Vita e filosofia di Duns Scoto - Studentville

Vita e filosofia di Duns Scoto

Pensiero, vita e opere del filosofo Duns Scoto.

Riassunto generale Giovanni Duns, detto Scoto perchò nato in Scozia, nacque probabilmente verso il 1265 o il 1266 e fu saprannominato dai suoi contemporanei doctor subtilis, per la sua abilità  nel formulare tutte le distinzioni e alternative possibili. Entrato giovane nell’ordine francescano, studiò a Oxford e poi a Parigi, dove, secondo la consuetudine, commentò le Sentenze di Pietro Lombardo. Nel 1303 fu costretto a lasciare Parigi, essendosi schierato tra i sostenitori del papa Bonifacio XIII nel conflitto contro il re di Francia Filippo il Bello, ma già  nel 1304 potò rientrare a Parigi ed essere nominato maestro. Nel 1305 tornò ad insegnare a Oxford, dove compose la sua opera più nota, intitolata Opus oxoniense, dedicata al commento alle Sentenze di Pietro Lombardo. Nel 1307 fu chiamato a insegnare teologia nello studio francescano di Colonia, da poco istituito, ma l’anno successivo perì. Altri scritti di Duns Scoto sono il Tractatus de primo principio, le Quaestiones super libros Aristotelis de anima, e i Reportata parisiensia, conservati in due redazioni, anch’essi dedicati al commento delle Sentenze. Un modo di rendere accettabile la filosofia aristotelica in Occidente era consistito nel renderla funzionale al discorso teologico e compatibile, almeno in una certa misura, con i dati della rivelazione: tale era stata la via intrapresa da Tommaso d’Aquino. Con Duns Scoto questa breve “luna di miele” (Gilson) tra fede e filosofia si interrompe. Il termine teologia designa in Duns il sapere necessario all’uomo per raggiungere il suo fine soprannaturale: per agire in vista di un fine occorre desiderarlo, ma per desiderarlo occorre conoscerlo. Con i suoi soli mezzi naturali l’uomo non può, secondo Duns Scoto, pervenire ad una conoscenza adeguata del suo fine. Tale fine, infatti, è stato voluto liberamente da Dio e da lui assegnato all’uomo e non può pertanto essere dedotto e conosciuto partendo dalle sole caratteristiche della natura umana. La scienza è per Duns Scoto scienza dimostrativa: essa deduce da premesse le conseguenze che ne derivano necessariamente, come aveva mostrato Aristotele. Ma di ciò che è deciso e voluto liberamente da Dio e, quindi, non presenta alcuna traccia di necessità , l’uomo non può avere scienza in questo senso. Duns Scoto non nega che i filosofi possano avere avuto qualche conoscenza del vero fine dell’uomo, ma nega che questa conoscenza sia stata sufficiente per garantire la salvezza. La filosofia, infatti, non può scoprire da sola ciò che all’uomo è noto solo grazie alla rivelazione contenuta nel Vangelo: in questo senso, il Dio del Vangelo non è l’oggetto della filosofia e il Dio dei filosofi non si identifica con il Dio dei cristiani. La rivelazione è la comunicazione proveniente da una fonte diversa dalle fonti naturali di conoscenza, di cui l’uomo dispone dopo il peccato originale: essa è concessa liberamente e direttamente da Dio e ci rende noto che il fine ultimo per l’uomo consiste nella visione diretta di Dio e nel godere eternamente della sua beatitudine. Questa rivelazione del fine e dei mezzi per raggiungerlo è contenuta nella Scrittura, che è quindi l’oggetto proprio della teologia. Il suo dominio è quello delle verità  accettate per fede. In quanto tale la teologia è un sapere pratico, la cui finalità  consiste nel conoscere le verità  che Dio ha ritenuto utili per il conseguimento della salvezza e nell’indirizzare l’uomo alla beatitudine. Essa si distingue dunque da ogni scienza, in quanto ricava i propri principi dalla rivelazione e non dalle scienze alle quali l’uomo può pervenire. Queste scienze, a loro volta, non ricevono i loro principi dalla teologia. I due ambiti risultano quindi non solo autonomi, ma sostanzialmente privi di relazioni. L’ambito della scienza comprende tutto ciò che è dimostrabile: tutto ciò che non può essere dimostrato non può essere oggetto di scienza e cade, pertanto, fuori dai suoi limiti. Segno rilevante della dimostrabilità  o no di qualcosa è per Duns il fatto che i filosofi, in primo luogo Aristotele, siano o no riusciti a dimostrare tale cosa. La tradizione filosofica circoscrive in qualche modo i limiti entro i quali si può legittimamente muovere la ragione umana. Al di là  di essi si apre invece il terreno indipendente della teologia. La scienza suprema è per Duns Scoto – come già  per Aristotele – la metafisica: essa è suprema in quanto ha per oggetto ciò che è conosciuto prima di qualsiasi altra cosa e a partire dal quale sono conoscibili le altre cose. Tale oggetto, come si è visto, non è il Dio cristiano della rivelazione, di cui si occupa la teologia. Era stato Tommaso a sostenere che due scienze distinte, la metafisica e la teologia, possono riguardare entrambi Dio. Per Duns Scoto, invece, l’oggetto proprio della metafisica è l’essere in quanto essere. La nozione di essere è la prima che l’uomo può conoscere, e per conoscere qualcosa distintamente occorre conoscere tutto ciò che è incluso nella sua nozione, tenendo conto che nella nozione di tutto ciò che è, è incluso l’essere. Non stupisce il fatto che Heidegger ottenne la libera docenza con un saggio su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, vista la centralità  della nozione di essere nel pensatore medievale. Mentre gli altri concetti sono riconducibili a quello di essere, quest’ultimo non è riducibile ad altri concetti che siano anteriori ad esso: in quanto tale esso è l’ens commune. Ma in quanto comune a tutte le cose che sono, la nozione di essere in quanto essere è indeterminata e antecedente a qualsiasi altra e pertanto predicabile di tutto ciò che è. Proprietà  del termine essere è, infatti, secondo Scoto, la sua univocità . Un termine è univoco quando in tutti i suoi impieghi significa sempre e soltanto la stessa cosa. Quindi il termine essere si dice in un solo senso di tutto ciò che è. Questa dottrina si differenzia nettamente dalla concezione dell’analogicità  dell’essere, sostenuta da Tommaso, o da quella della biunivocità  sostenuta da Platone a costo di un omicidio, quello simbolico ai danni di Parmenide. Secondo Duns Scoto, un concetto analogo di essere sarebbe un altro concetto e quindi il concetto di essere, riferito alle creature, non potrebbe più essere usato in relazione a Dio. Il termine essere, invece, si predica univocamente, ossia nello stesso significato, sia delle cose create e finite, sia dell’essere increato e infinito, cioò Dio. Ciò non significa che l’essere sia il genere più ampio, includente al suo interno sia Dio sia le cose create: si tratta invece solo della determinazione comune a tutto ciò che è. L’essere è il primo oggetto dell’intelletto e tramite esso è possibile conoscere il resto. L’oggetto di una scienza, infatti, contiene potenzialmente la conoscenza di tutte le verità  alle quali tale scienza può arrivare. Compito della metafisica sarà  pertanto svolgere per via deduttiva tutto ciò che è contenuto implicitamente nel concetto di essere. Avendo per oggetto la nozione prima e comune di essere, la metafisica è la scienza suprema, presupposto di tutte le altre scienze. La metafisica non ha per oggetto l’essenza di Dio, ma può stabilire l’esistenza dell’essere che la teologia chiama Dio. L’uomo non ha conoscenza diretta dell’essenza di Dio e pertanto non basta asserire che l’esistenza appartiene all’essenza divina per essere certi che Dio esiste. L’esistenza di Dio, infatti, non è qualcosa di evidente come la nozione che il tutto è maggiore della parte. Alla dimostrazione dell’esistenza di Dio si arriva, secondo Duns Scoto, attraverso la nozione di essere infinito, ma per dimostrare che esiste un essere infinito occorre prima dimostrare che esiste un essere primo e poi che tale essere primo è infinito. La dimostrazione dell’esistenza di un essere primo avviene a posteriori, ossia a partire dall’esperienza, e non a priori, come aveva preteso Anselmo da Aosta. Su questo aspetto, Duns si avvicina alla posizione di Tommaso (le cinque vie per dimostrare l’ esistenza di Dio), ma il suo punto di partenza non è la nozione di movimento, quanto piuttosto quella di essere e di causa. Noi vediamo che possono esistere enti che non sono prodotti nò dal nulla nò da se stessi, bensì da qualche altro ente, e poichò non è possibile risalire all’infinito nella serie delle cause, perchò è impossibile un’infinità  di cause ordinate, occorre dunque ammettere la possibilità  di un essere primo, causa di tutto il resto e a sua volta non causato da altro, quindi capace di esistere da sò poichò se non esistesse, esso non sarebbe più tale. Non dipendendo da nulla, l’essere primo non è limitato da nulla e pertanto è infinito. La nozione di infinito non è un attributo particolare di Dio, ma esprime un modo intrinseco del suo essere, il grado massimo della perfezione. Sulla base di esso si può procedere a riferire a Dio i vari attributi: così dire che Dio è bene equivale a dire che infinito è bene e così via. Dalla nozione di essere infinito è possibile ricavare quella dell’unicità  di tale essere, dalla sua semplicità  e immutabilità : tali attributi sono tra loro distinti formalmente, in quanto sono definibili diversamente l’uno dall’altro, ma non realmente, in quanto nessuno di essi è una entità  numericamente distinguibile dagli altri. Ciò che non è dimostrabile di Dio, secondo Duns, è la sua onnipotenza. Lo prova il fatto che i filosofi non sono riusciti a dimostrarla: per i filosofi aristotelici, in particolare arabi (in particolare Avicenna), anche Dio è incatenato dalla necessità , sicchò da lui il mondo scaturisce necessariamente. Il fatto che esista il primo essere non comporta necessariamente per Duns Scoto che esso sia il primo motore, come aveva sostenuto Aristotele. Dio è primo motore soltanto perchò ha creato il mondo, ma il fatto di creare il mondo è qualcosa di contingente rispetto all’essenza di Dio, non è qualcosa che compete necessariamente alla sua essenza. Di conseguenza, il mondo che risulta dalla creazione è anch’esso contingente. L’intelletto divino produce le idee, che sono le verità  e le ragioni eterne, gli esemplari o forme delle cose create. Dio ha idee di tutto, anche delle cose individuali e dei loro accidenti, nonchò della materia stessa, concepita non come privazione di forma, ma come ciò che riceve la forma. Rispetto a Dio, essere infinito, ogni creatura è finita e quindi infinitamente distante da Dio. Che esistano esseri contingenti, i quali possono essere o non essere, è verità  evidente. Come spiegare la loro contingenza? Essa non può essere spiegata in base a cause, le quali siano causate necessariamente da altro, perchò in tal caso l’effetto non sarebbe contingente, ma necessario. La contingenza delle cose può essere spiegata solo in base ad una causa che sia prima, cioò non causata da altro, e che a sua volta causi il resto in maniera contingente, ossia senza essere costretta o determinata da altro. Tale è solamente la volontà  di Dio, la quale non è vincolata da nulla e opera in maniera totalmente libera, ma proprio in quanto del tutto libera, la volontà  divina sfugge a ogni necessità  e ad ogni possibilità  di conoscerla razionalmente, mediante scienza dimostrativa. L’onnipotenza assoluta di Dio è pertanto articolo di fede: essa consiste nel potere di creare immediatamente, cioò senza agenti intermediari (le cosiddette cause seconde) tutto ciò che è creabile. Creare significa causare liberamente degli esseri possibili, la cui esistenza non è necessaria. Prima della creazione nulla esiste e ciò che esiste in virtù della creazione è contingente, può essere come non essere. Duns Scoto riprende dalla tradizione giuridica la distinzione tra ciò che è possibile secondo la legge e ciò che è possibile di fatto: il primo definisce la potentia ordinata e il secondo la potentia absoluta. Per potenza ordinata, i gravi cadono al suolo; per pitenza assoluta Dio può far sì che ciò non accada. Sia in Dio, sia tra gli uomini, la potentia absoluta è più ampia di quella ordinata, perchò riguarda un ambito più ampio di possibilità : un re, per esempio, può anche graziare un individuo condannato in base alla legge. La legge ha una funzione limitante riguardo al potere assoluto, ma Dio può anche stabilire un’altra legge che, in quanto stabilita da lui, è necessariamente buona. L’unico contrassegno della bontà  di un ordine è la sua dipendenza dalla volontà  divina. Qui è il nocciolo di quello che è stato definito volontarismo di Duns Scoto: Platone rispondeva che le cose piacciono alla divinità  perchè sono belle; Scoto, viceversa, risponde che le cose sono belle perchè piacciono a Dio. In questa prospettiva, Dio appare come un sovrano assoluto: nulla può limitarne l’azione, se non il principio di contraddizione, nel senso che Dio non vuole contemporaneamente una cosa e la sua contraria; tutto ciò che egli decide di fare ha valore di legge, ma in quanto proviene dalla sua volontà  è il meglio. Per Tommaso, invece, Dio trovava un vincolo nella sua stessa perfezione: Dio può fare tante cose, ma di fatto egli fa il meglio (ò moralmente necessitato). Per Duns Scoto dunque l’attuale ordine del mondo non è l’unico possibile. Le cose create da Dio sono entità  individuali, le quali tuttavia hanno una natura comune. Socrate, Platone e gli altri individui hanno qualcosa che li distingue da un cavallo o da una pietra: esso è appunto la natura comune, consistente nell’essere uomini. Ma, diversamente dalle posizioni realistiche, le quali sostengono l’esistenza reale della natura comune, per Duns Scoto essa non è un essere numericamente distinto dalle cose individuali e non è pertanto dotato di esistenza a parte da queste cose, ma non è neppure una semplice entità  mentale, come gli universali pensati dall’intelletto. Essa non è di per sò nò universale nò singolare, ma indifferente sia all’universalità  sia alla singolarità . Da che cosa dipende allora l’individualità  delle cose? Ovviamente non può dipendere dalla forma, che coincide con la natura comune; e inoltre il principio di individuazione non può essere dato neppure dalla materia. Secondo Duns Scoto, che su questo punto si stacca dalla tradizione aristotelica, la materia, infatti, non è pura passività , perchò altrimenti non si distinguerebbe dal nulla: quindi anche la materia è dotata di individualità  propria. L’ente individuale deve contenere in sò qualcosa che non è contenuto nella nozione di natura comune e che dispone tale natura, la contrae in modo da essere una cosa determinata nella sua individualità  (ad esse hanc rem). Nei Reportata parisiensia questa determinazione è detta haecceitas (da haec, che in latino significa “questa cosa singola”). Anche essa non ha esistenza numericamente distinta dalla cosa singola, ma non è neppure dotata di esistenza puramente mentale: essa appartiene a ciascun ente nella sua individualità . La causa dell’individualità  è dunque sempre una differenza ultima, in base alla quale ciascuna cosa si distingue da ogni altra. In tal modo, Duns Scoto riconosce a pieno titolo l’originalità  e irriducibilità  di ogni ente individuale. La natura comune, che si individualizza nelle entità  reali, si universalizza invece nell’intelletto. Ciò avviene mediante le specie intelligibili, che sono gli oggetti della conoscenza intellettuale. Mentre le immagini degli oggetti colti dai sensi presentano tali oggetti nella loro singolarità , le specie intelligibili li presentano sotto l’aspetto dell’universalità . La prima conoscenza distinta dell’intelletto è la specie più universale: essa, come si è visto, è la nozione di essere, nella quale sono incluse tutte le nozioni più ristrette. Duns Scoto distingue due forme di conoscenza: intuitiva e astrattiva. La conoscenza intuitiva coglie l’oggetto in quanto è presente nella sua esistenza attuale, è l’analogo della visione diretta di un oggetto: essa è propria non solo dei sensi, ma anche dell’intelletto; infatti anche la natura comune, non solo le cose individuali, è oggetto di conoscenza intuitiva. La conoscenza astrattiva, invece, prescinde dall’esistenza attuale degli oggetti conosciuti intuitivamente, poichò in questi la natura comune, anzichò individualizzarsi, si universalizza. Solo in questo modo si può costituire la scienza, che è appunto conoscenza dell’universale. La scienza può essere stabile e immutabile, soltanto se astrae dall’esistenza degli oggetti che essa considera; in caso contrario resterebbe coinvolta anche essa nel nascere e perire dei suoi oggetti. Prima della caduta nel peccato originale non era necessaria la conoscenza astrattiva, ma tutto era colto intuitivamente in una visione diretta, anche Dio stesso, e così sarà  in futuro nella visione beatificata ultraterrena. Ma Duns Scoto ritiene che l’immortalità  dell’anima non possa essere dimostrata e sia soltanto verità  di fede. L’anima intellettiva è la forma sostanziale dell’uomo, in quanto il pensiero non dipende da organi corporei, ma il corpo è dotato di una forma della corporeità  che predispone il corpo alla sua unione con l’anima: in tal modo, Duns Scoto fa propria la dottrina, tradizionalmente ammessa negli ambienti francescani, della pluralità  delle forme. Ma l’ uomo è anche dotato di volontà , la quale è superiore all’intelletto stesso: su questo punto Duns si contrappone nettamente al primato dell’intelletto e della vita teoretica, sostenuto da Tommaso e dalla tradizione aristotelica. L’intelletto, infatti, è determinato dai suoi oggetti, dipende da essi, mentre la volontà  è libera, non ha altra causa che se stessa e si serve dell’intelletto come di uno strumento. L’assenso della volontà  non è causato necessariamente dalla bontà  dell’oggetto; essa infatti è libera di sceglierlo come di rifiutarlo. La volontà  è buona quando vuole il bene, ma che cosa sia il bene dipende dall’onnipotenza divina. Dio non vuole il bene perchò è bene, come sosteneva Platone; bene è invece ciò che Dio vuole, in quanto lo vuole. La causa del bene è la volontà  di Dio e pertanto il bene per l’uomo consisterà  nel conformarsi alla volontà  di Dio. Se volesse, Dio potrebbe stabilire per gli uomini una legge diversa da quella che ha stabilito; in tal caso sarebbe buona quest’ultima. L’unica eccezione all’arbitrarietà  del comando divino è costituita dal fatto che in ogni caso l’uomo deve conformarsi a tale comando. Ciò darà  luogo ad un agire veramente buono quando sarà  accompagnato dall’amore di Dio, dal quale dipende l’amore per se stessi e per il prossimo: la virtù più alta è per Duns Scoto la carità . Ad essa Dio risponde con la grazia, ossia con il suo amore e con il premio della beatitudine, conferito liberamente per i meriti che egli, nella sua imperscrutabilità , ritiene degni. Vita e opere Nato intorno al 1266 probabilmente nel villaggio di Duns, in Scozia, nei pressi del confine con l’Inghilterra, Giovanni entrò da giovane nell’ordine francescano e, dopo un periodo iniziale di formazione, fu inviato ad Oxford a perfezionare gli studi teologici. Nel 1291 fu ordinato sacerdote a Northampton, nella diocesi di Lincoln e nel 1300 ottenne, come baccelliere di teologia, la licenza di confessare. Nell’autunno del 1302 fu inviato a Parigi per completare la sua formazione e diventare maestro di teologia, ma il suo progresso negli studi fu interrotto nel giugno 1303, quando, in seguito al suo rifiuto di aderire alla causa del re di Francia Filippo il Bello contro il pontefice Bonifacio VIII, fu espulso dal regno insieme con un’ottantina di confratelli. Dopo un intervallo trascorso probabilmente ad Oxford, nell’autunno del 1304 Scoto, tornato a Parigi, portò a termine il corso sulle Sentenze di Pietro Lombardo e, probabilmente all’inizio del 1305, ottenne il grado di magister. Dopo aver servito per un biennio come maestro reggente di teologia a Parigi, Scoto fu inviato dalle autoritàƒ dell’ordine a Colonia, dove morirà , secondo una tradizione antica, ma non del tutto certa, l’8 novembre 1308. Le opere di Scoto sono, nella grande maggioranza, il prodotto della sua decennale attività  di insegnamento in filosofia e in teologia. Per questo motivo, dal punto di vista testuale, esse presentano vicissitudini ed incertezze che rendono difficile lo studio di questo pensatore. Negli ultimi decenni, il progresso delle ricerche ha contribuito molto a distinguere all’interno delle opere piàƒÂ¹ importanti i diversi strati compositivi, le aggiunte originali da quelle dovute ai collaboratori o discepoli e, soprattutto, a chiarire molti dubbi al riguardo della paternità  di alcune opere che erano state falsamente attribuite a Scoto. Nonostante questo, ancora oggi la situazione del suo lascito letterario non può dirsi del tutto esente da problemi, specialmente per quel che riguarda l’esatta collocazione cronologica dei suoi scritti. Inoltre, rimane tuttora assai sentita l’esigenza di edizioni scientificamente affidabili. Le più importanti tra le opere di Scoto sono certamente le diverse versioni dei suoi corsi sulle Sentenze, vale a dire la Lectura, che testimonia il suo primo corso oxoniense tenuto come baccelliere, l’Ordinatio, che di questo stesso corso fornisce una versione rivista e approfondita dall’autore, ed infine i Reportata Parisiensia, frutto dei resoconti forniti dagli studenti del corso parigino preliminare al magistero. Altre importanti opere teologiche sono le Quaestiones quodlibetales, risalenti probabilmente agli anni della reggenza parigina, il De primo principio, un trattato sulla natura e l’esistenza di Dio, e i Theoremata. In gran parte da assegnare ad un periodo precedente sono invece le opere specificamente filosofiche, cioò in primo luogo i commenti di logica (all’Isagogedi Porfirio, alle Categorie, al De interpretatione, ai Topicie agli Elenchi sofisticidi Aristotele) e l’importante commento ai libri I-IX della Metafisicadi Aristotele, cui si aggiunge un più breve commento al De anima, sinora meno studiato. L’eco dell’insegnamento teologico e filosofico di Scoto fu immediata e duratura. Già  nella lettera in cui il suo ministro generale Gonsalvo di Spagna lo raccomandava per il grado di magister si affermava che la sua fama era “diffusa in ogni luogo”. Ben presto le sue dottrine più innovative ed originali furono entusiasticamente riprese e sviluppate dai suoi discepoli, specialmente in ambito francescano, oppure furono oggetto di critiche approfondite e rigorose. A partire dal secondo decennio del XIV secolo, infatti, il nome di “frater Iohannes” o del “Doctor Subtilis”, come venne subito definito, fu tra quelli maggiormente citati nelle opere dei maestri di teologia ad Oxford come a Parigi. Quel che piàƒÂ¹ conta, le sue opinioni contribuirono a rinnovare e a reimpostare i termini stessi del dibattito filosofico e teologico per tutto il Trecento, mentre diedero origine ed alimento, nei secoli successivi fino al diciassettesimo, ad una scuola o corrente dottrinale, quella per l’appunto chiamata “scotista”, che ebbe un ruolo importante nello sviluppo della teologia cattolica moderna. Metafisica Univocità  dell’essere e dei concetti trascendentali Uno dei contributi più importanti di Scoto in ambito metafisico ò rappresentato dalla sua dottrina dell’univocità  dell’essere. Secondo questa nuova concezione, che Scoto elabora in diretta contrapposizione con Enrico di Gand, ma che rompe con una tradizione che aveva dominato per tutto il tredicesimo secolo, non tutti i nomi o attributi divini sono predicabili di Dio soltanto in un senso analogo rispetto al loro senso ordinario, quello cioò che essi hanno quando sono applicati alle creature. Se deve essere possibile qualche forma di discorso intorno a Dio da parte degli uomini, allora occorre secondo Scoto che vi siano almeno alcuni concetti che si applicano in modo univoco, cioò nel medesimo senso, a Dio e alle creature. Essi sono in primo luogo il concetto di essere in generale e, di conseguenza, i concetti cosiddetti trascendentali, quelli cioò esattamente coestensivi al concetto di essere, come essere uno, vero, bello e buono. Vediamo anzitutto su quale fondamento Scoto costruisce la sua critica alla tradizionale dottrina dell’analogicità  dei nomi divini e del concetto di essere. La dottrina tradizionale afferma che ogni attributo che esprime una perfezione, come ‘buono’, ‘saggio’, ‘giusto’ ecc., ha un suo significato ordinario grazie al quale può essere predicato delle creature ed ha inoltre un significato del tutto diverso, grazie al quale può essere predicato di Dio. I due significati del nome in questione, poniamo ad es. [giusto1] e [giusto2], sono diversi nel senso che non possono avere nessun contenuto in comune, anche perchè almeno uno dei due ò assolutamente semplice, dovendosi applicare ad una realtà  perfettamente semplice quale ò Dio. Ciononostante, secondo la dottrina tradizionale, i due significati sono legati da una relazione di somiglianza in virtù del fatto che l’uno si applica agli effetti e l’altro alla Causa, ed ogni effetto in quanto tale ò in qualche modo simile alla sua causa. Per questo un nome come ‘giusto’ non può essere considerato univoco se predicato di Dio e delle creature, ma neppure del tutto equivoco, bensì analogo. A questo punto Scoto interviene per dimostrare che non si può dare un uso analogo di un termine, vale a dire un uso di un termine secondo due significati diversi, ma in qualche modo correlati, se non si dia anche qualcosa che si predichi in modo univoco delle medesime realtà  di cui il termine in questione si predica analogicamente. Dunque la possibilità  della predicazione analoga dei nomi divini presuppone, e non esclude, che vi siano anche concetti che si applicano univocamente a Dio e alle creature. Si prenda ad esempio il caso del termine ‘essere’: esso si predica di Dio nel senso di [essere infinito] e delle creature nel senso di [essere finito]: tra questi due sensi c’ò la stessa distanza che c’ò in generale tra il finito e l’infinito. Nonostante questo, dice Scoto, si può ben essere certi che Dio ò essere, pur essendo in dubbio se sia essere infinito o finito (quest’ultima tesi fu sostenuta ad esempio da alcuni Presocratici). Ma l’intelletto non può contemporaneamente essere certo ed essere in dubbio a riguardo del medesimo contenuto concettuale, dunque [essere] ed [essere infinito] sono due contenuti concettuali diversi, ed isolando il primo dal secondo si può costruire un concetto che sia comune in modo univoco a Dio e alle creature. Come risulta sufficientemente chiaro, dal punto di vista teologico, la posizione di Scoto costituisce un innegabile indebolimento della concezione tradizionale dell’ineffabilità  di Dio, introdotta in Occidente dallo ps. Dionigi Areopagita. La sua novità  può essere espressa in questi termini: ò pur vero che i nomi del nostro linguaggio ordinario mutano radicalmente di significato, quando vengono detti di Dio, ma debbono pur conservare un significato, pena la condanna della teologia all’assoluto silenzio, e per questo occorre presupporre che in quei nomi vi sia perlomeno un contenuto comune, di tipo trascendentale, che leghi insieme Dio e le creature. Dal punto di vista filosofico, inoltre, l’univocità  professata da Scoto costituisce un’innovazione altrettanto radicale rispetto alla teoria aristotelica dell’essere. Non si tratta tuttavia, secondo Scoto, di porre l’essere come genere rispetto a Dio e alle creature o rispetto alla sostanza e all’accidente, bensì piuttosto di introdurre una nuova nozione del trascendentale, che si pone ora come condizione universale del reale. Ci si trova dunque di fronte ad un nuovo tipo di primato dell’essere. L’essere come oggetto primo e adeguato dell’intelletto Dalla teoria dell’univocità  dell’essere segue direttamente la tesi che l’essere ò l’oggetto primo dell’intelletto, dato che esso ò presupposto da qualsiasi concetto che si applichi soltanto a Dio o soltanto alle creature. Esso ò anche, secondo Scoto, l’oggetto “adeguato” dell’intelletto, nel senso preciso che questa nozione aveva acquisito negli Analitici Posteriori di Aristotele, dove si dice che l’oggetto adeguato di una facoltà  ò quello che ò coestensivo e commisurato a tutti gli oggetti che possono essere colti da tale facoltà . Ad esempio, nel caso della vista, l’oggetto adeguato ò il colore, giacchè tutto ciò che può essere colto dalla vista ò necessariamente colorato ed ò colto dalla vista proprio in quanto ò colorato. Nel trattare questo punto Scoto si oppone sia alla tesi di Tommaso secondo cui oggetto primario dell’intelletto ò l’essenza della sostanza materiale sia a quella di Enrico di Gand secondo cui tale oggetto ò Dio stesso. Entrambe le posizioni contenevano il presupposto che l’intelletto umano aveva bisogno di un “sostegno” particolare per svolgere fino in fondo la sua funzione. Secondo la concezione tomista, infatti, l’intelletto ha bisogno dell’intervento della grazia per potersi elevare a contemplare direttamente Dio nella condizione della beatitudine futura, mentre secondo la posizione enriciana, di tipo agostiniano, l’intelletto giunge alla conoscenza anche in questa vita soltanto attraverso l’illuminazione divina, cioò grazie al riferimento all’archetipo eterno o idea divina. Per Scoto, invece, l’intelletto ò una facoltà  naturalmente commisurata alla conoscenza dell’essere nella sua generalità  ed anche per questo egli afferma, con Avicenna, che l’essere in quanto essere ò il soggetto della metafisica. Insieme con l’essere, che ò la nozione più fondamentale, la metafisica ò secondo Scoto la scineza di tutti i trascendentali, cioò di quelle nozioni che per Aristotele non potevono essere collocate all’interno di una sola delle dieci categorie, ma le attraversavano tutte. Questi erano tradizionalmente, insieme con l’essere, l’unità , la verità  e la bontà , ma ad essi Scoto aggiunge altre due tipologie di trascendentali: quella dei trascendentali disgiuntivi (anch’essi coestensivi con l’essere, come ‘necessario-o-contingente’, ‘finito-o-infinito’, ‘attuale-o-potenziale’, ‘causa-o-causato’ ecc. ) e quella delle pure perfezioni (come intelletto e volontà , onniscienza e onnipotenza ecc. ). Grazie allo studio scientifico di questi trascendentali, compiuto nell’ambito della metafisica, ò possibile introdursi alla teologia, cioò alla scienza delle cose divine. La composizione della sostanza: natura comune e differenza individuale L’influenza di Avicenna sul pensiero di Scoto ò avvertibile non solo per quanto concerne la questione dell’oggetto della metafisica, di cui si ò detto più sopra, ma anche in relazione alla teoria della natura comune. Se l’essere, assunto nella sua accezione più generale, ò l’oggetto primo e adeguato dell’intelletto ed ò il campo di studio della metafisica, la natura o essenza di ogni singolo ente, comune ad ogni altro ente della sua specie, ò l’oggetto proprio dell’intelletto ed ò ciò che funge da significato del predicato nelle proposizioni universali vere che riguardano quell’ente in quanto membro della sua specie. Secondo una nota teoria avicenniana, la natura comune di per sè non ò nè individuale nè universale, bensì indifferente rispetto ad entrambe le caratteristiche, e proprio per questo ò in grado di determinarsi come individuale, una volta acquisita un’esistenza reale, oppure come universale, se un intelletto le conferisce un’esistenza mentale. In altri termini, secondo questa concezione, la natura o essenza di una cosa non può mai darsi se non come universale nella mente o come individuale al di fuori della mente, proprio perchè di per sè non ò nè l’uno nè l’altro. Ne deriva che, per Scoto, la distinzione tra essenza ed esistenza non potrà  essere reale, cioè una distinzione tra cose diverse, giacchè questo distruggerebbe l’unità  del singolo ente, bensì piuttosto una distinzione tra una cosa (la natura) ed un suo modo di essere (l’esistenza singolare o l’universalità  mentale). Questa linea di pensiero conduce naturalmente ad impostare in termini piuttosto radicali il problema dell’individuazione, di ricercare cioè che cosa sia tale da rendere singolare l’essenza che di per sè non ò singolare. Scoto discute lungamente questo problema nella sua Ordinatio, esaminando e respingendo ben cinque soluzioni diverse dalla sua: la prima che nega il bisogno di porre alcun principio di individuazione, perchè sostiene che la natura ò di per sè individuale (ò il punto di vista dei nominalisti), la seconda che identifica il principio di individuazione con la negazione (ò la posizione di Enrico di Gand), la terza con l’esistenza in atto (si tratta di una posizione comune), la quarta con la quantità  (Egidio Romano) e la quinta con la materia (un’altra posizione comune attribuita solitamente ad Aristotele). Scoto dispiega l’impegno maggiore nel confutare la soluzione nominalista ed in tal modo definisce con precisione la natura del proprio realismo metafisico. Tra le varie argomentazioni contrapposte ai nominalisti, se ne possono ricordare almeno due. La prima rileva che ogni oggetto proprio precede per natura la facoltà  di cui ò oggetto proprio, e questo vale quindi anche per l’essenza nei confronti dell’intelletto. Ma se l’essenza fosse di per sè singolare, si dovrebbe ammettere che l’intelletto coglie il suo oggetto in un modo che non gli corrisponde, cioò come universale invece che come singolare, e non potrebbe pertanto essere considerato come naturalmente posteriore ad esso Ancor più caratteristica del realismo scotista ò un’altra argomentazione con cui si giunge ad assegnare all’essenza un tipo di unità  “minore dell’unità  numerale”. Se in ambito metafisico si desse soltanto l’unità  di tipo numerale, quella cioò per la quale gli oggetti possono essere contati o inseriti in una successione numerica, allora secondo Scoto non si potrebbe riconoscere un carattere oggettivo alle realtà  specifiche o generiche, ad esempio a relazioni come quella di contrarietà  che non si fondano su caratteristiche individuali, bensì generiche (non ò questo particolare bianco ad essere contrario rispetto ad un determinato nero, bensì il colore bianco rispetto al colore nero). Alle realtà  essenziali va pertanto attribuita una “unità  minore di quella numerale”, tale cioò che sommata ad altre “unità  minori” non superi tuttavia un’unità  numerale (la natura generica e quella specifica sono due unità  minori che possono però coincidere in un individuo numericamente uno). Avendo in tal modo ribadito la necessità  di ricercare un principio di individuazione che renda conto della caratteristica di singolarità  dell’essenza, Scoto prende in considerazione diverse proposte in tal senso. La doppia negazione di Enrico di Gand ò respinta perchè l’individuazione di un’essenza reale non può esser fornita se non da una realtà  positiva. L’esistenza attuale ò respinta perchè ò qualcosa di esterno all’ordine categoriale cui appartiene l’essenza, e lo stesso vale per la quantità  o per altri accidenti o per la materia, che sono tutti principi extra-sostanziali, mentre per Scoto la sostanza non può essere individuata da qualcosa di estrinseco. Si giunge quindi a porre l’esigenza di un principio di individuazione che sia reale, positivo e collocato nell’ordine sostanziale. Questo principio ò ciò che Scoto chiama la “differenza individuale”, l’ultima perfezione della forma sostanziale specifica, tale da poter “contrarre” la specie, cioò renderla non ulteriormente divisibile, e quindi individuale. Con questa sorta di “supplemento” all’albero di Porfirio, cui spesso si fa riferimento come alla teoria dell’haecceitas (l'”esser-questa-cosa-qui”), Scoto introduce un’originale innovazione nell’ambito della metafisica di derivazione aristotelica, indebolendo quel primato ontologico della specie rispetto all’individuo che risaliva perlomeno all’interpretazione neoplatonica di Aristotele. Teologia Fede e ragione Scoto traccia una netta distinzione tra metafisica e teologia. Essa si basa a sua volta sulla distinzione tra la theologia in se e la theologia nostra, vale a dire tra ciò che in assoluto può essere conosciuto a proposito di Dio (e che solo Dio stesso conosce) e ciò che noi possiamo conoscere di Dio, principalmente grazie alla rivelazione. Il contenuto della theologia nostra ò centrato soprattutto sulla Trinità , che costituisce l’essenza stessa di Dio e non può essere da noi conosciuta mediante le nostre sole facoltà  naturali. Dunque Dio nella sua essenza può essere da noi conosciuto soltanto grazie alla sua autorivelazione. Vi sono tuttavia molte verità  che riguardano Dio e possono essere conosciute mediante la sola ragione, ad esempio che Dio esiste, che ò perfettamente semplice, infinito ecc. Queste verità  tuttavia non rientrano nell’ambito della teologia, dato che questa ò per Scoto la “scientia rerum creditarum”, cioò delle cose che possono essere conosciute soltanto per rivelazione. Le verità  in questione pertengono dunque all’ambito della metafisica. Per quanto riguarda invece la natura scientifica della teologia, Scoto si distacca sia dalla maggioranza dei teologi suoi contemporanei, che consideravano la teologia una scienza puramente teoretica, sia dalla concezione tipica della tradizione francescana, secondo cui la teologia ò una scienza affettiva. Per lui il carattere distintivo della teologia ò dato dal fatto che ogni suo contenuto ò finalizzato ad indurre in chi la coltiva un comportamento giusto, ad accrescere la sua inclinazione all’amore di Dio, quindi la teologia ò essenzialmente una scienza pratica. Ci si può chiedere tuttavia, come fa Scoto nella prima questione del prologo dell’Ordinatio, se la teologia sia veramente necessaria per l’uomo. La trattazione di questo problema ò affrontata dal Dottor Sottile come una discussione delle contrapposte posizioni dei teologi e dei filosofi. Secondo i teologi ò possibile dimostrare la necessità  della teologia perchè si può dimostrare che il fine ultimo dell’uomo ò la fruizione di Dio ed anche che le naturali facoltà  umane non sono in grado di raggiungere la conoscenza presupposta da questa fruizione. Dunque il fine dell’uomo sarebbe al di là  delle sue facoltà  naturali e può essere raggiunto solo grazie alla rivelazione. Per i filosofi invece non esiste nulla che l’uomo non possa conoscere per mezzo delle sue facoltà  naturali, e dunque la rivelazione non solo non ò necessaria, ma ò in realtà  superflua. La posizione di Scoto si colloca in un certo senso a metà  strada: da un lato egli precisa che, in ogni caso, la teologia non ò necessaria per la salvezza, dato che Dio può salvare anche chi non ha la fede, dall’altro lato, tuttavia, contro i filosofi, egli sostiene che con le sole nostre facoltà  naturale noi non possiamo sapere se il nostro fine ultimo sia soprannaturale o naturale, ed ò precisamente per questo che noi abbiamo bisogno della rivelazione, che non solo ci indica il nostro fine soprannaturale, ma ci fornisce anche le conoscenze necessarie per raggiungerlo. La necessità  della teologia, dunque, nella concezione di Scoto, ò solo indirettamente inscritta nella ragione umana, ma non per questo risulta meno necessaria. La dimostrazione dell’esistenza di Dio Come si ò visto, uno dei compiti principali della metafisica ò quello di dimostrare l’esistenza di Dio. L’importanza che Scoto conferisce a questo compito ò testimoniata dal fatto che egli costruisce a questo proposito quella che ò senz’altro la dimostrazione più articolata e sofisticata dell’intera tradizione scolastica, tale da compendiare in un certo senso anche gli sforzi dei teologi precedenti, ed illustra dettagliatamente questa complessa argomentazione in quattro opere distinte, nella Lectura, nell’Ordinatio, nella Reportatio e nel De primo principio. La strutturadi quest’argomentazione può essere schematizzata come segue: esiste un Primo agente esiste un Fine ultimo di tutte le azioni esiste un Ente con il massimo grado di perfezione queste tre proprietà  possono appartenere ad un solo genere di Enti un Ente con queste proprietà  ò necessariamente infinito Una volta raggiunto questo risultato, Scoto ò inoltre in grado di dimostrare anche l’unicità  e la semplicità  di Dio. Proviamo a seguire, in maniera alquanto sintetica, i diversi passaggi della dimostrazione di Scoto. L’esistenza di un Primo agente Il punto di partenza ò dato dall’assunzione di una verità  contingente, ma su cui tutti possono convenire, che cioò esistono degli effetti (“aliquod ens est effectibile”). Per definizione un effetto non ò qualcosa che può causarsi da sè, se quindi si ò d’accordo nell’eliminare la possibilità  che sia causato da nulla e quella che si dia una circolarità  di cause, allora non resta che concludere che ci deve essere una causa di quell’effetto. A sua volta tale causa o non ò un effetto, e allora avremmo raggiunto la dimostrazione che esiste una causa non causata, cioò un primo agente, oppure, se ò un effetto, di nuovo si può riproporre lo stesso ragionamento che conduce alla necessaria esistenza di un’ulteriore causa. Se non si vuole ammettere la possibilità  di una serie infinita di cause, bisogna concludere che ad un certo punto si giungerà  ad un agente primo non causato. Contro questa fase iniziale della dimostrazione si possono muovere due obiezioni: in primo luogo si può notare che, presupponendo l’impossibilità  di un regresso infinito nella serie delle cause, essa assume quello che deve dimostrare, cioò cade nella fallacia della petizione di principio. In secondo luogo si può osservare che, dal punto di vista della teoria aristotelica della dimostrazione, non si tratta in questo caso di una dimostrazione scientifica, dato che prende le mosse da una premessa contingente e non può quindi concludere se non ad una verità  altrettanto contingente. In risposta alla prima obiezione Scoto introduce la distinzione tra una serie di cause essenzialmente ordinate e una serie di cause accidentalmente ordinate. Essenzialmente ordinate sono quelle cause tali per cui, data la sequenza A – B – C, A non ò semplicemente causa di B che ò causa di C, bensì A ò causa del fatto che B ò causa di C. Ad esempio la sequenza nonno – padre – figlio ò accidentalmente ordinata, perchè il nonno ò causa dell’esistenza del padre, ma non ò causa sufficiente della generazione del figlio da parte del padre. Invece la sequenza movimento del braccio – movimento dell’asta – palla in buca ò essenzialmente ordinata. Ora, secondo Scoto, l’impossibilità  del regresso all’infinito può essere dimostrata proprio riguardo alle cause essenzialmente ordinate, perchè esse sono tali da far risalire interamente la responsabilità  dell’effetto alla causa superiore, e quindi se alla fine un effetto c’ò, ci deve esser anche all’inizio una Prima causa che ne ò in primo luogo responsabile. Per quanto riguarda invece la seconda obiezione, quella che riguarda lo statuto modale della dimostrazione, Scoto intende neutralizzarla riformulando la sua premessa iniziale in termini di possibilità : ò possibile che qualcosa sia un effetto. Da qui si deriva che ò possibile che qualcosa sia una causa ed inoltre, facendo nuovamente ricorso all’impossibilità  di un regresso all’infinito delle cause essenzialmente ordinate, che ò possibile che qualcosa sia una causa Prima. A questo punto, dalla possibilità  dell’esistenza di una causa Prima essenzialmente non causata Scoto deriva l’esistenza necessaria di una tale causa, trasformando quindi il suo argomento cosmologico in un argomento di tipo ontologico. L’esistenza di Dio come infinito in atto Utilizzando una strategia argomentativa del tutto simile, cioè facendo leva sempre sull’inammissibilità  del regresso infinito rispettivamente delle cause finali e delle cause progressivamente più prefette, Scoto giunge a dimostrare l’esistenza di un Fine ultimo e di un Ente massimamente perfetto. In aggiunta a ciò egli dimostra che se qualcosa ò un Fine ultimo, sarà  anche un Primo agente e un Ente massimamente perfetto, cioò che queste tre proprietà  sono coestensive: tutti gli individui che godono di una di esse, godono anche delle altre due. A questo punto Scoto ò pronto per compiere il passaggio finale, quello di dimostrare che un Ente di tal genere ò infinito, e quindi può essere identificato con Dio. Anche in quest’ultima fase la dimostrazione ò condotta su diverse linee: l’infinità  viene raggiunta sia prendendo in considerazione Dio come Prima causa efficiente (cioò come Primo motore, e per tanto in grado di causare una serie infinita di movimenti), sia prendendolo in considerazione come Agente intellettuale (che quindi possiede la conscenza attuale e distinta di tutti i suoi infiniti effetti), sia infine considerandolo come Ente massimamente perfetto. da quest’ultimo punto di vista Scoto sottolinea che un Ente supremamente eccellente non può essere finito, perchè ciò che ò finito può essere superato in eccellenza da ciò che ò infinito. In questo contesto viene ribadito che un ente infinito può esistere, dato che il concetto di ente infinito non ò contraddittorio, e che se un ente infinito supremamente eccellente può esistere, allora esso deve esistere, altrimenti sarebbe superato in eccellenza da un altro ente infinito che possedesse l’esistenza attuale. La dimostrazione scotiana dell’esistenza di Dio come infinito in atto viene poi completata dalla dimostrazione dell’unicità  e della semplicità  di Dio. Se Dio ò questo Ente infinito, Primo agente, Fine ultimo e massimamente perfetto, non vi può essere più di un unico Dio, perchè altrimenti vi potrebbe esser più di un’unica causa essenziale ed immediata di un medesimo effetto. Inoltre, se Dio ò attualmente infinito, sarà  anche semplice, poichè altrimenti sarebbe composto di parti, ciascuna delle quali sarebbe minore dell’intero; ma tali parti non potrebbero essere infinite, poichè in tal caso non sarebbero minori dell’intero, e non potrebbero nemmeno essere finite, poichè nessuna somma di parti finite può comporre un intero infinito. Dunque Dio infinito non può essere composto di parti e quindi sarà  semplice. L’onnipotenza di Dio Se dunque mediante l’esercizio della pura ragione naturale secondo Scoto ò possibile dimostrare non solo che Dio esiste, ma anche che ò infinito, unico, semplice, primo di ogni sequenza di cause essenzialmente ordinate e massimamente perfetto, tuttavia vi sono altre proprietà  di Dio che non si possono conoscere se non con l’aiuto della rivelazione. Una di queste ò l’onnipotenza, che Scoto distingue rispetto all’infinita potenza in base al fatto che un agente si dice onnipotente solo se ò in grado di produrre in modo immediato (cioò senza il concorso delle cause secondarie) un’infinità  di effetti. Data questa definizione, si può comprendere come essa non possa essere derivata dall’infinità , come ò il caso invece della semplicità . Ma l’aspetto più innovativo della dottrina scotista dell’onnipotenza riguarda il suo rapporto con altre due proprietà  di Dio, quelle di essere un agente assolutamente libero e indipendente dal tempo. In base alla sua teoria della libertà  del volere, di cui si tratterà  più sotto, Scoto considera che un agente ò libero quando ò in grado di produrre un determinato effetto nel medesimo momento in cui produce l’effetto opposto. Applicando a Dio questo principio, occorre tener conto della sua indipendenza rispetto al tempo e quindi la sua libertà  consisterà  nel mantenere sempre il potere di produrre effetti diversi ed anche opposti rispetto a quelli che in effetti produce. Da questo punto di vista Scoto recupera una distinzione consueta nella teologia scolastica tra ciò che Dio fa in base alla sua potenza assoluta e ciò che fa in base alla sua potenza ordinata. Tale distinzione ha sempre avuto il significato di sottolineare come Dio non sia legato necessariamente all’ordine che ha creato. Ora però Scoto, con la sua peculiare definizione modale della libertà , ò in grado di dare un contenuto filosoficamente nuovo a questa distinzione. La potenza assoluta di Dio può infatti essere definita come il potere che egli ha di produrre sempre qualsiasi stato di cose alternativo a quello che produce, purchè sia logicamente possibile. Quello tra gli stati di cose possibili che viene effettivamente prodotto rientra per questo nella sua potenza ordinata. Risulta chiaro quindi che il discorso delle due potenze non implica l’introduzione di una qualsivoglia distinzione in Dio, bensì soltanto un modo per distinguere il corso degli eventi effettivamente voluto da Dio da tutti gli altri corsi di eventi logicamente possibili e compossibili, e sottolinearne quindi il carattere assolutamente contingente. àˆ da questo punto di vista che Scoto ò stato di recente indicato come l’inventore dell’importante nozione filosofica di mondo possibile. Logica e teoria della conoscenza Natura e oggetto della logica Così come la metafisica studia, secondo Scoto, l’essere in quanto essere, la logica studia in primo luogo l’argomentazione sillogistica, nelle sue diverse parti componenti (termini e proposizioni) e nelle sue diverse specie (argomentazione dimostrativa, dialettica e sofistica). Per quanto concerne tuttavia il posto che la logica occupa nell’ambito del panorama complessivo delle scienze, Scoto sottolinea che essa non ò propriamente nè una scienza che si occupa direttamente delle cose, cioò una scienza reale come la metafisica o la fisica, nè una scienza che si occupa in senso stretto del linguaggio, cioò una scienza sermocinale come la grammatica. La logica si occupa piuttosto dei concetti o intenzioni (intentiones), vale a dire del modo in cui le cose vengono conosciute dall’intelletto e delle proprietà  (intentiones secundae) attribuibili alle cose in quanto sono conosciute. Tale prospettiva ò messa da Scoto in particolare rilievo a proposito della questione del significato dei nomi, che trae origine dall’esegesi del primo capitolo del De interpretatione di Aristotele. Dai commentatori, sia antichi sia medievali, di questo testo ò stata spesso sollevata la questione se i nomi del linguaggio umano significhino direttamente le cose oppure soltanto per il tramite dei concetti. Scoto prende in esame due distinte soluzioni a questo problema, la prima che sostiene la significazione indiretta delle cose da parte dei nomi, la seconda, per la quale Scoto si dichiara nell’Ordinatio, che invece sostiene la significazione diretta. Ma anche in quest’ultimo caso per Scoto ò importante tener presente che i nomi non significano le cose in sè, in quanto esistenti, bensì le cose in quanto sono conosciute dal nostro intelletto. Per questo lo studio dei concetti, che appartiene alla logica, ha una dignità  autonoma e non si risolve interamente nè nello studio delle cose nè in quello dei nomi. Scendendo più in dettaglio nell’analisi del significato dei termini, Scoto può mettere a frutto l’impostazione metafisica che egli deriva da Avicenna e che identifica nell’essenza o natura l’oggetto proprio dell’intelletto. Da questa tesi si può infatti derivare che il significato dei termini universali ò dato in primo luogo dall’essenza o natura in quanto conosciuta. Quando perciò in una proposizione universale si predica un termine universale, ò questa natura ad essere oggetto della predicazione ed ò in base alla composizione ontologica di questa natura o alla relazione tra la natura e l’individuo in cui ò contratta che sono verificabili le proposizioni scientifiche. Nel caso tipico di una proposizione come “ogni uomo ò animale”, ad esempio, il valore di verità  ò determinato dal rapporto che lega, al livello della natura, l’humanitas e l’animalitas, ma la proposizione può essere verificata solo esaminando i singoli individui in cui ò contratta la natura, cioò i singoli uomini. Alla base di questo duplice livello semantico sta dunque la particolare relazione che intercorre tra principio individuale contraente e natura contratta, di cui già  si ò parlato in riferimento al problema metafisico dell’individuazione. Dal punto di vista della teoria del significato, tuttavia, per poter sostenere il nesso tra i due livelli in questione, ò importante poter affermare, come fa Scoto, che nell’unico e medesimo individuo sono contenute “unitivamente” due realtà  distinte, vale a dire appunto la natura specifica e la differenza individuale. Queste due realtà  o “formalità “, come Scoto anche le chiama, sono realmente identiche, ma sono distinte o non-identiche formalmente, nel senso che ciascuna delle due non può darsi senza che anche l’altra si dia (e ciò soddisfa la condizione dell’identità  reale), ma nello stesso tempo l’una può essere definita senza fare alcun riferimento all’altra. Con questa nuova nozione della distinzione formale Scoto assume una posizione originale all’interno del dibattito, particolarmente acceso tra i teologi posteriori a Tommaso d’Aquino, intorno alla distinzione tra ente ed essenza. Questa posizione, dal punto di vista metafisico, appare come un coerente sviluppo della teoria avicenniana della natura comune e risulta perfettamente parallela all’idea di un’unità  minore dell’unità  numerale che si ò visto caratterizzare il piano delle realtà  essenziali. Scoto utilizza la differenza formale come strumento teorico in diversi contesti, come ad esempio in psicologia, per spiegare il rapporto tra l’anima e le sue facoltà , e particolarmente in teologia, dove si applica al problema di distinguere le tre Persone divine dalla comune essenza divina, ed anche al problema di distinguere le due nature, quella divina e quella umana, unite nel Verbo. Inoltre, come si ò visto, essa costituisce il perno dell’integrazione tra ontologia e semantica, e quindi uno dei cardini metafisici su cui si fonda la possibilità  stessa della conoscenza umana. La conoscenza dell’individuale e il problema dell’evidenza La dualità  tra singolare e universale ò alla base anche della teoria della conoscenza di Scoto, ma in questo ambito il primato dell’individuale viene affermato con vigore. àˆ dalla conoscenza intellettuale dell’individuo che prende le mosse, secondo Scoto, l’intero processo cognitivo umano ed a questo proposito viene avanzata una distinzione, quella tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva di un oggetto individuale, che ha condizionato il dibattito gnoseologico lungo tutto il quattordicesimo secolo ed oltre. Secondo la definizione proposta da Scoto, la conoscenza, o meglio la cognizione intuitiva (cognitio o notitia intuitiva) ò l’atto cognitivo che si genera nell’intelletto quando questi si trova in presenza di un oggetto attualmente esistente, mentre la cognizione astrattiva ò l’atto cognitivo intellettuale che prescinde dall’esistenza e dalla non-esistenza attuale dell’oggetto. Si tratta in entrambi i casi di due atti cognitivi intellettuali rivolti ad un oggetto individuale, quindi non bisogna confondere la cognizione intuitiva con l’intuizione sensibile dell’individuale nè la cognizione astrattiva con la conoscenza dell’universale. Proprio perchè intellettuali, inoltre, entrambi i tipi di atti cognitivi hanno per oggetto l’essenza individuale e non l’individuo sensibile (in conformità  con la teoria scotista dell’essenza come oggetto proprio dell’intelletto). Questi due tipi di conoscenza individuale sono il fondamento, per Scoto, di tutte le proposizioni gnoseologicamente garantite. Le proposizioni che possono essere considerate scientifiche nello stretto senso aristotelico, quelle cioò che sono universali e necessarie, si fondano naturalmente sulla cognizione astrattiva, che prescinde dalle condizioni attuali di esistenza degli oggetti. Ma noi abbiamo garanzia gnoseologica anche a riguardo di alcune nostre esperienze, come ad esempio quelle che concernono i nostri atti interiori, e su queste possiamo fondare delle proposizioni evidenti di natura contingente. Queste proposizioni traggono la loro garanzia di verità  dalla cognizione intuitiva degli oggetti considerati, dato che tale cognizione non può verificarsi se non in presenza di quegli oggetti ed ò causalmente legata ad essi. Dal punto di vista epistemologico, la fondazione di ogni conoscenza certa sugli atti cognitivi intellettuali che colgono l’essenza individuale costituisce un importante innovazione della tradizione precedente. Secondo il paradigma aristotelico, infatti, la certezza scientifica risiede in primo luogo nei principi autoevidenti (principia per se nota) che sono alla base delle varie scienze e solo il modello sillogistico, cioò deduttivo, della scienza rigorosa può garantire che la certezza dei principi sia trasmessa sino alle conclusioni della scienza. Secondo la tradizione platonica, invece, ed in particolare secondo la teoria agostiniana dell’illuminazione, la certezza giunge all’intelletto soltanto dalla contemplazione dei modelli eterni ideali che risiedono nella mente divina. In questo contesto, il primato della conoscenza individuale sostenuto da Scoto da un lato rompe decisamente con lo schema agostiniano dell’illuminazione, e dall’altro introduce un significativo ampliamento nell’epistemologia aristotelica, accogliendo nell’ambito della conoscenza evidente anche la sfera del contingente e del singolare. Etica e politica La teoria della volontà  Alla base dell’etica di Scoto si trova una precisa opzione espressa in ambito psicologico, che a sua volta utilizza uno strumento teorico di tipo ontologico. Si tratta della tesi secondo cui le facoltà  dell’anima, l’intelletto e la volontà , sono distinte soltanto formalmente, e non realmente, rispetto all’anima stessa. Questa concezione, che si distacca dalla posizione adottata su questo argomento tra gli altri anche da Tommaso d’Aquino, favorisce un approccio maggiormente integrato ai problemi della psicologia, ma ha delle conseguenze anche in ambito etico. La principale tra queste ò la considerazione che l’anima stessa, e non una delle sue facoltà , ò la causa delle azioni dell’uomo. Nello stesso tempo l’anima ò causa di determinate azioni in quanto natura intellettuale ed ò causa di altre azioni in quanto natura volontaria. Queste puntualizzazioni hanno una precisa rilevanza per quel che riguarda il problema, fondamentale nell’etica di Scoto, della libertà  umana. Secondo Scoto, l’uomo ò un essere dotato di libertà  nel senso più pieno. Il problema ò di definire se tale libertà  gli compete in quanto natura intellettuale o in quanto natura volontaria. La soluzione a questo problema ò fondata su di una distinzione presente nella Metafisica di Aristotele (IX. 2, 1046b1-4), secondo cui gli agenti si dividono in razionali e irrazionali: i primi sono in grado di produrre effetti opposti, mentre i secondi sono determinati a produrre sempre lo stesso effetto. Dal punto di vista metafisico, dunque, la libertà  consiste proprio in questa indeterminazione, nel potere cioò di causare effetti opposti. Ma se consideriamo l’anima umana dal punto di vista della sua natura intellettuale, vediamo che essa non ò indeterminata rispetto ai suoi effetti: posto nelle condizioni opportune, l’intelletto non può di per sè astenersi dal compiere la propria azione, vale a dire comprendere un concetto o dare il suo assenso ad una proposizione che gli appare vera. Se lo fa, ò perchè si trova sotto il controllo della volontà , come avviene quando si dice di qualcuno che “non vuol capire” una cosa. àˆ dunque in quanto natura volontaria che l’anima gode della libertà  nei confronti dei propri effetti, ò in grado cioò di volere cose opposte e di causare azioni moralmente giuste o ingiuste. La misura di questa libertà  del volere ò definita con precisione da Scoto anche dal punto di vista logico, in relazione alla scansione temporale dell’atto del volere. Non si deve pensare infatti, sottolinea Scoto, che la volontà  sia libera sempre soltanto finchè non si determina nella sua scelta di uno dei contrari. Se così fosse infatti la libertà  del volere sarebbe condizionata rispetto al tempo: sarebbe sempre libertà  del futuro e mai libertà  nel momento presente. Per eliminare questa prospettiva Scoto pone il caso di una volontà  che duri per un solo istante e chiede: se in quell’istante essa compie un atto (una scelta), tale atto sarà  compiuto in modo necessario o contingente? (non si tratta di un caso ipotetico per la teologia scolastica, ma della questione tradizionale di sapere se gli angeli potevano peccare nel primo istante della loro creazione, quando vennero determinati al male o al bene dalla loro scelta pro o contro Dio). La non necessarietà  dell’atto per Scoto deriva in questo caso dalla stessa definizione logica di causa contingente: una tale causa infatti non può essere definita contingente perchè rimane indeterminata solo fino al momento prima di causare. Se così fosse, ogni sua azione causale sarebbe necessaria nel momento in cui si compie. Una causa contingente dunque ò tale perchè nel momento in cui produce il suo effetto mantiene la capacità  di non produrlo o di produrne uno opposto. Lo stesso vale quindi per la volontà  istantanea, che mantiene la sua capacità  di non scegliere o di compiere una scelta diversa. Tale capacità  nei confronti degli opposti non dipende dunque dalla successione temporale, ma ò una caratteristica connaturale della volontà , che la definisce come agente razionale o libero. Applicando dunque la distinzione aristotelica si deve concludere, secondo Scoto, che la volontà  ò l’unico agente razionale, mentre l’intelletto rientra nella categoria degli agenti irrazionali o naturali. Questo primato della volontà  nei confronti dell’intelletto sbarra le porte alla costruzione di ogni etica di tipo intellettualistico, nella quale la volontà  sia considerata come determinata verso il raggiungimento della felicità , cioò del proprio benessere, e quindi sia sottoposta al condizionamento da parte dell’intelletto, che può indicare ogni volta, a torto o a ragione, quale sia la scelta che conduce alla felicità . L’opzione volontaristica di Scoto si esprime invece nel sottolineare che la volontà  ò svincolata in entrambi i sensi dall’intelletto: essa infatti può volere il male pur sapendo che ò male, ma può anche volere il bene pur sapendo che ò contrario al suo benessere. Quest’ultima possibilità  si fonda sul fatto che la volontà  secondo Scoto ò caratterizzata da una duplice inclinazione: non solo infatti essa ò naturalmente incline verso tutto ciò che può condurre al proprio benessere (inclinazione verso l’utile o affectio commodi), ma ò anche incline verso ciò che ò moralmente buono (inclinazione verso il giusto o affectio iustitiae). In ultima analisi, ò proprio nella distanza tra queste due disposizioni caratteristiche che si apre lo spazio per una genuina libertà  della volontà , ed ò in questo che risiede lo scarto che la contraddistingue rispetto a tutti gli altri agenti naturali non liberi. Il cosiddetto volontarismo etico Se la categoria filosofica di “volontarismo” può legittimamente essere applicata alla concezione scotista del primato della volontà , non altrettanto si può dire per quel che concerne la sua teoria etica generale, non perlomeno nell’accezione rigorosa del termine, con cui si intende solitamente designare una concezione secondo cui la norma morale dipende interamente dalla volontà  divina (“ò buono ciò che Dio vuole, perchè Dio lo vuole”). La dottrina morale di Scoto, ed in generale quella della tradizione scolastica francescana, ò stata spesso in passato descritta in questi termini, ma di recente gli studi più accurati sull’argomento hanno cominciato a mettere in questi

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