Vita e filosofia di Helvetius - Studentville

Vita e filosofia di Helvetius

Vita e pensiero del filosofo Helvetius.

Vita e opere Claude-Adrien Helvètius, (Parigi 1715-1771) filosofo francese, figlio del medico della regina Maria Lesczynska frequenta il collegio dei gesuiti Louis- le-Grand. Nel 1738 ottiene un posto di appaltatore delle imposte regie che gli frutta una rendita considerevole; ciò non gli impedisce di frequentare gli “spiriti illuminati” dell’epoca: a Cirey da Mme Emilie de Chà¢telet e dal suo ospite Voltaire, a Montbard da Buffon, a La Bròde da Montesquieu; ò in amicizia con l’ormai vecchissimo Fontenelle, col grammatico Du Marsais, con Maby, forse anche con Morelly (teorico di posizioni comunistiche) e col giovane Condillac; un po’ più tardi conosce d’Alembert e Diderot, e poi Holbach, Rousseau, Turgot, Quesnay; si forma in pratica alla scuola degli illuministi francesi assertori del “sensismo”; scrive una tragedia per il teatro andata perduta. Nel 1751 si dimette dalla carica di appaltatore delle imposte, conservando quella di “maà®tre d’hà´tel” della regina Maria Lesczynska; si sposa con Anne-Caterine de Ligneville, una giovane e colta nobile in difficoltà  finanziarie, ed acquista due tenute: una a Lumigny ed una a Vorè ove passa gran parte dell’anno; i mesi restanti li trascorre a Parigi in rue Sainte-Anne; i suoi ospiti abituali sono Saurin, Fontenelle, Duclos, Chastellux, Raynal, Marmontel, Saint-Lambert, e a volte Diderot e Rousseau; il giovedì si reca nel salotto di Holbach. Durante la “querelle des bouffons” parteggia con gli enciclopedisti per la musica italiana; durante i lunghi soggiorni in campagna cura le sue terre e, anche per l’interessamento della moglie, cerca di trovare nuove occasioni di lavoro per il crescente numero di piccoli proprietari in rovina e di braccianti disoccupati; dopo un primo sfortunato tentativo di istituire una fabbrica di merletti, riesce ad impiantare con un certo successo una manifattura per la tessitura di calze, fallisce invece più tardi nell’intento di sfruttare industrialmente il legname e i giacimenti di minerali ferrosi abbondanti nella regione dell’Orne e nella stessa sua tenuta di Vorè. Nel 1755 muoiono Montesquieu e il padre di Helvètius che si dedica ormai completamente alla filosofia Nel 1757, con la scomparsa di Fontenelle si rescinde l’ultimo filo che ancora collega i “philosophes “col “grand siòcle”. Nel 1758 esce “L’Esprit” (“Dello Spirito”; opera ferocemente attaccata dalle autorità  civili ed ecclesiastiche per le idee sovversive ed eretiche che contiene): “Mandement de Mgr. l’Archevàªque de Paris, portant condamnation d’un livre qui a pour titre “De l’esprit”” (Paris 1758, dispositivo della condanna di Christophe de Beaumont, lo stesso che nel 1762 condannerà  l’Emile di Rousseau). “Mandement de Monseigneur l’à‰vàªque de Soissons…” (Soissons & Paris 1759). “Dell’uomo” (postuma 1772). “Le bonheur” (postumo, poema scritto prima del 1751). “Oeuvres complòtes d’Helvètius” (Paris 1795, in 14 voll., a cura del suo amico ed esecutore testamentario l’abate Pierre Louis Lefebvre de la Roche). “Helvetius, sa vie et son oeuvre. D’apròs ses ouvrages, des ècrits divers et des documents inèdits” (Parigi 1907, monografia di Albert Keim che si assunse il compito di “riabilitare”, di fronte alla cultura filosofica francese, il pensiero di Helvètius che solitamente veniva “sbrigato” con poche battute dalla storiografia letteraria – tipici in tal senso Demongeot e il Lanson – e dalle storie del pensiero politico-morale e filosofico in genere – salvo rare eccezioni: come il “Socialisme au XVIIIe siòcle” di A. Lichtenberger e “Les moralistes franà§ais au XVIIIe siòcle” di J. Barni). “Helvètius. A Study in Persecution” (Oxford 1965, di D. W. Smith). Il pensiero Claude-Andrien Helvetius, appartenente alla corrente dei cosiddetti filosofi “materialisti”, e si fa portavoce di un materialismo appena più dissimulato rispetto a quello di La Mettrie; nella sua celebre opera “Sullo spirito” (1758) (che suscitò reazioni durissime da parte della cultura tradizionalista, fino a causare la sospensione temporanea dell’ “Enciclopedia”, del cui ambiente Helvètius era frequentatore) egli dà  un fondamento gnoseologico al proprio materialismo: sostenendo una dottrina della conoscenza di tipo sensistico (analoga a quella elaborata da Condillac), egli ò del parere che tutte le idee provengano da due facoltà : la sensibilità , con cui noi possiamo ricevere le impressioni degli oggetti esterni, e la memoria, grazie alla quale conserviamo nello spirito la sensazione ricevuta. A differenza di Condillac, tuttavia, Helvètius sostiene che tale interpretazione sensistica della conoscenza escluda la possibilità  di un’anima immateriale, e pertanto risolve, sia pure con qualche cautela dettata dall’autocensura, ogni attività  dello spirito nella materia. Sulla base del proprio sensismo materialistico, Helvètius formula anche una morale di tipo utilitaristico, nella quale il riconoscimento dei moventi puramente dell’azione umana (il piacere e l’interesse) ò congiunto al tentativo di trovare norme di comportamento massimamente generalizzabili. A tale scopo egli introduce appunto il criterio dell’utilità , il cui valore cresce in rapporto diretto il grado di generalità  conseguito, che va dall’interesse individuale a quello dei gruppi particolari, dei popoli e così via, fino a comprendere l’universo intero. In sintonia con la tradizione libertina, che rimane sempre sullo sfondo, il materialismo francese si propone come una filosofia volta non già  alla demolizione, quanto al consolidamento della morale, anche se quest’ultima non trova più il suo fondamento in Dio o nei valori spirituali, ma esclusivamente nella stessa costituzione materiale dell’uomo. Helvètius riconduce tutte le facoltà  dell’anima alla sensazione. Il suo contributo risiede soprattutto nel fatto di mettere in rapporto l’esprit con le condizioni sociali e culturali, stabilendo uno stretto rapporto fra l’educazione, intesa come l’influenza dell’ambiente, e il morale, termine che indica gli aspetti psichici in generale. Il tratto che fa di Helvètius uno degli anticipatori della scienza dell’uomo ò proprio quello della correlazione che egli stabilisce fra l’uomo e la società . Riconducendo l’anima alla sensazione e mettendo in rapporto l’ambiente e le strutture sociali, arriva ad una sintesi formulando un’interazione tra le condizioni in cui vive l’individuo e le convinzioni e i valori etici. Attraverso il meccanismo dell’associazione, dalle sensazioni arriva qualsiasi tipo di idea; allo stesso modo, dalla percezione di piacere o di dolore deriva ogni motivazione del comportamento. La formazione del pensiero non dipende solamente dalle esperienze dell’uomo, ma anche dalla propria struttura fisica e dalle facoltà  che essa gli permette. Tutte le cose, in quanto conosciute, vengono tradotte in sensazioni o immagini; le idee quindi non sono nient’altro che le associazioni di queste sensazioni. Di conseguenza lo spirito ò l’insieme delle conoscenze acquisite mediante l’esperienza. Da queste premesse derivano due importanti conseguenze: 1- la conoscenza umana non può mai andare oltre ciò che ò oggetto di sensazione; 2- l’intelligenza o la capacità  di riflessione sono pienamente riconducibili alla quantità  e alla qualità  delle esperienze sensoriali, cioò ai rapporti con l’ambiente. Anche il giudizio, considerato tradizionalmente il fondamento di ogni conoscenza, ò ricondotto alla sensazione. Un giudizio ò, per Helvètius, un’immagine mentale, nella quale sono collegate sensazioni diverse. Anche la morale, così come la conoscenza, deriva interamente dall’esperienza, tramite un processo ben preciso: le valutazioni morali sono regolate da una sorta di meccanismo automatico, l’interesse individuale, che si esprime prima di tutto nella tendenza alla propria conservazione, ma investe ogni altro tipo di valutazione e di scelta. Le prime passioni dalle quali ò determinato il comportamento umano sono quelle naturali, legate ai bisogni elementari e alle sensazioni del piacere e del dolore; derivano da queste le passioni artificiali, più complesse delle prime. A differenza delle passioni naturali, che sono comuni per tutti gli uomini, quelle artificiali dipendono dall’ambiente in cui si vive e dall’organizzazione politica in cui gli individui si formano. La società  dunque determina la natura stessa dell’uomo, sia dal punto di vista cognitivo che morale. Helvètius considera l’ ambiente, l’ambiente storico-sociale, determinante per la formazione di un uomo, in seguito alle esperienze avute ed agli eventi vissuti. L’organizzazione sociale determina il tipo di uomo, la sua sensibilità , il modo di intendere il bene e il male. Di conseguenza tutti gli individui che vivono nella medesima società  hanno una morale comune poichò sono tutti formati da cause simili. Da ciò deriva anche che le diverse società  hanno differenti valori e ciò che ò bene per l’una non lo ò per le altre. La virtù non ò arbitraria nò immutabile. Essa ò funzionale al bene di una determinata società , relativamente alle sue condizioni materiali e all’organizzazione particolare che ha. Nessun costume, seguito da tutto un popolo, ò irrazionale: se studiato attentamente, mostra sempre una ragion d’essere, in rapporto al contesto in cui ò inserita. anche a livello collettivo, il criterio per distinguere il bene e il male ò l’interesse: ò definito “virtù” il comportamento del singolo che giova alla società  del suo insieme, “vizio” ciò che la danneggia. Non tutti i costumi sono però virtù soltanto in quanto diffusi in una popolazione. Helvetius distingue le virtù vere, quelle cioò che svolgono una funzione sociale positiva, dalle virtù di pregiudizio, dannose o inutili per la collettività  e derivanti da false convinzioni. L’analisi di Helvètius muove dal sensismo, sottolinea poi l’importanza dei fattori ambientali nella formazione dell’esprit, ricondotto a una dimensione storico-sociale, per approdare infine, come conseguenza di questo approccio, al riconoscimento della diversità  culturale e della pluralità  dei valori. Sapendo che Helvètius appartiene alla corrente materialista, considerando questo titolo (“Dello Spirito”) ci si potrebbe aspettare che si tratti di una dimostrazione del carattere materiale dello spirito, del carattere materiale dei processi di pensiero. Invece non ò affatto così, non ò in quest’ottica che viene presentato, bensì lo spirito ò preso in considerazione nei suoi rapporti con la società , nei suoi rapporti con l’educazione, compreso lo spirito nel senso più corrente del termine, come nella locuzione: “avere spirito”. E attraverso questa esposizione apparentemente eclettica, ricca di riferimenti eruditi, nutrita di aneddoti e citazioni, che vengono introdotte all’interno delle frasi quelle espressioni che attestano inequivocabilmente il materialismo di Helvètius. Se si considerano tali espressioni (e il modo in cui vengono introdotte) si può giungere alla conclusione che Helvètius sia ancora largamente inserito nella tradizione libertina. I suoi procedimenti di scrittura, i suoi metodi di dissimulazione, di insinuazione sono tipicamente libertini. Quindi, sotto molti aspetti (malgrado l’importanza e il talento, anzi il genio di Helvètius), abbiamo a che fare con un pensiero che ò ancora dipendente da questa antica tradizione. D’altra parte vi sono certamente in Helvètius (sempre sotto questa forma tanto prolissa quanto originale), delle critiche estremamente accese contro il regime politico, contro il regime sociale della Francia del suo tempo, (ovvero dell’Ancien règime), e quindi implicitamente egli ha anche una funzione negativamente rivoluzionaria. Resta inteso che l’opera di Helvètius, come quella di tutti i materialisti, nella misura in cui distrugge gli idoli o i pregiudizi, (o intacca le fondamenta della vecchia società ) svolge per ciò stesso un ruolo rivoluzionario o pre-rivoluzionario. Ma in Helvètius non ò presente alcun orientamento direttamente rivoluzionario, alcun appello alla rivoluzione, nè alcuna ipotesi di una trasformazione rivoluzionaria della società . Helvètius ò un uomo che fa ancora affidamento (come molti altri pensatori del suo tempo) su ciò che ò stato chiamato, a torto o a ragione, il “dispotismo illuminato”, fa affidamento in ogni caso sui grandi di questo mondo, sui potenti, sui governanti per far progredire la società . E infatti nella prefazione alla sua opera postuma “Sull’uomo”, curiosamente egli dice: ” non c’ò più niente da sperare in Francia “. Siamo nel 1772, a meno di vent’anni dalla Rivoluzione ed Helvètius da parte sua non conta su nessuno in Francia e aggiunge “ su chi potrebbe essere riposta la speranza? Sull’Austria forse o sulla Russia, contando forse sull’imperatore Giuseppe II o sull’imperatrice Caterina, su quei paesi insomma, poichè non credo che sulla Francia possano essere riposte delle speranze ”. Il che evidentemente ò proprio l’opposto di un orientamento rivoluzionario. La libertà  nel pensiero di Helvetius Helvètius si distacca decisamente dal coro, in dissenso anche con il suo illustre contemporaneo Rousseau, e soprattutto in evidentissima difformità  da quanto andava maturando, in area tedesca, il grande Kant. Senza infingimenti e senza ipocrite mediazioni, egli sostiene che tutto ciò che di grande l’uomo riesce a compiere lo deve senza dubbio alla sua dimensione passionale, e che ò la libertà  il regno della passione. Senza passione (Helvètius ne ò decisamente convinto) non maturano le grandi idee, non si formulano grandi progetti, non si compiono grandi imprese, e quindi non si eleva la condizione di civiltà  di un popolo e dell’intera umanità . Ma alla passione ò assolutamente indispensabile la libertà , come sua condizione di possibilità  e ragione stessa d’esistenza. Di questo orientamento di pensiero, certo, c’ò qualche significativa anticipazione, nella storia della filosofia. Hobbes, ad esempio, dà  una visione indiscutibilmente nuova della vita passionale, ponendola a fondamento della condizione umana e dello stesso passaggio dell’uomo alla condizione civile. Nelle prospettive di questo tipo, il contrasto, pur sussistente, tra passività  e attività , non autorizza nessuna concezione dualistica dell’uomo, nè può essere piegata a giustificare la presunta opposizione tra corpo e anima, tra necessità  e libertà ; e pertanto, l’agire passionale non dev’essere considerato, ineluttabilmente ed esclusivamente, come un’anomala alterazione, una manifestazione patologica del comportamento. Ma, sulla base di tali presupposti, quale senso e quale valore vanno riconosciuti alla libertà ? La libertà  – Helvètius lo sostiene con vigore – ò un bene inestimabile (De l’esprit, I, III), tant’ò vero che l’umanità  l’ha sempre tenuta in grande considerazione. Si guardi alla storia: non ò forse vero che Bruto, così sensibile all’ intèràªt public, colse addirittura nel parricidio un mezzo adatto à  ranimer l’amour de la libertè, vedendo in esso l’unica concreta possibilità  di salvezza per Roma e l’unico modo per impedirle di ricadere sous la Tyrannie des Tarquins? D’altra parte, per Helvètius, non mancano neppure esplicite attestazioni ‘storiche’ di stima per l’eccellenza della libertà . Egli ricorda con una certa compiacenza quanto il saraceno Omar si dice abbia espresso, non senza enfasi, in riferimento all’uomo amoureux de la libertè: les Rois trembleront devant toi, toi seul ne craindras personne (De l’esprit, III, VI). L’illuminista tuttavia ò convinto dell’esistenza di un inscindibile vincolo, nonchè della inevitabile interazione tra, da una parte, la condizione di libertà , e, dall’altra, la vita pulsante e magari ardente dei sentimenti. Les siecles de libertè, rileva, sono sempre segnati dalla presenza di grands hommes, vale a dire sono inequivocabilmente caratterizzati da grandes passions e sono les seuls in cui tutti gl’individui di un popolo, di ogni livello e di qualunque condizione, sono sinceri admirateurs des sentiment nobles et courageux (De l’esprit, II, XIX). Si tratta di un circolo virtuoso: la libertà , per così dire, ‘libera’ i sentimenti, e questi, a loro volta, anche nella forma dei forti e magari furiosi coinvolgimenti emotivi, non solo destano e promuovono la stima pubblica e privata per la condizione di libertà , ma contribuiscono a mantenere le circostanze che assicurino la conservazione delle libertà  di cui concretamente godono sia i singoli individui, che, per usare il termine helvetiano, la Nazione. Peraltro, all’incremento di libertà  corrisponde un aumento di consapevolezza dei grandi ‘valori’, quelli capaci di suscitare entusiasmi, eccitare le intelligenze, ispirare iniziative; quelli per i quali vale la pena di spendere la propria vita magari fino al sacrificio; e pertanto all’incremento di libertà  corrisponde non solo una crescita di umanità  nell’individuo, ma anche un’accelerazione nel cammino delle società  verso una più completa civilizzazione. Ma di quale libertà  sta parlando l’illuminista? Su questo tema – Helvètius stesso lo ammette – non c’ò chiarezza d’idee. Anzi, non c’ò neppure un comune modo di sentire. Ed invano si cercherebbe, quindi, una base minima d’intesa. Del resto, basta osservare la storia della civiltà : quelles disputes… n’a point occasionnè le mot de libertè? (De l’esprit, I, IV). Tanta difficoltà  indurrebbe a supporre che sia la natura stessa dell’oggetto a renderlo inspiegabile. Che non sia un mistero? Una soluzione del genere ò stata proposta – ricorda Helvètius – da Malebranche, “abile teologo” ma anche “tanto amico della verità “. La libertà  – dice infatti Malebranche in “Prèmotion physique” – ò un mistero che ammutolisce: lorsqu’on me pousse sur cette question… je suis forcè de m’arrester tout court “. àˆ una posizione che anche Helvètius giudica rispettabile. E non solo perchè, se fosse generalmente condivisa, eliminerebbe alla radice ogni tentazione di vuota retorica sull’argomento, ma perchè, quella che per Malebranche ò una difficoltà  sul piano ontologico, andrebbe più correttamente individuata come un insuperabile limite sul piano epistemologico. L’illuminista, insomma, non disdegna l’idea che sia l’oggetto stesso, di cui si fa discorso, ad imporre il silenzio: se si deve parlare della libertà  come se fosse una ‘realtà ‘ in sè, dotata di una sua propria ‘consistenza’, in effetti non si ha cosa dire, o, che ò lo stesso, ognuno ha il diritto di dire quel che vuole. Infatti si sta parlando di una pura astrazione. Ben diverso il caso in cui, abbandonando la regione delle fumose ed inconsistenti speculazioni, si affronti il problema della libertà  come quello del concreto esercizio della cosiddetta ‘volontà  libera’. Nessuno può permettersi il lusso e l’arroganza di dire quel che gli passa per la testa: occorre tenere nella dovuta considerazione ciò che ci offre l’esperienza, e bisogna inderogabilmente rispettare le esigenze della coerenza logica e della correttezza argomentativa. Ma rifuggire dalle astrazioni non rende più facile il compito della chiarificazione teoretica. Anche parlando di ‘volontà  libera’ si può cadere in qualche grossolano errore. Helvètius sembra aver tesaurizzato la convinzione di Hobbes, per il quale, parlare di a free will, così come di a free subject, ò cosa assurda tanto quanto parlare di “quadrilatero rotondo”; su questo argomento non si possono esprimere che “non-sense”, words without meaning (Leviathan). Il discuterne, per quanto diffusamente e articolatamente, non ci farà  mai approdare alla certezza dell’esistenza di una “libera volontà “: from the use of the words free will, no liberty can be inferred of the will, desire, or inclination. La stessa dizione “libera volontà ” ò un abuse of words, uno di quegli abusi in cui facilmente s’incorre quando ci si dedica a questions of matters incomprehensible, un errore tipico di chi con troppa leggerezza discute di questions of abstruse philosophy (Leviathan, I, VIII). Anche per Helvètius, dunque, si cade banalmente nell’inverosimile, e addirittura nel paradosso, quando s’intende la libertà , appunto, come le pouvoir libre de vouloir ou de ne pas vouloir une chose. Tale definizione appare, a tutta prima, inattaccabile: sembra infatti perfettamente conforme all’esperienza che ogni uomo fa di sè. Ma l’assumere il termine dans une signification commune non offre garanzie di verità  al proprio orientamento. Più precisamente, il pensare in accordo con la convinzione generale non mette al riparo dalle contraddizioni e, addirittura, non assicura neppure di avere una corretta idea dell’oggetto del discorso (De l’esprit, I, IV). E infatti: accettando per valida e per vera questa definizione si cadrebbe inevitabilmente in due insostenibili e ingiustificabili assurdità . Si affermerebbe anzitutto la possibilità  di avoir des volontès sans motifs, vale a dire, addirittura, des effets sans cause. Inoltre si ammetterebbe che ogni uomo sia detentore persino del potere di volere o non volere il proprio bene, e che ciascuno possa porsi, di fronte ad esso, con atteggiamento di assoluta ‘indifferenza’ (De l’esprit, I, IV). Helvètius non si limita a contestare tale definizione per quello che esplicitamente dice, ma anche per quello che presuppone, vale a dire per l’antropologia, e in specie, per la psicologia che la fonda e la sostiene. Tale definizione, infatti, per lui ò anzitutto ancorata ad un’erronea concezione dell’ attività  dello spirito. Tutto fa capo alla nostra effettiva capacità  di ‘sospendere la decisione’. Ora, comunemente si crede che il poter operare questa sospensione significhi essere in grado di prendere le distanze dall’oggetto rispetto a cui si deve deliberare, ovvero significhi poter esercitare, senza condizionamenti di sorta, quel rigore di giudizio che ci permetta di deliberare con ‘oggettività ‘ e quindi di decidere con vera oculatezza, in merito all’oggetto in questione. Detto in altri termini, il est encore des gens qui regardent la suspension d’esprit comme une preuve de la libertè. Ma si tratta di una concezione decisamente errata. Chi sostiene questa tesi, lo fa con eccessiva superficialità ; infatti non si accorge che “la suspension” ò altrettanto ‘necessitata’ quanto “la prècipitation” nel campo del giudizio. Vale a dire, anche la sospensione ò sotto il governo del desiderio del proprio benessere. Del resto ò facile constatare, ad esempio, che spesso essa ò l’effetto di una pregressa disavventura: lorsque, faute d’examen, l’on s’est exposè à  quelque malheur, instruit par l’infortune, l’amour de soi doit nous nècessiter à  la suspension (De l’esprit, I, IV). Tale tesi, inoltre, si fonda sulla equivoca ed illusoria idea della ‘deliberazione’. Anche in questo caso si parla, in effetti, di una cosa che non esiste. Si rifletta: noi parliamo di deliberazione lorsque nous avons, par exemple, à  choisir entre deux plaisirs à  peu pròs ègaux et presque en èquilibre. Si pensa alla scelta come l’esito di una valutazione razionale. Ma, in realtà , quel che diciamo ‘deliberazione’ non ò altro che l”indecisione’, talvolta inevitabile, nel prendere partito, e molto spesso l’impossibilità  quasi ‘tecnica’ di decidere. Sicchè, nous croyons dèlibèrer, ma in effetti non esercitiamo alcun atto razionale di decisione. Lo scegliere ò dominato dall'”interesse”, che ò l’unico criterio regolativo del comportamento umano; e l’interesse ci fa sempre ‘propendere’ per uno dei due poli dell’alternativa. E pertanto, la “dèlibèration” non ò altro che la lenteur avec laquelle, entre deux poids, à  peu pròs ègaux, le plus pesant emporte un des bassins de la balance. Ma allora, si può davvero parlare di ‘volontà  libera’? Sul piano della vita pratica, ogni effetto ha sempre una sua causa determinata. Tutti gli atti di volontà  sono sempre, inderogabilmente, l’esito dell'”amour de soi” e non possono aver luogo se non nel suo dominio. Ora, poichè l'”amour de soi” trova la sua piena e concreta espressione ne “le desir du plaisir”, questo rappresenta le principe de toutes nos pensèes et de toutes nos actions; e pertanto se ne deve concludere che a) tutti gli uomini tendent continuellement, e non possono non tendere, vers leur bonheur rèel ou apparent; b) e toutes nos volontès non sono altro, e non possono essere altro, che l’effet de cette tendance (De l’esprit, I, IV). E la libertà  di cui Helvètius pare avere così grande considerazione? Da queste argomentazioni si dovrebbe ricavare, piuttosto, che, non potendo sussistere atti di volontà  che non siano inscritti nell’orizzonte della ‘necessità ‘, non può esistere alcuna libertà . O quanto meno: se tout effet est nècessoire, allora on ne peut… attacher aucune idèe nette à  ce mot de libertè (De l’esprit, I, IV). Helvètius prende in considerazione una seconda definizione. Certo, on est nècessitè à  poursuivre le bonheur partout où on l’apperà§oit; tuttavia, ciò non implica inderogabilmente che siamo necessitati anche sur le choix des moyens que nous employons pour nous rendre heureux. Dunque, l’uomo può certamente essere concepito libero: la sua “libertà ” consisterebbe nel suo potere di scegliere i mezzi ritenuti idonei ed adeguati al suo benessere. In base a questa definizione, però, l”uomo libero’ non sarebbe altro che l”uomo illuminato’. Ora, considerare “libre” come un puro e semplice “synonyme d’èclairè”, significa semplicemente commettere l’errore banale di confondre ces deux notions: le quali, invece, sono ben distinte tra loro e devono essere tenute accuratamente separate. Un errore che peraltro, quanto all’atto della scelta, comporta delle implicazioni, per così dire, inattese, e in certi casi addirittura risibili. Ad esempio, in base a tale definizione, si sarebbe indotti a concludere che si prenderà  un parti meilleur ou moins bon solo se si conoscerà  plus ou moins de procèdure et de jurisprudence ! E addirittura si adotterà  una scelta più o meno felice, nei propri affari, se si sarà  assistiti par un Avocat plus ou moins habile “! La verità  ò che l’uomo ò sempre definito dalla sensibilità  fisica; quelque parti qu’il prenne, la sua decisione sarà  sempre suggerita dal dèsir de son bonheur, che lo indirizzerà  sempre verso quella soluzione che gli apparirà  le plus convenable à  ses intèràªts, ses goà»ts, ses passions, et enfin à  ce qu’il regarde comme son bonheur (De l’esprit, I, IV). Ma allora, come si potrà  mai “philosophiquement expliquer” il problema della libertà ? O, per dirla in termini più moderni, ò possibile una fondazione teoretica della libertà ? oppure bisogna rassegnarsi all’idea che essa non ò altro che una bella quanto fragile fantasia? Helvètius chiama in gioco l’autorità  di Locke. Se noi siamo il risultato dell’influenza che tutti i fattori ambientali, nel loro gioco interattivo, esercitano su di noi, vale a dire, se nous sommes disciples des amis, des parens, des lectures, et enfin de tous les objets qui nous environnent, allora il faut que toutes nos pensèes et nos volontès soient des effets immèdiats, ou des suites nècessaires des impressions que nous avons reà§à»à«s. E se ne deve ricavare che, poichè la nostra volontà  non può mai esercitarsi in modo assolutamente incondizionato, on ne peut se former aucune idèe de ce mot de libertè, appliquè à  la volontè ! (De l’esprit, I, IV) Insomma, anche ponendo la questione della libertà  in questi termini, in fondo ha ragione Malebranche: il faut la considèrer comme un mystère. E si deve convenire, di conseguenza, che la Thèologie seule peut discourir sur une pareille matiere. E naturalmente si dovrebbe anche ammettere, per quanto a malincuore, che un traitè philosophique de la libertè ne seroit qu’un traitè des effets sans cause (De l’esprit, I, IV). Oppure – prosegue l’illuminista, riprendendo la tesi degli Stoici nella forma in cui era stata diffusa, nell’ambiente culturale della sua Francia, da A. F. Deslandes, con la sua “Histoire critique de la Philosophie” – bisogna riconoscere che la libertè… est une chimere: se nous nous croyons libres, ciò accade solo faute de connoà®tre les motifs, de rassembler les circonstances, qui nous dèterminent à  agir d’une certaine maniere (De l’esprit, I, IV). Comunque, se la nostra fede nella libertà  ò espressione della nostra ignoranza o della nostra incapacità  intellettuale, bisogna necessariamente concludere che l’uomo non ha alcun potere di autodeterminarsi? Si provi pure a cambiare l’angolo prospettico d’osservazione. Si consideri il soggetto nella sua concreta ‘collocazione’ nel mondo. Rispetto a quanto già  nell’antichità  gli Stoici hanno indicato, secondo Helvètius, non muterà  affatto il risultato circa la presunta libertà  dell’uomo. Ne sont-ce pas plutà´t les objets exterieurs, combinès de mille faà§ons diffèrentes, qui le poussent et le dèterminent? . Certo, spesso la volontà  agisce en consèquence d’un jugement. Ma questo non significa che la condotta sia guidata dalla ragione. Tale giudicare, insomma, non ò un segno della libertà  dell’uomo. Si tratta piuttosto, come illustra sempre Deslandes a proposito degli Stoici, d’un acte de l’entendement, in forza del quale il singolo individuo approda alla convinzione che telle chose est plus avantageuse à  ses intèràªts que toute autre. E quanto al valore e all’importanza di questo “giudizio”, basti considerare che esso non ò assolutamente indispensabile; infatti il più delle volte si agisce indèpendamment de cet acte. Insomma, lo si voglia ammettere o no, “les circonstances”, in cui un uomo concretamente si trova, di fatto necessariamente l’inclinent, le forcent à  se tourner d’un certain cà´tè: per cui il se flatte qu’il s’y est tournè librement, quoiqu’il n’ait pas pà» vouloir se tourner d’un autre (De l’esprit, I, IV). Non a caso, in “De l’esprit”, Helvètius si riferisce agli Stoici; quella tesi fa buon gioco alle sue esigenze teoretiche. Difatti, essa viene ripresa in “De l’homme”, ma senza riferimento al Deslandes. Qui si parla del “dogme de la fatalitè”, comune ai popoli orientali, e proprio degli Stoici. Per questi ultimi ciò che chiamiamo “libertè”, ovvero “puissance de dèlibèrer”, non ò altro che un sentiment de crainte ou d’espèrance che si prova quando si deve prendre un parti du choix duquel dèpend son bonheur ou son malheur. La “dèlibèration”, dunque, non ò ‘libera’, bensì ò sempre l’effet nècessaire de notre haine pour la douleur et de notre amour pour le plaisir (De l’homme, VII, I). Poco più avanti, ritornando sul tema, aggiunge che, per gli Stoici, en son ètat naturel l’uomo cherche le plaisir et fuit la douleur; questa ò la legge che regola il suo comportamento; perciò en toutes ses actions, il est necessairement dèterminè par le desir d’un bonheur apparent ou rèel. L’homme n’est donc pas libre. E infatti – dice Helvètius, mescolando, in una intenzionale equivocità , il suo discorso a quello degli Stoici – la sua volontà  ò necessariamente l’effet de ses idèes, par consèquent de ses sensations, tanto quanto la douleur est l’effet d’un coup. Si dice che l’anima agisce in base ad una scelta, che ò l’esito di una deliberazione, la quale a sua volta ò l’espressione di una volizione. E allora, quando ò libero, l’uomo? In nessuna di queste fasi! Perchè l’anima non ò libera in nessuna di queste sue operazioni. Ognuna ò determinata dalla precedente, e la prima ò determinata dall’amor di sè; dunque il est èvident, que la libertè n’existe ni dans la volontè actuelle, ni dans la dèlibèration actuelle, ni dans le choix actuel, ni dans l’action actuelle. Pertanto, si ha un bel parlare della libertà ! L’ame est-elle libre, si quand elle veut, quand elle dèlibere, quand elle choisit, quand elle agit, elle n’est pas libre? (De l’homme, VII). Ma allora, che cos’ò quella libertà  che l’uomo tanto ammira ed ama? E a che cosa si allude quando si parla di quella libertà  che, secondo i credenti, lo stesso Salvatore lascia all’individuo? (De l’esprit, II, XXIII). E inoltre, che cosa si vorrà  intendere, quando si parla della libertà  dei popoli e degli Stati? Per soffermarsi appena su quest’ultimo punto, lo stesso Helvètius ricorda che negli Stati repubblicani “l’amour de la libertè”, insieme con “la haine des Tyrans”, e “l’amour de la Patrie”, costituiscono si je l’ose dire, des points de ralliement pour l’estime publique (De l’esprit, II, XIX); e per certi popoli, come quello inglese, la libertà  rappresenta addirittura un motivo di fierezza perchè ritenuta fondamento di virtù civili: cette libertè… renferme rèellement le germe de tant de vertus (De l’esprit, II, XXII). Certo, l’illuminista spiega pure che la libertà  degl’inglesi, appunto, est moins le prix de leur courage qu’un don du hazard. Anzi essa n’est point le fruit de leur sagesse; infatti egli la pone in relazione alle condizioni geografiche: “Tout Anglois sensè” non potrà  non riconoscere che c’est à  la position physique de son Pays qu’il doit sa libertè; e che la forme de son gouvernement ne pourroit subsister telle qu’elle est en terre ferme, sans àªtre infiniment perfectionnèe; e, quindi, che l’unique et lègitime sujet de son orgueil se rèduit au bonheur d’àªtre nè insulaire plutà´t qu’habitant du continent (De l’esprit, II, XXII). Ma proprio la relazione, posta da Helvètius, tra la libertà  degl’inglesi e la loro insularità  ci offre qualche varco per una più piena comprensione. Quanto alla ‘libertà ‘ degl’Inglesi, egli sembra parlarne come di una situazione di ‘non-condizionamento’, favorita, appunto, dall’isolamento fisico della loro patria dall’Europa continentale. Una considerazione, questa, perfettamente coerente con un’indicazione, in merito alla libertà , che l’illuminista stesso ha offerto in “De l’esprit”. Che cosa deve intendersi col termine “libertà “? Non ci si perda dietro astratti filosofemi; ci si tenga vincolati alla nozione ‘corrente’ di uomo libero. Ebbene, l’homme libre est l’homme qui n’est ni chargè de fers, ni dètenu dans les prisons, ni intimidè, comme l’esclave, par la crainte des chà¢timens (De l’esprit, I, IV). In sintesi: se lo si prende dans une signification commune, quella più immediata e più facilmente comprensibile, il termine “libertà ” non indica altro, appunto, che l’assenza di freni, di limiti coercitivi e di determinanti condizionamenti esteriori. Non a caso Helvètius fa l’elogio della condizione ‘selvaggia’ dell’uomo, in cui la libertà  ò ‘piena’. L’ètat du Sauvage ò decisamente prèfèrable à  celui du Paysan. Infatti il selvaggio non ha da temere la prison, la surcharge des Impà´ts, la vexation d’un Seigneur, le pouvoir arbitraire d’un sub-dèlèguè; egli non ò humiliè et abruti par la prèsence journaliòre d’hommes plus riches et plus puissans que lui; egli vive sans Supèrieur, sans servitude: plus robuste que le paysan, parce qu’il est plus heureux, il jouit du bonheur de l’ègalitè, et sur-tout du bien inestimable de la libertè si inutilement rèclamèe par la plupart des Nations (De l’esprit, I, III). Tuttavia, questa, offerta da Helvètius, della libertà  come assenza d’impedimenti, ò, evidentemente, un’indicazione di tipo “negativo”. Si tratta di una ‘libertà  da’. Poteva bastare l’idea che l’uomo e lo Stato siano da considerarsi liberi solo in virtù dell’assenza di fattori ostacolanti e di elementi coattivi? D’altra parte, delineando in termini hobbesiani il passaggio dell’umanità  allo stato civile, egli non esita a ricordare che la libertà  ‘naturale’, in quanto propria di ciascun individuo, espone ogni singolo uomo alla lotta contro tutti gli altri ed alla minaccia permanente per la propria vita, al punto che i selvaggi, las de vivre dans une crainte perpètuelle, si risolvono a fare entr’eux des conventions, acconsentendo à  perdre un peu de cette libertè qu’ils ont dans l’ètat naturel, et qui leur est nuisible (De l’esprit, III, IX). La libertà  ‘naturale’, dunque, non ò tutto; o meglio, la libertà  come assenza di impedimenti, non ò tutta la libertà . L’illuminista, insomma, non poteva fermarsi a questo primo approdo. In ogni caso, come si vede, Helvètius sembra far riferimento, simultaneamente, alle concezioni hobbesiana e rousseauiana del ‘selvaggio’. Ben si comprende però che le due concezioni, che Helvètius in qualche modo accosta, sono fondamentalmente contraddittorie. L”uomo secondo natura’ di Hobbes vive in una condizione di permanente ‘infelicità ‘, teso spasmodicamente ad assicurarsi la sopravvivenza in un ambiente fisico implacabilmente ostile: obiettivo che riesce a raggiungere soltanto col passaggio allo stato civile; mentre il ‘buon selvaggio’ di Rousseau vive contento di sè in un contesto naturale propizio al suo armonico sviluppo, e scivola in una condizione d’infelicità  solo col ‘pactum unionis’ fondativo della società . E allora? Nella visione di Helvètius, forse, le due concezioni s’intersecavano in un punto per lui molto rilevante. Sia nell’un caso che nell’altro, era da considerarsi ‘libero’ l’uomo la cui volontà  non ò sottoposta ad alcun impedimento esterno. Poco importava che tale libertà  fosse per l’uomo hobbesiano una sorta di condanna e per quello rousseauiano un bene primario. L’importante, per l’illuminista, era che, nel punto d’intersezione, comune ad entrambe le concezioni, si poteva immaginare un uomo ‘naturale’ costretto, sì, a lottare per conservarsi all’esistenza, ma detentore di quella libertà  che costituiva un privilegio da conservare anche nello stato civile, sia pure con le inevitabili limitazioni implicate dal ‘pactum unionis’. Così si spiega perchè egli affermi, echeggiando Rousseau, che la libertà , di cui ha tanta considerazione, ò completa solo nella condizione selvaggia, e parallelamente affermi, riprendendo argomenti di Hobbes, che l’uomo non può vivere una sua vita piena nella condizione naturale, abbisognando delle leggi per una corretta relazione con i suoi simili. 9. Si diceva che per Helvètius la libertà  ‘naturale’ non poteva essere tutto, non poteva rappresentare tutta la libertà . E infatti c’ò un passo, relativo agli Stati dispotici, che sembra allargare l’orizzonte dell’indagine. In queste Nazioni, alcuni vivono “dans la mollesse”, altri “languissent dans la misere”; a questi ultimi, pungolati costantemente dal bisogno — che richiede solo di essere soddisfatto, e che domina totalmente e radicalmente l’esistenza di ogni singolo individuo –, non ò consentito di elevare ses regards jusqu’à  la libertè (De l’esprit, I, III). Che vorrà  dire, l’illuminista, con questa espressione? A prima vista essa sembra semplicemente ribadire la concezione ‘negativa’ della libertà : dal momento che lo stato di bisogno ò una condizione limitante, chi languisce nella miseria si trova in situazione di servitù; e quindi, negli Stati che consentono che una parte di popolo sia afflitta da necessità  primarie non c’ò uguaglianza dei cittadini nella libertà . Ma forse l’espressione nasconde dell’altro. La libertà , a cui si fa accenno nel brano in questione, sembra essere qualcosa di più che la semplice assenza di limiti: quasi un modo di vivere. ‘Elevare lo sguardo fino alla libertà ‘ sembrerebbe un modo sintetico per dire: ‘elevare il pensiero ad un modo più pienamente umano di concepire la vita, d’intendere e di concretare i rapporti col mondo e con gli altri’. Insomma l’espressione alluderebbe all’aspetto ‘positivo’ della libertà . Forse non ò inopportuno ribadire che Helvètius ha in grande considerazione la cultura inglese, e nutre una sincera ammirazione per Hobbes. Certo, lo cita molto meno che Locke, ma ben se ne comprendono le ragioni. Le tesi helvetiane erano già  abbastanza difficili da ‘metabolizzare’, per la cultura francese del Settecento, e non era proprio il caso che l’illuminista si esponesse come preda poco accorta agli attacchi dei nemici, manifestando il debito culturale nei riguardi di Hobbes. Dunque Hobbes può risultare di una qualche utilità  nell’approfondimento della concezione helvetiana della libertà . Per Hobbes non esiste l’assoluto arbitrio nella scelta: nè nello stato di natura, perchè il comportamento ò necessariamente sottoposto ai desideri e alle avversioni a cui lo indirizza il ‘conatus’, nè nello stato civile, in cui l’uomo non solo resta nel dominio dell'”amor di sè”, ma ò sottoposto ai vincoli stabiliti col ‘pactum subiectionis’ originario della società  civile. Aggiunge, comunque, che ha senso parlare della libertà  dell’uomo, ma come in riferimento ai ‘corpi’, ossia in termini di assenza d’impedimenti al movimento; per cui l’uomo libero ò colui che non trova impedimento a fare le cose che desidera fare, e che ò capace di fare; pertanto necessità  e libertà  non collidono nè si escludono vicendevolmente, anzi sono compatibili; e ogni atto umano va inteso come libero quando non ò impedito nell’ordine della ‘divina’ catena delle cause, ossia quando la volontà , che in esso si attua, non trova ostacoli ad esprimersi nell’ordine necessario della realtà  (“Liberty and necessity are consistent”, dice Hobbes, in Leviathan, II, XXI). Non può non colpire che la prima parte dell’indicazione helvetiana dell’uomo libero come l’homme qui n’est ni chargè de fers, ni dètenu dans les prisons, ni intimidè, comme l’esclave, par la crainte des chà¢timens ò di sapore chiaramente hobbesiano. Hobbes, infatti, parlando della libertà  dei sudditi, dice proprio che il termine libertà , preso in senso rigoroso, non significa altro che freedom from chains and prison (Hobbes, Leviathan, II, XXI). Egli fa tale affermazione in un contesto che testimonia l’esigenza, fortemente avvertita, di abbandonare ogni tentazione di scantonare dal campo proprio del discorso filosofico. Parlando in modo appropriato – dice Hobbes – “Liberty, or freedom” non significa altro che the absence of opposition, intendendo per opposizione tutti gli external impediments of motion; inoltre aggiunge che, di tutte le “living creatures”, finchè they are imprisoned, or restrained with walls or chains, siamo soliti dire che they are not at liberty to move in such manner as without those external impediments they would (Hobbes, Leviathan, II, XXI). Dunque molto verosimilmente Hobbes potrebbe essere stato uno degli ispiratori della concezione ‘negativa’ che Helvètius ha della libertà . Ma si ò detto che l’illuminista non poteva e neppure intendeva fermarsi alla ‘libertà  da’. E allora, qual ò la sua ‘libertà  di’? C’ò un luogo del “De l’esprit” in cui Helvètius sostiene che la “libertè de l’homme” – la libertà  per l’individuo – ò l’exercice libre de sa puissance. Sembra una definizione tautologica ma, a ben vedere, ancora una volta il discorso dell’illuminista sembra riecheggiare la posizione teoretica di Hobbes. Il quale, riferendosi non più agli impedimenti esterni, bensì a quelli sussistenti in the constitution of the thing itself, ricordando che, in tal caso, siamo soliti parlare non di mancanza di libertà , bensì di mancanza di power, to move, asserisce che l’uomo – in quelle cose che, by his strength and wit, egli is able to do – ò libero quando is not hindered to do what he has a will to (Leviathan, II, XXI). Sicchè l’helvetiano exercice libre de sa puissance non ò altro che l’hobbesiana capacità  di fare, senza esserne inibiti o ostacolati o arrestati, ciò che si vuol fare e che rientra nelle cose che si ò capaci di fare con la propria forza ed il proprio ingegno. Liberty of the man consisteth in this, that he finds no stop in doing what he has the will, desire, or inclination to do, aggiunge Hobbes (Leviathan, II, XXI). Siamo dunque alla ‘libertà  di’. L’espressione helvetiana, insomma, non solo non ò tautologica, ma acquista spessore e pregnanza proprio se considerata alla luce del discorso hobbesiano. Essa dunque, a ben vedere, raccoglie in sè il duplice aspetto, quello positivo e quello negativo, del concetto di libertà . Per un verso, non si dà  libertà  se non, come si ò visto, in condizione di assenza di impedimenti; l’uomo libero ò l’uomo che agisce senza i ceppi di una qualsivoglia “schiavitù”. Tuttavia, questa ò una condizione necessaria, ma non sufficiente. Una tale libertà  sarebbe una forma senza contenuto. Detto in altri termini, l’uomo privo di vincoli non ò ancora un uomo veramente libero, o almeno, non ò libero in quanto ‘uomo’. Perchè lo sia, si richiede ch’egli possa, anzitutto, esercitare il potere proprio della sua natura individuale; inoltre, ch’egli goda dell’effettiva e concreta facoltà  di compiere tutto ciò ch’ò nelle sue possibilità . Dunque non ò da ascriversi a mancanza di libertà  l’impossibilità  di compiere azioni fuori delle concrete opportunità  offerte dalla nostra natura di esseri umani, o al di là  delle nostre effettive capacità , e fuori dei poteri connessi alle concrete condizioni di esistenza. Mentre invece ò da ritenersi non libero colui che ò impedito a fare ciò che ò in diritto di fare, ò capace di fare, vuole fare, ed ò in condizione di fare. àˆ lo stesso Helvètius che lo spiega: Je dis ‘de sa puissance’, parce qu’il seroit ridicule de prendre pour une non-libertè l’impuissance où nous sommes de percer la nà»e comme l’Aigle, de vivre sous les Eaux comme la Baleine, et de nous faire Roi, Pape, ou Empereur (De l’esprit, I, IV). Questa definizione sembra all’illuminista la più adeguata alla concreta realtà . Peraltro essa ha valore anche per le società , i popoli, gli Stati. Un popolo ò davvero libero quando, senza i ceppi della tirannia, può esercitare tutto il proprio potere, può dare espressione a tutte le sue capacità , può portare alla luce tutte le sue potenzialità , può esercitare tutte le sue virtù. Proprio come ogni singolo cittadino ò libero allorchè può esplicare le sue capacità , esprimere le sue attitudini, dare libero corso al suo pensiero e alla sua inventiva, senza subire costrizioni o impedimenti ad opera di un governo dispotico. La libertè, dunque, comme la santè est un bien dont communèment l’on ne sent le prix qu’apròs l’avoir perdu (De l’homme, IX, II). Ma, a questo punto, siamo ben oltre Hobbes. Passi tratti dalle opere Helvètius, attento studioso delle opere di Newton e della filosofia di Locke, sostiene le capacità  intellettuali e le convinzioni morali dell’uomo derivano esclusivamente dalle sensazioni: l’intero mondo che circonda un individuo deve essere considerato il suo “maestro” e concorre alla formazione della personalità . Visti i limiti dell’intelletto umano, che non può conoscere tutto ciò che ci circonda, la nostra formazione appare in gran parte determinata dall’ignoto e dal caso. Se per educazione si intende semplicemente quella che si riceve negli stessi luoghi, e da parte degli stessi maestri, essa risulta allora la medesima per un’infinità  di uomini. Ma se a questo termine si attribuisce un significato piຠautentico e piຠesteso, comprensivo di tutto quello che coopera alla nostra istruzione, si può dire che nessuno riceve la stessa educazione. Infatti ognuno ha per propri maestri, per cosà­ dire, la forma di governo sotto la quale vive, i suoi amici, le sue amanti, la gente da cui ò circondato, le sue letture, e infine il caso – cioò un’infinità  di avvenimenti di cui, per la nostra ignoranza, non siamo in grado di scorgere la concatenazione e le cause. Questo caso ha una parte assai maggiore di quella che si ritiene nella nostra educazione. Esso pone certi oggetti sotto i nostri occhi, ed ò quindi occasione delle idee piຠfelici; talvolta esso ci conduce alle piຠgrandi scoperte. [… ] La maggior parte degli avvenimenti deriva da piccole cause: noi le ignoriamo poichè la maggior parte degli storici le hanno ignorate anch’essi, oppure perchè essi non hanno avuto occhio per percepirle. è pur vero che, a questo proposito, lo spirito può riparare alle loro omissioni: la conoscenza di certi princà­pi supplisce facilmente alla conoscenza di certi fatti. Perciò – senza arrestarci piຠa dimostrare la parte esercitata dal caso in questo mondo – si deve concludere che, se sotto il nome di educazione si comprende in generale tutto ciò che contribuisce alla nostra istruzione, anche il caso deve necessariamente rientrarvi. Nessuno si trova infatti nello stesso concorso di circostanze, e nessuno riceve precisamente la medesima educazione. (Sullo Spirito, III, I) Helvètius prende in esame la dimensione sociale, collettiva della morale, perchè la considera piຠadatta per comprenderne meglio la natura e constata che anche la collettività , come l’individuo, considera moralmente valido solo ciò che ò in sintonia con il proprio utile. Occorre però considerare non soltanto la probità  relativa ad un privato o ad una piccola società , ma la vera probità , vale a dire la probità  in rapporto alla collettività . Questa specie di probità  ò la sola che realmente abbia un merito, e che ottenga generalmente tale nome. Soltanto considerando la probità  da questo punto di vista possiamo formarci idee precise dell’onestà , e trovare una guida alla virtàº. Sotto questo aspetto si può affermare che la collettività , al pari delle società  particolari, ò determinata nei suoi giudizi unicamente dal motivo del proprio interesse; essa attribuisce la qualifica di oneste, grandi o eroiche soltanto alle azioni che sono utili nei propri riguardi. Ed essa concede la propria stima ad una certa azione non già  in rapporto al grado di forza, di coraggio o di generosità  necessario per eseguirla, ma in proporzione all’importanza di tale azione e al vantaggio che ne ricava. (Sullo Spirito, II, XI)

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