Profondamente legato alla cosiddetta “scuola di Chartres” – di cui fu peraltro il più insigne esponente -, insieme con Teodorico di Chartres, Gugliemo di Conches e Ivo di Chartres, Gilberto di Poitiers (1076-1154), noto anche come “de la Porrèe” o “Porretanus” (Porretano), studiò a Poitiers, quindi a Chartres con Bernardo e a Laon. Insegnò a Chartres, ove fu reggente dal 1126 al 1137; nel 1142 divenne vescovo di Poitiers e morì nel 1154. Gilberto scrisse diversi commenti ai Salmi, a s. Paolo e agli opuscoli teologici di Boezio: compose parecchi Commentaria alle opere teologiche di Boezio stesso e un De sex principiis, che però ò di dubbia attribuzione. Egli opera una saldatura tra logica, fisica (quale era quella elaborata a Chartres) e teologia, sulle orme di Boezio stesso. Una tecnica da lui impiegata con assiduità ò quella della quaestio. Una “questione” consta di una affermazione e della negazione contraddittoria di essa; in tal senso la questione rientra, dunque, nel genere delle contraddizioni, ma non ogni contraddizione, secondo Gilberto, ò una quaestio: non si ha una questione vera e propria, per esempio, quando una delle due parti (chi afferma o chi nega) non sembra avere argomenti a favore della verità della propria tesi o quando nessuna delle due parti può averli. Una quaestio, invece si determina quando entrambe le parti sembrano avere argomenti a sostegno della propria tesi: quaestio, dunque, non significa soltanto domanda, essa ò, piuttosto una tecnica coscientemente e metodicamente applicata. Spesso la contraddizione può essere sciolta mostrando che uno stesso termine ò usato in modo diverso oppure che nel sostenere una tesi si fa ricorso ad argomentazioni di genere diverso; per esempio si cade necessariamente in errore se si pretende di applicare al Creatore argomenti adatti alle creature. Nei suoi commenti a Boezio, Gilberto distingue tra ciò che egli chiama “quod est” (letteralmente “ciò che e”), l’individuo esistente, e il “quo est” (letteralmente “ciò in virtù di cui esso ò”), ossia i princìpi dalla cui composizione esso (“ciò che ò”) risulta. Questa distinzione si applica ad insiemi concreti, ai loro accidenti e alle loro parti: per esempio, rientrano nel quod est questo uomo, questo braccio, questo bianco e nel quo est umanità , corporeità , bianchezza. Nè il quod est, nè il quo est possono esistere o essere concepiti isolatamente, ma vanno sempre e comunque integrati; peraltro, la distinzione tra quod est e quo est non corrisponde neppure a quella tra particolare e universale. Anche il quo est infatti ò singolare e fonda la singolarità degli individui: la bianchezza di questo cavallo bianco non ò la stessa cosa della bianchezza di questo cane bianco, e così via. Tra le due forme intercorre dunque una relazione reciproca, tale per cui la corporeità non ò nulla in atto a meno che non sia un corpo singolo e un corpo non ò uno se in esso non vi ò corporeità . Nella realtà , dunque, essi non possono sussistere separatamente l’un dall’altro. Il che significa che l’essere di ogni cosa sussistente ò complesso e può essere analizzato – cioò scomposto concettualmente nelle sue componenti: per esempio, a proposito di un uomo, si tratta della sostanza per cui egli ò un uomo, qualsiasi genere e differenza si possano predicare di esso (come avere un corpo e un’anima) e qualsiasi accidente sia presente nella sua interezza o in singole parti di esso. Dio, invece, in quanto ò semplice, non ò una composizione e pertanto non ò propriamente comprensibile da parte dell’uomo: in Lui, infatti, non sono distinguibili un quod est e un quo est, non vi ò cioò una sostanza “divinità ” per cui Dio ò ciò che ò. Del resto, si può parlare di “essere” delle cose create solamente per analogia, in quanto la loro esistenza non deriva dalla loro essenza, bensì da Dio: solo di Dio, infatti, si può propriamente asserire che ò. Le tesi teologiche di Gilberto, innovative e acute al tempo stesso, non tardarono a destare i sospetti di quel san Bernardo che tanto si accanì contro Abelardo: per tal motivo Gilberto dovette difendere le proprie posizioni nel Concilio di Reims del 1148. Accanto agli spinosi problemi teologici – che troppo spesso finivano per costare cari a chi se ne occupava -, Gilberto Porretano si occupò anche di uno dei problemi più senti e arrovellanti dell’età medioevale: quello degli universali e della loro natura. Gilberto seppe fondere con perizia il problema degli universali, ormai parte integrante della filosofia scolastica, col problema della natura; a fondamento della sua ricerca c’ò la dichiarazione di una relativa autonomia della ragione (che precede la fede nello studio della natura) dalla fede (che precede la ragione nel campo della teologia). “Penso che nella teologia l’indagine debba incominciare dagli stessi fondamenti della fede cattolica. Nelle altre discipline la ragione non segue la fede, ma la fede segue la ragione”. (“In librum de predicatone trium personarum”) In quanto al problema degli universali, Gilberto, distinguendo l’essere e il sussistere dall’esistere, sostiene che solo gli individui esistono, mentre i generi e le specie sono, ma non esistono. “Gli universali che l’intelletto astrae dai particolari sono, perchè si dice che sono quello per cui i particolari sono un qualche cosa di determinato. Ma i particolari non solo sono ciò che comunque sono per il loro essere, ma esistono anche, perchè sono il soggetto degli accidenti che aderiscono agli universali… Sussiste ciò che non ha bisogno degli accidenti per poter essere. Pertanto i generi e le specie sussistono solo, non esistono”. (“In De duabus naturis”, 1374 D) Ora, se gli universali sono ma non esistono, ciò non significa che, in quanto prodotti del discorso e oggetti dell’intelligenza umana, essi siano un prodotto arbitrario e soggettivo. L’originalità del Porretano ò appunto nel chiarire il problema degli universali in termini di filosofia della natura: gli universali, che egli chiama aristotelicamente “forme”, sono appunto le espressioni di un’unica forza naturale, le quali da un lato rendono possibile la generazione di tutti gli individui, dall’altro rendono possibile quelle generalizzazioni concettuali dell’uomo che costituiscono appunto il campo della sua conoscenza.
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