La vita, le opere e la formazione culturale Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da famiglia modesta, così come incerta rimarrà per tutta la vita la sua condizione finanziaria, aggravata da una prole sempre più numerosa. Compì i primi studi, con una lunga interruzione, in un collegio di gesuiti, arricchendo tuttavia la sua preparazione con numerose letture personali. Successivamente, anche la frequenza della facoltà di Giurisprudenza fu alquanto irregolare. Vico completò invece la sua preparazione autodidattica tra il 1686 e il 1689, quando, precettore privato nel castello di Vatolla nel Cilento, ebbe l’ opportunità di di coltivare con agio gli studi di metafisica e di diritto. Secondo quanto egli stesso afferma nell’ autobiografia ( Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, 1725-31), data già a questo periodo la sua avversione per la matematica, alla quale cessò ben presto di applicarsi, avvalendosi che “alle menti già della metafisica fatte universali non riesce agevole quello studio proprio degli ingegni minuti”. Nel 1699, Vico ottiene la cattedra di Eloquenza presso l’ università di Napoli. Non vincerà invece, nel 1723, il concorso per la cattedra di Giurisprudenza, più prestigiosa e meglio retribuita. In quanto professore di Eloquenza spetta a lui il compito di pronunciare le “orazioni inaugurali” che aprono l’ anno accademico. La settima e ultima di esse, intitolata De nostri temporis studiorum ratione (1708), nella quale Vico prende le distanze dal cartesianesimo, costituisce il suo primo scritto filosoficamente rilevante. Due anni dopo, nel 1710, vede la luce il De antiquissima Italorum sapientia, concepito come “Libro primo metafisico” di una trilogia le cui ultime due parti (il “Libro fisico” e il “Libro morale”) non saranno mai pubblicate. Intanto procede la lunga elaborazione del capolavoro, la Scienza nuova. Aspirando alla cattedra di diritto, Vico pubblicò alcuni lavori aventi, in senso lato, carattere giuridico: Sinopsi del diritto universale (1720), De uno universi juris principio et fine uno (1720) e il De constantia philologiae. Dalla rielaborazione di questi scritti nascono i Princìpj di una scienza nuova d’ intorno alla natura delle nazioni, conosciuta comunemente come Scienza nuova prima (1725). Una successiva edizione, rielaborata, la cosiddetta Scienza nuova seconda, comparve nel 1730. A quest’ ultima Vico apportò ben quattro serie di Correzioni, miglioramenti e aggiunte, sulla base delle quali fu composta la Scienza nuova terza, che uscì nel luglio del 1744, sei mesi dopo la morte del suo autore. Malgrado le rielaborazioni, la Scienza nuova non ha conseguito una redazione che eliminasse oscurità e aporie. Lo stesso stile di Vico, del resto, ò complesso anche sul piano sintattico. Nè ò formalmente omogenea la composizione dell’ opera che risente del lavoro di assemblaggio cui ò stata sottoposta. Giova invece il fatto che Vico abbia posto, quasi all’ inizio di essa, un elenco di Degnità o assiomi – il termine “degnità “, o proposizione degna di essere conosciuta, vuol essere la latinizzazione del greco “assioma”, che appunto deriva da axiòs: degno – che vengono frequentemente richiamati dalla trattazione successiva. L’ erudizione di Vico ò vastissima e innumerevoli sono le influenze che gli autori da lui letti – soprattutto quelli classici – hanno esercitato su di lui. Soltanto a quattro di essi tuttavia, Vico riconosce nell’ autobiografia la dignità dei suoi maestri ideali. Da Platone egli dichiara di aver appreso quale l’ uomo “dee essere”, cioò la convinzione che esista una natura ideale dell’ uomo, in base alla quale si possano conoscere metafisicamente il suo modo di pensare e di agire ( prefigurando così “storia ideale eterna” della Scienza nuova ). Tacito invece “contempla l’ uomo qual’ ò”, ossia considera la realtà umana nella fatticità degli impulsi e delle passioni (ispirando la considerazione della “storia delle nazioni” quale si realizza nella concretezza storica). Bacone, a sua volta, ha suggerito il metodo da seguire – Vico si ritiene a suo modo, erede del metodo empirico – indicando gli errori e i pregiudizi che si devono evitare (si vedrà tra poco la critica vichiana alla “boria” dei dotti e delle nazioni). Ugo Grozio, infine, ha giustamente difeso l’ esistenza di un diritto naturale condiviso da tutte le genti, tema sul quale Vico non si stanca di ritornare, rintracciandone tuttavia l’ origine non già nelle speculazioni razionalistiche dei filosofi, ma nel “senso comune” di cui tutti gli uomini dispongono. Ricostruendo la geografia ideale delle influenze subite da Vico, si potrebbe aggiungere in quinta posizione quella esercitata su di lui, anche se in chiave esclusivamente negativa, da Cartesio. Quando Vico si ristabilisce a Napoli dopo il soggiorno nel Cilento, vi trova un gran rivolgimento di cose letterarie: l’ ammirazione per ” Renato delle Carte ” aveva sostituito l’ emulazione dei letterati cinquecenteschi. Ma nell’ eremo di Vatolla egli aveva già maturato la sua avversione per il sistema cartesiano, giudicato debole nella strutturazione metafisica, pericoloso per la preferenza accordata alle matematiche sugli studi umanistici, obsoleto per la ripetizione di motivi filosofici risalenti all’ antichità . Così, rievocando nell’ autobiografia le discussioni sostenute con Doria sulla filosofia del francese, Vico poteva sostenere che ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgare trà platonici. La critica a Cartesio: Verum ipsum factum La prima posizione polemica di Vico nei confronti del razionalismo cartesiano ò contenuta nel De nostri temporis studiorum ratione. L’ orazione, che si proponeva di mettere a confronto l’ organizzazione degli studi – in questo senso va intesa la “ratio studiorum” del titolo – dei moderni con quella degli antichi, rimprovera alla “critica” moderna (cioò al metodo di Cartesio ) di non educare i giovani all’ eloquenza, privilegiando le attitudini logico-matematiche sull’ esercizio della fantasia e della memoria. Ma la nuova filosofia francese ò viziata da un errore ancora più grave: essa pretende che l’ uomo, attraverso l’ impianto logico- matematico della sua ragione, non si limiti a costruire una fisica intesa come interpretazione congetturale della natura, ma conosca il mondo naturale così come esso ò in realtà . Occorre invece distinguere nettamente tra ciò che ò opera dell’ uomo, e in quanto tale può essere pienamente conosciuto e dimostrato ( come la matematica ), e ciò che ò opera di Dio, e in quanto tale può essere solo contemplato senza giungere a conoscerlo dimostrativamente ( come la natura fisica ). Ma i nostri dotti affermano che la fisica, che essi insegnano con quel metodo (geometrico), e la natura stessa, e che, dovunque uno si volga a contemplare l’ universo, vede questa fisica (… ). In realtà queste cose di fisica, che si cerca di far passare come vere in forza del metodo geometrico, sono verosimili, e dalla geometria assumono il metodo, non la dimostrazione. Dimostriamo le cose geometriche perchò le facciamo; se potessimo dimostrare le fisiche, le faremmo. La nozione della corrispondenza tra ciò che ò vero e ciò che viene fatto dal soggetto che conosce ( verum et factum convertuntur ), già accennata in queste affermazioni della orazione settima, viene ripresa e sviluppata nel De antiquissima Italorum sapientia. L’ idea che la scienza sia conoscenza di cause ò ampiamente diffusa nella filosofia precedente a Vico: ma egli interpreta tale definizione – subendo probabilmente l’ influenza di Hobbes – nel senso che soggetto conoscente e causa agente debbono coincidere: si conosce solo ciò di cui si ò causa, ovvero si conosce solo ciò che si fa. Il mondo naturale, che non ò fatto dall’ uomo, ma creato da Dio, può essere conosciuto pienamente soltanto da Dio. L’ uomo invece conosce, in quanto fa, prima di tutto la matematica, poi le altre scienze astratte, nell’ ordine e nella misura della loro astrazione e artificialità : in altri termini esse sono tanto più conoscibili quanto più si allontanano dalla realtà naturale creata da Dio. L’ identità di vero e di fatto equivale alla negazione dei capisaldi della gnoseologia cartesiana. In primo luogo, infatti, essa implica una netta distinzione della scienza, che ò conoscenza diretta delle cause, dalla semplice coscienza di una cosa, che prescinde dalla conoscenza. Ma ciò significa rifiutare il principio cartesiano dell’ evidenza, la quale consiste appunto nel fatto che la verità si presenta immediatamente alla coscienza ( si ò visto a suo tempo come in Cartesio anche la deduzione sia riconducibile a una forma di intuizione ). Di conseguenza, a Vico appare impossibile porre a fondamento della metafisica il “cogito”: esso, come semplice atto di coscienza che ò sede dell’ evidenza, non ò causa della realtà metafisica che pretende di conoscere. Il “cogito” non ò, come credeva Cartesio, la verità fondamentale (il “primo vero”) da cui possono essere derivati tutti gli altri contenuti conoscitivi (gli altri “veri”). Il “primo vero” autentico ò Dio, in cui esistono le “forme” o i generi di tutte le cose che egli conosce, creandole. L’ uomo dunque conosce veramente – in senso analogo a Dio – solo quando ò egli stesso fautore di ciò che conosce ( come nella matematica ). Negli altri casi la conoscenza non ò un vero intelligere (“intus-legere”: leggere dentro, penetrare), ma un semplice cogitare ( che Vico fa derivare da “co-agere”, raccogliere, mettere insieme elementi ): di tal genere ò appunto la conoscenza cartesiana che procede per semplice enumerazione (e collazione) di idee, anzichò pervenire alle cause delle cose. Si può conoscere veramente solo ciò che si è fatto ( verum ipsum factum ). La nuova scienza proposta da Vico è non la fisica imperante nel seicento, ma la storia, di cui l’uomo è artefice: proprio il mondo della storia, cioò il mondo che appariva per sua natura agli studiosi estraneo al rigore e alla dignità delle scienze, perchò soggetto all’empirico dominio delle forze del caso (oppure predestinato ab aeterno, e soggetto a una forza che trascende del tutto i disegni dell’uomo) appare a Vico come l’unico possibile e degno di studio per l’uomo, l’unico che viene effettivamente realizzato dall’uomo stesso: se verum scire est scire per causas, come può l’uomo conoscere le cause del mondo fisico? Potrà solo conoscere le cause di ciò che fa, la storia. Se la conoscenza è possibile soltanto di ciò che si conosce nel suo divenire, nel suo farsi; se la consapevolezza conoscitiva può derivare solo dalla conoscenza dei modi per cui un fatto, un fenomeno si manifesta a noi, se solo la conoscenza del farsi si identifica con il vero (verum et factum convertuntur); è possibile pervenire ad una tale conoscenza non della natura (che non è opera umana), ma solo del mondo della storia, il quale è stato fatto dagli uomini, e si svolge perciò secondo le leggi universali ed eterne che presiedono allo svolgimento dello spirito umano. Solo un’altra scienza è per gli uomini raggiungibile, la matematica, ma essa è troppo astratta e sganciata dalla realtà . La scienza nuova In seguito alla lettura di Ugo Grozio – che ò cronologicamente l’ ultimo dei suoi quattro “autori” – Vico concentra i propri interessi su quello che egli chiama il “mondo civile”: l’ambito dei costumi, del diritto e della politica, considerati nella concretezza delle loro realizzazioni e trasformazioni, cioò nell’ elemento della storia. La storia ò infatti, la scienza nuova che dà il titolo al capolavoro vichiano, il cui assunto fondamentale consiste nell’ estendere ad essa il principio del verum ipsum factum, che nei lavori precedenti era primariamente applicato alla matematica: a differenza del mondo naturale, che ò creato da Dio e da Dio soltanto può essere pienamente conosciuto, il “mondo civile” ò opera dell’ uomo e può essere oggetto di un vero e proprio sapere scientifico. In questo modo Vico interrompeva una lunga tradizione – che proveniva da Aristotele, ma era stata recentemente confermata da Cartesio e dal cosiddetto “pirronismo (cioò scetticismo ) storico” – secondo la quale della storia non si dà scienza. Nello stesso tempo egli anticipava quell’ interesse per i princìpi e il significato generali dello sviluppo storico che sarebbe stato alla base delle numerose “filosofie della storia” (come si disse poi) germinate, a partire dalla metà del Settecento, sul terreno dell’ illuminismo e del romanticismo. La scienza storica ò resa possibile dal concorso di due discipline, le quali riflettono la duplicità del suo scopo. In primo luogo, la storia deve accertare i fatti, distinguendo criticamente ciò che ò veramente accaduto da ciò che ò privo di fondamento. In ciò soccorre la filologia, intesa da Vico in senso molto lato come l’ insieme delle discipline aventi una funzione documentaria mediante l’ analisi critica delle testimonianze del passato: la filologia ò la scienza del certo. In secondo luogo, la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti già filologicamente accertati. Perciò essa ha bisogno della filosofia, che ò la scienza del vero, delle cause che possono spiegare gli avvenimenti. Affinchò la storia raggiunga il suo scopo, il certo e il vero devono convergere mediante una stretta collaborazione tra filologia e filosofia; e gli insufficienti risultati conseguiti nel passato della storia come scienza sono imputati da Vico al fatto che i filosofi non accertarono le loro ragioni con l’ autorità de’ filologi, così come i filologi non curarono d’ avverare le loro autorità con le ragioni dei filosofi ( Degnità X ). Lungi dal limitarsi ad accertare filologicamente i fatti, la storia deve “inverare” filosoficamente il certo, spiegandone la natura. In che cosa quest’ ultima consista ò detto chiaramente nella Degnità XIV: Natura di cose altro non ò che nascimento di esse in certi tempi con certe guise, le quali sempre sono tali, indi tali e non altre nascon le cose. Per conoscere la natura delle cose occorre dunque conoscere la loro genesi, i modi e le forme ( le “guise” ) in cui sono nate, la causa che le ha prodotte. E poichò, come si ò visto, il “mondo civile” ò fatto di uomini, per conoscere e spiegare i fatti storici occorre fare riferimento al modo in cui essi sono nati nella mente degli uomini, prima ancora che nella concretezza della realtà . La storia si configura dunque come una metafisica della mente umana, un’ analisi dello sviluppo dell’ attività spirituale dell’ uomo, inteso sia come singolo sia come specie. Il primo compito di chi coltiva la “scienza nuova” ò dunque quello di ricostruire una lingua che preceda la formazione di tutti i linguaggi storici, una lingua mentale comune a tutte le nazioni, sulla base della quale si può comporre un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi (Degnità XXII). Questa sintassi e questo lessico mentali costituiscono la struttura fondamentale della vita psichica dell’ uomo in quanto tale, e presiedono allo sviluppo graduale dei suoi sentimenti, delle sue fantasie e dei suoi pensieri. Indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono, gli uomini hanno pertanto alcune modalità comuni di sentire e di pensare (e quindi di agire) a seconda del grado di sviluppo storico in cui si trovano. Ed ò nella scoperta di queste comunanze che la storia rivela le proprie verità . Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero (Degnità XIII). In virtù di questo criterio, Vico dimostra l’ esistenza di un diritto naturale riconosciuto da tutte le nazioni, così come quella di tre usanze ( la religione, i matrimoni solenni, la sepoltura dei morti ) presenti presso tutti i popoli – quasi tre “sensi comuni” del genere umano – tanto da poter valere come princìpi generali della “scienza nuova”. Questo modello evolutivo della mente umana ( e di conseguenza della storia ) ò la storia ideale eterna, la quale – in analogia alle “idee” di Platone, che ò uno degli autori di Vico -informa di sè le molteplici storie reali dei singoli popoli: sopra di essa corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ lor sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini”. La nascita, lo sviluppo, la maturità , il declino e la scomparsa dei popoli non sono quindi accidentali, ma obbediscono a un disegno, il quale a sua volta si radica nella “metafisica della mente umana”, nelle “modificazioni” necessariamente subite nel suo sviluppo dall’ attività spirituale dell’ umanità . Il modello della storia ideale eterna libera così la ricerca storica da due pregiudizi che l’ hanno tradizionalmente viziata. Da un lato, ciascun popolo ha la tendenza a rivendicare a se stesso la scoperta delle conoscenze o dei ritrovati che stanno alla base della storia umana ( boria delle nazioni ): ma tale presunzione ò priva di fondamento, poichò tutte le nazioni nel loro sviluppo seguono un ordine che, essendo quello della mente dell’ uomo in generale, vale nello stesso modo per tutti i popoli. D’ altro lato gli uomini di studio tendono a ritenere che la loro scienza sia antica quanto il mondo e sia già stata posseduta, nascosta da una forma misterica, dai più antichi sapienti dell’ umanità ( boria dei dotti ). Ma anche questo presupposto ò errato perchò lo sviluppo mentale dell’ umanità si volge secondo una successione di fasi naturali: ò quindi impossibile attribuire alla mentalità degli antichi forme di spiritualità proprie soltanto dei gradi più evoluti del pensiero. La storia ideale eterna non ò tuttavia l’ unico criterio della ricerca storica. Oltre che dal punto di vista ( platonico ) del modello ideale che la informa, la storia deve essere considerata, secondo quanto ha insegnato Tacito, come la sede delle passioni e degli egoismi umani. Ma anche in questo caso il corso storico obbedisce a un disegno, poichò, considerate nel loro complesso, tali passioni sortiscono un effetto molto diverso da quello voluto dagli uomini. Per esempio, dall’ impulso sessuale, che di per sè mira solo alla soddisfazione fisica, nacque l’ istituto della famiglia; così come dall’ ambizione e dal desiderio di dominio sorsero le città e lo Stato. Ma soltanto Dio può assegnare alle azioni individuali una finalità che va al di là delle intenzioni di chi le compie, inserendosi in un disegno generale. La storia ò dunque retta dalla provvidenza divina, la quale ò insieme un “fatto storico”, accertabile appunto mediante la constatazione fattuale dell’ esito preterintenzionale delle azioni degli uomini, e un criterio direttivo della ricerca, poichò soltanto attraverso il presupposto di tale “eterogenesi dei fini” (come si dirà successivamente) ò possibile orientarsi nella ricostruzione storica. Oltre che una “storia d’ umane idee”, la scienza nuova ò quindi anche una “teologia civile ragionata della provvidenza divina”: teologia, in quanto scienza di Dio e della sua provvidenza; civile in quanto il “mondo civile” ò l’ ambito in cui si studiano gli effetti dell’ intervento divino; ragionata, perchò la provvidenza non opera misteriosamente – come nella tradizionale concezione cristiana – ma attraverso i “naturali costumi umani”, in modo da essere trasparente alla ragione dell’ uomo. Agendo soltanto attraverso la natura umana, e non al di fuori di essa, la provvidenza non entra in contraddizione con il princìpio della storia ideale eterna: al contrario i due criteri si integrano a vicenda, cosicchò il corso storico apparte essere insieme opera dell’ uomo ( come storia dello sviluppo mentale umano ) e opera di Dio ( come risultato della provvidenza ). Il principio del Verum ipsumipsum factum assume quindi nella Scienza nuova un significato un po’ diverso da quello rivestito nel De antiquissima. Nella dissertazione del 1710 esso veniva applicato principalmente alla matematica ed era pertanto concepito come una forma di conoscenza che, attraverso il procedimento artificiale dell’ astrazione, produceva dal nulla l’ oggetto del proprio sapere ( in analogia con quanto era già stato sostenuto da Hobbes ). Nel capolavoro del 1730 l’ identità tra vero fatto, ora estesa alla storia, riceve un fondamento ontologico e teologico: ciò che si conosce ( e si fa ) non ò fatto arbitrariamente, perchò la struttura mentale che lo condiziona ò a sua volta condizionata dall’ azione provvidenziale di Dio. Come Vico aveva sostenuto nella scienza nuova prima, la provvidenza ò l’ “architetta” della storia, mentre l’ arbitro umano ò soltanto il “fabbro” che a quell’ architetta obbedisce. Ciò chiarisce in che senso Vico, progettando la “scienza nuova”, intenda fondare la storia sulla metafisica. In primo luogo, ciò significa per lui l’ introduzione di un nuovo significato della metafisica, estesa dal piano dell’ ontologia a quello della gnoseologia: la metafisica non si riferisce soltanto alla determinazione della natura dell’ essere e della realtà in generale, ma riguarda primariamente la configurazione della “mente umana”, dell’ apparato cognitivo specifico dell’ uomo, considerato tanto nelle sue manifestazioni razionali quanto in quelle prelogiche. Nello stesso tempo, il rinvio alla dimensione teologica conserva il carattere “oggettivo” della metafisica e conferisce alla storia un fondamento assoluto che esclude ogni pericolo di relativismo e di soggettivismo. Le tre età Gli uomini prima sentono senz’ avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. La Degnità LIII illustra i tre momenti dello sviluppo ideale della “metafisica della mente umana”, ai quali corrispondono altrettante facoltà conoscitive. Nell’ infanzia dell’ umanità ( come in quella dell’ individuo ) prevale il senso, che comporta una conoscenza ancora oscura e confusa del proprio oggetto. Nella giovinezza predomina invece la fantasia: in essa la chiarezza della rappresentazione ò accompagnata da un intenso stato emotivo che, se corrobora l’ efficacia dell’ immagine, ne limita però l’ oggettività . Nella maturità , infine, gli uomini pervengono alla ragione, che consente una riflessione serena, libera dalle oscurità del senso e dall’ emotività della fantasia. A queste facoltà Vico fa corrispondere tre età , anch’ esse ideali, dello sviluppo storico. Ciò non significa che in ciascuna età operi una sola facoltà con esclusione delle altre due, ma soltanto che in essa una delle tre facoltà , come s’ ò detto, prevale sulle altre, le quali rimangono tuttavia presenti. L’ età degli dei, che corrisponde al senso, rappresenta la fase primitiva della storia umana. Vico respinge le contemporanee rappresentazioni dello stato di natura come età dell’ oro e dell’ innocenza, e dipinge i primi uomini come stupidi, insensati ed orribili bestioni, nei quali la limitatezza della della vita spirituale viene compensata dalla forza fisica e dalle gigantesche dimensioni. Alcuni di questi giganti, tuttavia, raggiungono un livello spiriruale sufficiente a provare una storia di meraviglia metafisica di fronte agli eventi della natura: privi di raziocinio, ma forniti di una robusta sensibilità , essi identificano le forze naturali con le divinità , a loro volta immaginate a somiglianza dell’ uomo. Poichò tutta la realtà viene così “sentita” come divina ( di quì il nome dato da Vico a quest’ età ), la religione costituisce il primo passo dei giganti verso la civiltà . Nel contempo essa diventa principio di altre due conquiste. In primo luogo, i giganti, temendo l’ ira degli dei, abbandonano il costume animalesco di accoppiarsi a caso e danno luogo a matrimoni solenni, nucleo dell’ istituto della famiglia e segno della moralità incipiente. In secondo luogo, essi cominciano a seppellire i loro morti e a considerare sacri i recinti in cui sono avvenute le sepolture ( nascono i cimiteri ). Nell’ età degli dei sono quindi già presenti i tre principi che Vico ritiene essere comuni a tutti gli uomini, allorchò essi cominciano ad avere un’ attività spirituale. Per quanto riguarda l’ organizzazione politico sociale, i primi uomini non conoscono vere e proprie istituzioni in forma patriarcale, nei quali il padre di famiglia ò anche re, avendo timore soltanto della divinità , detiene il potere assoluto su tutti gli altri membri. La facoltà della fantasia, invece, prevale nell’ età degli eroi, che è rappresntata dalla Grecia omerica e dalla Roma dei re. La continuità con l’ età degli dei è dimostrata dal fatto che gli eroi, i grandi uomini che dominano questo periodo ( Achille, Teseo, Romolo ), pretendono di discendere da divinità . In quest’ età sorgono le prime istituzioni politiche: infatti gli eroi, a cui risale anche la costruzione delle prime città , accolgono in esse in qualità di famoli, ossia servi, quegli uomini – giganti che, rimasti ancora nello stato di natura originario, cercavano riparo dalle violenze dei loro simili. Alla lunga tuttavia i famoli si ammutinano contro il potere dei forti che li dominano, costringendo questi ultimi a organizzarsi in veri e propri Stati aristocratici, dal momento che ciascun padre-re del precedente regime patriarcale entra a far parte della nuova classe dirigente. Si configura così negli Stati la distinzione tra due ceti fondamentali: da un lato i patrizi, che tendono per inclinazione naturale a conservare inalterata l’ organizzazione dello Stato, e i pebei, che mirano invece continuamente a sommuoverla per migliorare la loro condizione. Nonostante le concessioni da parte dei patrizi ai plebei volte ad una migliore dominazione ( leggi agrarie ), la tensione tra i due gruppi sociali rimane costante, fino a portare al progressivo riconoscimento dell’ eguaglianza di tutti i cittadini. Con la rivendicazione dell’ eguaglianza di natura tra gli individui ( strettamente legata al riconoscimento della loro comune ragione ) si entra nell’ età degli uomini, a cui corrispondono come realizzazioni storiche la Grecia classica, la Roma repubblicana e la civiltà moderna. In quest’ età le repubbliche si trasformano da aristocratiche in popolari, nelle quali le distinzioni sociali e politiche non sono più affidate all’ ascendenza nobiliare o plebea, ma al censo, ovvero alla ricchezza e all’ operosità dei cittadini. L’ età degli uomini è la fase in cui la ragione trova il suo più vasto campo di applicazione: solo in essa può quindi nascere la filosofia, cioò una metafisica che non sia più semplicemente sentita o fantasticata, ma sia affidata alla riflessione della mente pura. Anche la filosofia comunque rientra nell’ ambito del mondo civile dato che essa ha tra i suoi compiti ( come traspare dalla filosofia di Platone, che è una delle più esemplari realizzazioni dell’ età degli uomini ) la ricerca di un principio di giustizia comune a tutti ( la giustizia in sò, per dirla con Platone ). Lo schema triadico che segna le fasi della storia secondo Vico non è irreversibile. A causa dello scetticismo, dell’ anarchia e del lusso sfrenato, gli stati dell’ età degli uomini possono avviarsi a un’ inesorabile decadenza, che li fa ripiombare all’ inizio del ciclo mentale dell’ umanità . Un esempio classico di questa barbarie ritornata è il Medioevo, nel quale Vico vede la perdita totale di quei valori storici che erano stati realizzati dalla classicità greco-romana. Naturalmente, questo comporta anche il ritorno, con rinnovata vigoria, di quel senso e quella fantasia che si erano illanguiditi nell’ età razionale degli uomini: il Medioevo è anche l’ età di Dante. Vico chiama ricorso questo ritorno del corso, appunto, della storia alle sue origini ideali ( non cronologiche, ma psico- gnoseologiche ). La teoria vichiana dei corsi e dei ricorsi presenta quindi parecchie analogie con le interpretazioni cicliche del processo storico elaborate nell’ antichità specialmente dagli stoici: ma di esse Vico non condivide affatto il carattere necessario e ripetitivo. Il ricorso storico, la ricaduta alle origini, è soltanto una possibilità , che deriva dal fatto che la successione delle tre età non ha un carattere necessario o definitivo, ma riflette la tendenza ideale dell’ umanità a seguire lo sviluppo di quella che è la sua intrinseca struttura mentale. La sapienza poetica Le linee di distinzione tra le tre età non sono da Vico segnate tutte con la stessa decisione. Più marcatamente distinta dalle età degli dei e degli eroi appare l’ età degli uomini, poichò la fantasia ò tanto più robusta quanto più debole ò il raziocinio ( Degnità XXXVI ), e quindi la fase più razionale dello sviluppo umano deriva la sua forza, per così dire, dalla debolezza delle fasi in cui predominano senso e fantasia. Assai prossime appaiono invece le prime due età , nelle quali le facoltà prevalenti non solo non si oppongono, ma si completano vicendevolmente: la fantasia si fonda necessariamente sui sensi e i sensi trovano nella fantasia la loro più naturale espansione. Infatti, l’ età degli dei e quella degli eroi ( ovvero la facoltà del senso e della fantasia ) hanno in comune l’ elemento della poesia, intesa etimologicamente – secondo un’ accezione che avrà molta fortuna nel romanticismo – come fare, creare ( dal greco poieìn ). I primi poeti, i “poeti teologi” che immaginano Giove e le altre divinità , sono veri “creatori” di realtà . Attraverso la poesia i popoli primitivi ed eroici hanno creato idee, costumi, comportamenti e quindi in generale, una realtà che prima non esisteva. Da qui deriva la grande importanza attribuita da Vico alla sapienza poetica, che costituisce anche uno degli elementi più originali della sua trattazione. La sapienza poetica degli antichi, infatti, non ò priva di verità : “vero poetico” e “vero metafisico” coincidono. I contenuti della sapienza poetica non sono diversi da quelli della sapienza razionale. Ma ciò non significa, come sostenevano i razionalisti seicenteschi, che essa fosse “sapienza riposta”, e ciò cioò un sapere già conosciuto consapevolmente in forma razionale, ma intenzionalmente velato da un’ espressione misterico-allegorica, della quale deve venire spogliato per essere restituito alla sua purezza concettuale. Al contrario, le immagini fantastiche in cui si esprime la sapienza degli antichi sono necessaria espressione del loro modo di sentire e di pensare, e fanno tutt’ uno con esso. Con il che Vico non fa altro che affermare il valore autonomo della poesia nei confronti del pensiero logico-razionale. Di conseguenza, gli strumenti di cui si avvale il sapere poetico sono assai differenti da quelli della conoscenza razionale. Se quest’ ultima opera mediante i concetti astratti dell’ intelletto, la poesia costituisce invece universali fantastici (o “generi fantastici”), nei quali una particolare immagine del senso e della fantasia esprime un contenuto conoscitivo a carattere generale (analogo a quello che nel sapere razionale ò il concetto): così, nella cultura omerica, Achille ò la rappresentazione del coraggio, Ulisse quella della prudenza. Tenendo conto che la sapienza poetica, come si ò detto, ha sempre un contenuto di verità , anche l’ universale fantastico non ò mera fantasia, ma ò una realtà ( ancorchò fantastica ) superiore alla stessa resaltà fisica: Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che il vero capitano di guerra, per esemplo, ò l’ Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra ( Degnità XLVII ). La concezione vichiana della poesia si riflette su quella del linguaggio. Come gli uomini hanno cominciato a pensare per universali fantastici e non per concetti, essi hanno iniziato a parlare in poesia, e non in prosa. Il linguaggio cantato precede quindi quello parlato, come si evince anche filologicamente dal fatto che le prime testimonianze letterarie dei popoli antichi sono poemi e non opere in prosa. Dal che consegue anche, per Vico, l’ infondatezza della tesi che sostiene l’ origine convenzionale e arbitraria del linguaggio. Le lingue hanno un’ origine naturale, poichò sono la traduzione fonica delle immagini poetiche che i popoli hanno sviluppato nell’ antichità in accordo con il loro grado di sviluppo mentale e storico. Soltanto nella terza età – degli uomini e della ragione – sopravviene la componente convenzionale del linguaggio. In piena armonia con questi presupposti teorici ò la dottrina della discoverta del vero Omero, che Vico considera uno dei maggiori risultati – sul piano filologoco e filosofico – della sua ricerca, tanto da dedicarvi un intero libro della Scienza nuova. La tesi vichiana – oggi non più accolta, ma di estrema importanza storica per lo sviluppo della “questione omerica” – ò che Omero non sia nò un poeta singolo, nò un cantore immaginario, ma il popolo greco nel suo insieme. In altri termini, Omero ò una realtà storica non in quanto persona fisica, ma perchò rappresenta il “carattere eroico” unitario in cui si sono riconosciuti i diversi rapsodi che in Grecia andavano cantando le epopee popolari dell’ Iliade e dell’ Odissea. Anticipando teorie che saranno riprese nel 1800 dai Romantici, il filosofo napoletano afferma che la poesia omerica non può considerarsi il prodotto di un solo autore, ma di tutto il popolo greco nel suo ” tempo favoloso “, l’ ordito collettivo di intere generazioni di cantori popolari che si celebrarono dietro il simbolico nome di Omero. Infine, il linguaggio per Vico non è un prodotto dell’intelletto umano, ma un’operazione della fantasia, il frutto di quel momento in cui l’uomo avverte le cose con animo perturbato e commosso. Esso è scaturito a guisa di canto dalla commozione degli uomini primitivi; è sorto tra gli uomini come opera poetica, come espressione emotivo-fantastica. E’ questa una delle concezioni più audaci di Vico, una concezione che fa del linguaggio un atto del tutto creativo, quell’atto che si ripete ancor oggi ogni volta nelle pagine degli scrittori, quando essi usano sì le parole consuete, ma per ciò stesso che le usano le rinnovano del tutto, piegandole alle loro diverse esigenze, alla visione nuova che essi propongono delle cose e degli uomini.
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- Filosofia - 1600