare e quelli da evitare. Insomma, biasimando ogni eccesso, l’autore incarna il culto della proporzione proprio del Rinascimento. Ad esempio, così egli si esprime circa le buone usanze a tavola (III): “Perciochè non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella imaginazione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume ò quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; nè, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; nè pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, conciosiachè la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imaginazion di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non ò dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: – Deh, sentite di grazia come questo pute! -; anzi doverebbon dire: – Non lo fiutate, perciochè pute -. E come questi e simili modi noiano quei sensi a’ quali appartengono, così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e deesene l’uomo astenere più che può. E non sol questo; ma deesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme; dalla qual cosa pochi sono che si riguardino, anzi, pare che chi meno ò a ciò atto naturalmente più spesso il faccia. Sono ancora di quelli che, tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui; e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circonstanti; e truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia come asino; e tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo ragionamento e manda fuori quella voce (o più tosto quel romore) che fa il mutolo quando egli si sforza di favellare: le quali sconce maniere si voglion fuggire come noiose all’udire et al vedere. Anzi dee l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose, ancora perciochè pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio, e che colui che così spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli ò, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano”. Il Galateo di Della Casa si inquadra perfettamente nellâepoca rinascimentale, di cui ò figlio, ossia in quellâepoca in cui centrale ò lâinvito tutto moderno a rivolgersi dal cielo alla terra (abbandonando le poco note regioni della metafisica e della religione), un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: alle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed ò appunto in questo che consiste il vivere in società quale Della Casa (e con lui molti altri autori di questâetà ) lo intende. Le ambiziose pretese onnicomprensive della metafisica e della religione cedono il passo al più modesto tentativo di imparare a comportarsi bene, in modo tale da risultare graditi alla società di cui si fa parte. La ragione, da onnicomprensiva che era nellâetà dâoro della metafisica, assume ora, nellâetà moderna, nuove colorazioni: essa diventa ragione calcolatrice e dubitante, rinunciataria delle grandi verità e conquistatrice dei quelle piccole, quali appunto possono essere il sapersi comportare in conformità con le buone maniere. Per Machiavelli il fine a cui ò orientata ogni nostra azione ò la preservazione di se stessi: in Castiglione la preservazione diventa “cortegiania” e in Della Casa trapassa in “galateo”. Il libro di Della Casa non ò il solo a trattare la tematica del galateo e delle buone maniere: lâaltro grande autore che se ne occupa ò Baldesar Castiglione, col suo celebre Il cortegiano, opera in cui egli insegna come comportarsi a corte, come piacere al principe servendosi abilmente del motteggio e, insomma, come far proprie le buone maniere. A tal proposito, Castiglione aveva escogitato lo stratagemma della sprezzatura, ossia dellâ arte di nascondere lâarte (“usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”): dal canto suo, Della Casa opta per la codificazione di un galateo, ossia di un insieme di norme e principi da seguire per risultar graditi alla società ; già Cicerone, nel De officis, aveva abbozzato una serie di regole da seguire per possedere il decorum: e lâetà rinascimentale eredita quella tradizione ricca di humanitas che trovava nellâArpinate il proprio vertice indiscusso. La funzione civilizzatrice della corte, lumeggiata a più riprese da Castiglione, ò ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo deâ costumi, in cui scrive (XVI): “E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini”. Anche per Giovanni della casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più vivibili, proprio come lâacqua ammorbidisce certe erbe in essa immerse. Bisogna ammansire la belva che ciascuno di noi potenzialmente, ossia si devono porre le passioni sotto la guida della ragione calcolatrice: e a ciò provvede il galateo, che smussa le nostre punte più estreme, ammorbidendoci, levigandoci e rendendoci civili. Eppure Della Casa si muove in un ambito ben più modesto rispetto a quello di Castiglione: la sua affermazione della superiorità della ragione non ha nè lo slancio nè il vigore nè lâ ampiezza ideologica che troviamo nei grandi autori del Rinascimento; e lo stesso studio che egli conduce intorno alle buone creanze si risolve in una minuta, scoppiettante e piacevole casistica che tuttavia non approda allâedificazione ideale e organica, nè rievoca un mondo di bellezza superiore. Ciò non toglie, in ogni caso, che non vi sia opera di Della Casa in cui non si avverta tale nostalgia per un mondo eccelso andato perduto (e questo ò un topoV dellâetà moderna): nellâAriosto dellâ Orlando furioso, in Pulci e in Poliziano tale nostalgia si appuntava sullâantico mondo cavalleresco, in cui a trionfare erano i valori più autentici; in Della Casa, invece, pare vivissima la nostalgia per un mondo perfetto e ideale, fatto di equilibrio e di armonia, di bellezza e di luce, di contro allo squallido mondo reale, con le sue meschinità e la sua vita quotidiana “aspra e noiosa”, da cui ò impossibile evadere se non in via fittizia (e da ciò deriva la delusione e la mestizia che accompagnano costantemente gli scritti di Della Casa, comprese le “rime”).
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