Noto anche come Leonardo Aretino, Leonardo Bruni nacque ad Arezzo nel 1370 e morì a Firenze il 9 marzo 1444. Ancora adolescente, viene fatto prigioniero dai ghibellini fuorusciti rientrati in città con l’aiuto dei Francesi e rinchiuso nel castello di Quarate. Liberato insieme coi suoi familiari, si trasferì a Firenze, dove lo troviamo già nel 1396; si dedicò dapprima allo studio della giurisprudenza, poi giunto a Firenze il celebre Manuel Crisolora di Costantinopoli nel 1396 si dedica allo studio del greco, alla scuola del quale conosce i più importanti umanisti fiorentini, come Francesco Filelfo; ebbe come maestro anche il Malpighini e fu intimo di Coluccio Salutati. Nel 1406, una volta tornato a Roma, il Papa Innocenzo VII lo nominò segretario pontificio, in un momento storico molto difficile per i rapporti tra Roma e il Papato: nell’agosto dell’anno precedente una delegazione di cittadini romani si presentò al Papa insultandolo e accusandolo di non muovere un dito per la ricomposizione dello scisma (c’erano ben tre papi); s’intromise il nipote Luigi Migliorati che fece uccidere undici rappresentanti della delegazione, scatenando una violenta reazione per cui il papa fu costretto ad abbandonare Roma, rifugiandosi a Viterbo e potò tornare solo nell’agosto dell’anno dopo. Il Papa sarebbe morto il 6 novembre 1406. La carica fu confermata dal successore Gregorio XII prima e da Alessandro V e Giovanni XXIII poi, e dal Bruni venne tenuta sino al 1414, eccettuata una breve interruzione tra il 1410 e il 1411, durante la quale fu segretario della Repubblica fiorentina mentre a Roma la sede papale rimaneva vacante; insediatosi a Roma il nuovo papa (o meglio, antipapa) Giovanni XXIII, cioò il vescovo di Napoli Baldassarre Costa, che sembra avesse avvelenato il predecessore Alessandro V a Bologna, conferma l’incarico al Bruni, e nel 1414 si farà accompagnerà al Concilio di Costanza, dove verrà dichiarato decaduto il 29 maggio 1415 come simoniaco e condannato alla prigionia. Il Bruni torna allora in Italia e si trasferisce definitivamente a Firenze, che gli concede il diritto di cittadinanza nel 1416, dopo la pubblicazione del primo libro della Storia fiorentina. Nel 1426 fu mandato insieme a Francesco Tornabuoni come ambasciatore presso il Papa Martino V che, eletto a Costanza l’11 novembre 1417, era potuto finalmente tornare in Roma il 30 settembre 1420, accolto calorosamente dalla folla festante e felice di avere finalmente come papa un concittadino. Nel 1427 Firenze gli dà l’incarico di Cancelliere, succedendo a Paolo Testini. Quando finì il IX libro della Storia, ebbe la cittadinanza onoraria con esenzione dalle imposte. Fu uomo di grande autorità , vigoroso ed arguto parlatore e aveva ricoperto a Firenze altre cariche pubbliche. Alla sua morte la città gli tributò onorevole e solenni esequie e fu sepolto in Santa Croce in un mausoleo opera di Bernardo Rossellino; sulla tomba fu posta questa iscrizione: POSTQUAM LEONARDUS E VITA MIGRAVIT HISTORIA LUGET ELOQUENTIA MUTA EST FERTURQUE MUSAS TUM GRAECAS TUM LATINAS LACRIMAS TENERE NON POTUISSE (Dopo che Leonardo abbandonò questa vita / la storia piange e l’eloquenza ò muta / e si racconta che le muse sia greche sia / latine non abbiano potuto trattenere le lacrime) Il Bruni ò rappresentato nel rilievo disteso sul sarcofago della sua tomba nelle vesti di retore, per l’estremo amore che in vita aveva mostrato per la civiltà di Roma antica. Il volto raffigurato di fronte rispetto allo spettatore mostra una estrema cura fisiognomica tanto che ha fatto pensare al ritratto desunto da un calco dal vero. Per il volto si fa il nome di Antonio Rossellino, mentre per il complesso si fa quello di Bernardo Rossellino, della scuola di Leon Battista Alberti; ed ò proprio alla scuola di Leon Battista Alberti che molti critici propendono di assegnare la progettazione del complesso monumento funerario. Sta di fatto che la complessità stessa e la bellezza e grandiosità del monumento testimonia tutto l’affetto che la cittadinanza di Firenze portò al celebre concittadino onorario. Oltre alla Storia citata, in cui un vivo interesse politico lo portò a intendere, con una profondità e un senso critico insoliti alle cronache del tempo, le vicende di Firenze, e a rivolgere la sua attenzione, più che alle imprese militari, alla costituzione interna e alle vicende civili, vanno ricordati i Commentari che narrano avvenimenti a cui lo scrittore partecipò, talvolta come uno degli attori non tanto di secondo piano. Scrisse inoltre storie della Origini della città di Mantova, delle Origini di Roma. Studioso e divulgatore delle letterature e della cultura classica, soprattutto greca, tradusse l’Etica Nicomachea e la Poetica di Aristotile, parecchi dialoghi di Platone, parecchie vie di Plutarco, sei Orazioni di Demostene e una di Eschine. Cultore del volgare, prese posizione contro i suoi detrattori, nella quattrocentesca questione della lingua, coi Dialoghi ad Petrum Fistrum, ed in volgare compose Le vite di Dante e del Tetrarca. Bruni fu un umanista di profonda cultura, consapevole del significato civile dell’impegno letterario. Fu tra i maggiori scrittori in latino del suo tempo, soprattutto come traduttore dal greco di Platone di cui tradusse Fedone (1405), Gorgia (1409), Fedro (1424), Apologia (1424); e di Aristotele di cui tradusse Etica a Nicomachus (1416-7), Economici (1420-21), Politica (1435-38). Si tratta di traduzioni importantissime dal punto di vista culturale. Per i lettori di oggi, la sua opera più importante sono le Storie del popolo fiorentino (Historiae florentini populi) in dodici libri, iniziate nel 1414 e concluse con il Commentario degli avvenimenti del suo tempo (Rerum suo tempore gestarum commentarius) scritto nel 1378-1440. L’opera ò tesa a esaltare la libertà di Firenze, ad affermare il suo ruolo egemonico in Italia: sono concetti già prefigurati da Bruni nel suo Elogio della città fiorentina (Laudatio florentinae urbis, 1401-3). Nella sua opera storiografica Bruni rivela un metodo fondato sul confronto dei documenti e sulla rinuncia a ogni interpretazione provvidenzialistica. Impegnato nella rivalutazione del volgare, Bruni scrisse una Vita del Petrarca (1436) e una Vita di Dante (1436) su Alighieri. In quest’ultima riconosce la grandezza della poesia alighieriana e la validità della lingua nuova di fronte alle antiche lingue classiche. Leonardo Bruni deve la propria formazione culturale a Crisolora e a Salutati: questâultimo lo invitò a seguire gli insegnamenti del primo, dopo che Bruni ebbe abbandonato gli studi di diritto civile. In un passo dei Commentarii, egli stesso ci racconta la sua profonda avversione allo studio delle lettere greche: “Io in quel tempo studiavo in ragione civile, non rozo degli altri studii perchè naturalmente ardevo dâamore delle scienze et a dialectica et rethorica haveo data opera non picola. Per la qual cosa nella venuta di Chrysolora cominciai a dubitare; perocchò abandonare lo studio di ragione, mi pareva dannevole, et tanta comodità dâimparare le greche lettere lasciare, stimavo quasi pechato. Et spesse volte giovenilmente a me medesmo così parlavo: Tu quando Homero, Platone et Demosthene, et gli altri poeti philosophi et oratori, deâ quali tante et sì mirabili cose si dicono, puoi vedere et insieme con loro parlare et della loro mirabile disciplina riempierti, lasci et abbandoni? Tu questa facoltà divinamente offertati lasci passare? Già settecento anni nessuno in Italia ha saputo le lettere greche et pure da loro essere ogni dottrina confessiamo [â¦]. Molti dottori di ragione civile sono in ogni luogo nè mai dâimpararlo ti dee manchare comodità ; ma questo ò uno et solo dottore delle greche lettere: se questo dinanzi ti si toglie, nessuno poi si troverrà da cui tu impari. Alfine vinto da queste ragioni, mi detti a Chrysolora con tanto ardore dâimparare, che quel che il dì veghiando imprendevo, di notte poi etiandio dormendo referivo” (traduzione di Girolamo Pasqualino, contemporaneo di Bruni). Dei suoi due autori prediletti dellâantichità classica (Aristotele e Cicerone), Bruni volle narrare la vita (Vita Aristotelis e Vita Ciceronis), e con altrettanto zelo ed entusiasmo egli volle stendere anche una Vita di Dante (1436) in volgare, superando le riserve dellâambiente umanistico â anche fiorentino â verso i grandi trecentisti in genere (tematica che sarà ripresa da Pico nella sua disputa con Ermolao Barbaro), e verso Dante in particolare, che erano state oggetto di discussione, pro e contro, nei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, che lo stesso Bruni aveva scritto nel 1401. Bruni riconosce nella sua opera su Dante la grandezza insuperata del poeta fiorentino, il cui ingegno non fu affatto inferiore a quello dei “grandi” dellâantichità ; Bruni riconosce anche la validità della lingua volgare in cui lâAlighieri aveva espresso il suo mondo, poichè â comâegli afferma nella Vita di Dante â “ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo suono e suo parlare limato e scientifico” e fra latino e volgare non vâò altra differenza “se non come scrivere in greco o in latino”. Ciò non toglie, naturalmente, che Bruni apprezzi sommamente il latino e il greco, e non ò un caso che sia scritta in greco lâopera De militia. Ma, a testimonianza dei suoi interessi per il volgare, egli scrive in volgare Sulla repubblica dei Fiorentini (Peri thV twn Flwrentinwn politeiaV), una novella imperniata sulle vicende di Seleuco, re di Siria, che cede al figlio Antioco la sua moglie Stratonica.
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