La figura di Avempace (Ibn YahyࢠIbn al-Sà¢âigh Ibn Tujà®bà® Ibn Bà¢jja), ò tuttora problematica e oscura a causa della frammentarietà delle fonti di cui disponiamo. Avempace si colloca cronologicamente tra il 1085-1090 e il 1138-1139 (anno 533 dellâHègira), in un contesto storico segnato dalla grave instabilità politica nella Spagna musulmana, denominata al-Andalus, seguita alla caduta del califfato omayyade di Cordova, e alla conseguente crisi del potere musulmano nella penisola iberica nellâepoca, di grossa frantumazione politica, dei reyes de taifas (“re dei piccoli stati”). Lâintervento degli Almoravidi, già costituitisi in impero nellâAfrica settentrionale, invocato dalle città stato per far fronte alla Reconquista cristiana della penisola iberica, sembra segnare una nuova stagione di unità politica, con la limitazione graduale di tutte le autonomie delle singole città stato che si erano costituite a seguito della caduta degli omayyadi e con la cessazione quasi totale dellâavanzata cristiana verso il centro-sud. Il clima culturale che sembra segnare la vita di Saragozza, la città natale di Avempace, ò vivace ma, al tempo stesso, complesso e problematico: senza dubbio ò rintracciabile la presenza, favorita anche dalla serena convivenza tra ebrei, cristiani e musulmani, di scuole ad orientamento filosofico di buona rilevanza, non solo islamiche, ma anche giudaiche, di cui lâesponente maggiormente rilevante può certamente essere considerato Ibn Gabirol (1022-1058), noto ai latini con il nome di Avicebron. Dâaltra parte, al graduale affermarsi dellâinsegnamento dei falà¢sifah, i filosofi, corrisponde la presenza, in netta convergenza ideologica con il potere almoravide, della scuola giuridico-religiosa mà¢likita, diffidente e particolarmente rigida nei confronti della libera attività razionale. Resta il fatto che Avempace dovette entrare ben presto in contatto con le varie fonti arabe della tradizione neoplatonica, segnate, circostanza spesso ricorrente nel caso della filosofia islamica, dalla convergenza sincretica tra indicazioni platoniche e aristoteliche (si pensi al Liber de causis ed alla Theologia Aristotelis). Sotto questa forma, ma ò certa la presenza e la disponibilità anche di opere integrali, Avempace entra in contatto con il patrimonio costituito dalla tradizione greco-ellenistica, occupandosi non solo specificamente di filosofia, ma anche di scienze astronomiche, musica e medicina, attirandosi ben presto, accanto allâammirazione dei governatori almoravidi, anche le critiche violente, probabilmente per lâeterodossia che molti intravedevano nellâaffermarsi graduale di una tradizione specificamente filosofica, dei giurisperiti di tradizione mà¢likita. Non ci sono prove decisive per ritenere fondate tali accuse (non ò rinvenibile, nei testi di Avempace a noi giunti, nè una negazione dellâunicità di Dio nè la negazione della verità costituita dalla rivelazione coranica). Tuttavia, nonostante buona parte delle fonti sulla vita di Avempace risultino compromesse dallâ ostilità di buona parte dellâambiente religioso, Resta il fatto che Avempace non solo dovette essere probabilmente uno dei primi commentatori di Platone e di Aristotele in al-Andalus, ma costituisce anche una testimonianza fondamentale per la comprensione di alcune peculiarità specifiche del pensiero islamico in ambito specificamente filosofico. Individuare in modo immediato il nucleo tematico del Regime del solitario (la grande opera di Avempace) ò problematico. Al centro dellâopera vi ò un individuo solitario che, isolato dalla società e dai vizi in essa serpeggianti, percorre il suo itinerario fino allâ unione con lâintelletto agente; Aristotele viene da Avempace letto in una prospettiva schiettamente religiosa, tale per cui il fine ultimo ò da ravvisarsi nella contemplazione di Dio. Il centro della riflessione di Avempace sembra essere il ruolo e la posizione del filosofo allâinterno della società civile. Lâorizzonte metafisico, in cui emerge e si colloca tale riflessione, ò segnato da una struttura del reale ipostaticamente gerarchizzata, cardine della tradizione neoplatonica. La definizione preliminare del tadbà®r, regime, come “organizzazione degli atti in vista di un fine” introduce unâanalisi tassonomica delle diverse tipologie si società possibili, postulando, in diretta continuità con la Repubblica platonica, lâesistenza di quattro tipologie di città imperfette e una tipologia di città perfetta, in cui la verità e il bene trovano il loro pieno compimento come forma di massima armonia sociale, e in cui il filosofo trova realizzata nella sua possibilità ultima la propria perfezione spirituale. Tuttavia, nonostante il richiamo diretto alla tradizione platonica, la trattazione non sembra poggiare nè su di un mero intento analitico-descrittivo, riguardo il quale Avempace sembra riconoscere nella Repubblica unâopera definitiva, nè essa sembra condividere dellâimpostazione platonico-aristotelica (ma ò difficile stabilire se Avempace abbia letto o meno la Politica di Aristotele) il progetto fondativo e costruttivo che sembra sorreggere la riflessione politica dei grandi filosofi greci. Il presupposto fondamentale della riflessione condotta da Avempace nel Regime del solitario, e che sembra predeterminare la stessa posizione della domanda circa il nesso tra filosofia e politica, appare radicalmente opposto: la città perfetta costituisce una prospettiva di società civile assolutamente e irrimediabilmente utopica, irraggiungibile. Una società in cui la politica si costituisca come garante della perfetta armonia e della felicità del filosofo non sembra, agli occhi di Avempace, concretamente realizzabile. La questione fondamentale del pensiero greco, platonico e aristotelico, appare, dunque, totalmente ridislocata in un contesto in cui la domanda sul ruolo del filosofo nella costruzione di una forma perfetta di convivenza civile si ripropone come domanda sulla posizione del filosofo allâinterno di una società civile costitutivamente destinata alla corruttela. La risposta di Avempace a tale questione, risposta che costituisce la tesi di fondo del Regime del solitario, sembra essere la seguente: in una società imperfetta, in cui non sussiste alcuna connessione reale tra politica e ricerca della felicità , intesa come perfezione spirituale e intellettuale, il filosofo può optare in via esclusiva per una scelta di isolamento dalla realtà mondana, nellâottica di perseguire il compimento ultimo della propria essenza specifica, la libera attività razionale, nella contemplazione del mondo intellegibile e del Divino. In questa prospettiva, la figura del solitario ò la sola che può caratterizzare il modus vivendi proprio del filosofo, il solo che possa dirsi autenticamente uomo, a cui spetta, come fondamentale scelta esistenziale, un percorso etico-gnoseologico di emarginazione e di, tratto tipicamente neoplatonico, risalita dal mondo delle apparenze ad una realtà attingibile solo mediante il libero uso della razionalità , pervenendo così ad una condizione paragonabile a quella di Dio. La parte del Regime del solitario pervenutaci sotto la denominazione di Trattato delle forme spirituali, specifica ulteriormente, con lâesposizione della teoria avempaciana dellâ intelletto, la cifra e lâorizzonte metafisico della proposta avanzata da Avempace. Le forme spirituali costituiscono una serie di gradi conoscitivi ipostaticamente e gerarchicamente organizzati, in linea ascensionale, in proporzione al loro grado di immaterialità . Dunque, esistono forme spirituali in misura maggiore o minore condizionate e determinate da elementi materiali, e forme spirituali che, prive di materialità , possono dirsi pure o universali. Le prime possono dirsi relate sotto una duplice prospettiva: individualmente, come forma di un oggetto sensibile; in modo “accidentalmente” universale, nella misura in cui tali forme vengono percepite dal senso comune. La seconda tipologia di forme, quelle universali, si costituisce per il fatto che tali forme appaiono sussistenti di per sè e aventi esclusivamente una relazione con lâindividuo umano, che le intende per astrazione dalla materia. Il movimento conoscitivo, mediante il quale questâultima tipologia di forme ò accessibile, ò in realtà duplice: tali forme possono essere intese, per lâappunto, a partire da un processo astrattivo mediato da facoltà naturali, quali il senso comune, lâimmaginazione, la memoria. Tuttavia, tale processo non ò sufficiente perchè le forme intese secondo questa modalità si diano secondo il loro carattere universale. La cifra del processo astrattivo, secondo Avempace, ò la costituzione di una disposizione al ricevimento di un apporto attualizzante in qualche modo estrinseco. Viene introdotto in questo modo una delle problematiche maggiormente ricorrenti nei falà¢sifah della tradizione arabo-islamica, seppure secondo modalità spesso differenti e in contrasto tra loro: il ruolo dellâintelletto agente. Tale principio, nellâ orizzonte metafisico tipico del pensiero filosofico islamico, possiede una sua precisa collocazione allâinterno dellâuniverso cosmologico (e dunque si costituisce come una vera e propria intelligenza agente), costituendosi come principio supremo dellâ intelligibilità delle cose, garante epistemico della conoscenza umana in quanto responsabile sia dellâinformazione della materia che dellâelemento che completa il movimento astrattivo posto in essere dallâuomo, ossia dellâemanzione dei corrispondenti contenuti noetici in un intelletto in disposizione nei confronti di tale attività emanativa. A partire da questa duplice motilità noetica, in cui al momento specificatamente astrattivo subentrerebbe un momento intuitivo, Avempace sembra qui saldare le indicazioni aristoteliche, in qualche modo divergenti, del De anima e degli Analitici Secondi (II, 19), in un contesto in cui la verità , e allo stesso tempo il raggiungimento della felicità come compimento dellâessenza specifica dellâ uomo in quanto tale (la razionalità ), si costituisce come lâesito di un percorso intellettuale in cui il filosofo, risalendo nella gerarchia delle forme spirituali dallâordine materiale delle cose a quello intellegibile, perviene alla congiunzione (ittihà¢d) con la stessa intelligenza agente, con il supremo principio di ogni intellegibilità . Sotto questa prospettiva i singoli atti noetici personali, nella congiunzione con lâintelligenza agente, sembrano perdere il loro specifico carattere individuale per diventare sostanzialmente impersonali. Il solitario, il filosofo, non solo ò colui il quale, nel libero esercizio della propria razionalità (del divino che ò in noi, secondo le indicazioni aristoteliche dellâEthica Nicomachea), diviene puro pensiero nellâunione con lâintelligenza agente, ma ò anche colui che, in tale congiunzione, libero da ogni elemento materiale (compresa la materialità derivata dallâindividualità dellâintellezione), perviene allâimmortalità a partire da un percorso puramente intellettuale e, soprattutto, in un contesto primariamente terreno e intramondano. Lâimportanza e la peculiarità della testimonianza di Avempace ò facilmente esplicitabile secondo due direttrici: il Regime del solitario non sembra riducibile alla tradizione dei trattati di siyà¢sah shar‛iyah, in cui il fondamento della dottrina dello stato ò ricercato direttamente nel Corano e nelle elaborazioni teoriche delle scuole giuridiche sunnite (vedi al-Ghazà¢là®), nè ò inscrivibile in maniera diretta ed immediata nellâorizzonte della tradizione filosofica specificamente greca, Platone e Aristotele su tutti. Al contrario, Avempace, pur in continuità con alcuni tratti essenziali del mondo greco, quale la matrice divina dellâattività razionale e una comprensione, tuttâaltro che secondaria, dellâattività teoretico-filosofica come suprema dimensione esistenziale, sembra mettere radicalmente in discussione una delle implicazioni fondamentali della tradizione platonico-aristotelica: la possibilità che la costituzione essenzialmente razionale dellâuomo possa trovare il suo compimento ultimo allâinterno di una qualche dimensione sociale o politica. Questa frattura, forse non consumata fino in fondo, segno della vicenda biografica dello stesso Avempace, costituisce lâeredità forse maggiormente affascinante che ci lascia il filosofo andaluso. Attraverso Averroò, il quale si richiama spesso, negli scritti giovanili, ad indicazioni avempaciane, e, soprattutto attraverso la diffusione dellâaverroismo nellâoccidente latino, la proposta di “felicità mentale” che si evince dalla lettura del Regime del solitario troverà vasta eco, pur secondo modalità eterogenee, in tutta la storia del pensiero medievale, finanche, forse, allâinterno della Divina Commedia di Dante. Lâinteressante e provocatoria implicazione primaria di tale proposta, che sembra giustificarne la sua talvolta traumatica messa in discussione tanto nel mondo islamico, quanto in quello cristiano, sembra risiedere nellâaspetto fondamentale che ne costituisce anche lâeredità forse più affascinante: la priorità del filosofo e della filosofia sul resto dellâumanità e sulle restanti scienze rispetto allâambito del divino. In tale prospettiva solo il filosofo, il solitario, ò colui il quale ò in condizione di elevarsi sino al supremo grado di conoscenza, in uno stato quasi profetico, fino a divenire simile a Dio; solo al filosofo (in una prospettiva che di fatto svincola qualsiasi possibilità escatologica da ogni matrice teologica), come guadagno radicalmente ed esclusivamente intellettuale, spetterà autenticamente lâimmortalità e la salvezza, solo la filosofia potrà dirsi propriamente “scienza divina”.
- Letteratura Araba ed Ebraica