Alcuni anni dopo la morte di Epitteto di Ierapoli (135 d. C. circa), lo stoicismo ha un ultimo sussulto di vita in un personaggio che si trova all’ estremo opposto della scala sociale (il che testimonia come per gli Stoici non conti il ceto di appartenenza), l’ imperatore Marco Aurelio, un vero e proprio filosofo sul trono. Nato a Roma nel 121 d. C., allievo dapprima del retore Frontone che tentò invano di tenerlo lontano dalla filosofia, Marco Aurelio fu imperatore dal 161 al 180, quando morì combattendo i Marcomanni e i Quadi presso Vienna. Apollonio (il grande maestro venuto da Bisanzio a Roma per educarlo e formarlo alla filosofia) gli trasmette i principi essenziali dello stoicismo: lo spirito di indipendenza guidato dalla ragione, l’abitudine all’impassibilità . Ed anche gli insegnamenti di Tiberio Claudio Massimo, uomo di Stato e filosofo, vengono alle volte distorti dalla contraddittorietà e dalla mancanza di una decisa personalità di base che segna Marco Aurelio. Con Claudio Massimo, il futuro imperatore apprende le virtù fondamentali dello stoico: il senso del dovere e il coraggio in ogni momento della propria vita; la capacita di assolvere i propri compiti a qualsiasi costo; l’autocontrollo, cioò l’assenza di stupori o turbamenti, di boria e ipocrisia; infine, e soprattutto, la clemenza. Certo il giovane Marco vivrà nel pensiero stoico con una parte del proprio intelletto. Ma è anche vero che non riuscirà mai a sentire pienamente e con slancio la dottrina nella quale vede lo strumento per raggiungere l’adiaforia (ossia l’indifferente serenità¡ nei confronti del reale, l’accettazione razionale dell’accadimento universale di cui facciamo parte) e sfuggire alle angosce che nascono dall’evidente conflitto fra i suoi naturali istinti e la filosofia che vuole interiorizzare. Egli è autore di un’ opera fatta di brevi pensieri, diretti a se stesso, scritta in greco e intitolata A se stesso (Ta eiV eauton). Dalla lettura critica dellâopera e dalla storia della vita personale e politica di questo imperatore “saggio e illuminato” esce il ritratto di un uomo pieno di tormenti cui non è realmente congeniale la logica stoica, come dimostra il fatto che egli la insegue senza riuscire ad afferrarla, se non per qualche attimo e con le mani incerte dell’uomo reso debole dalla mancanza di una netta, precisa, irrinunciabile visione interiore. Per un imperatore la distinzione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi è molto meno drammatica che per l’ex schiavo Epitteto o per i senatori in conflitto con un potere che li sovrasta. Per l’imperatore, il termine di riferimento verso l’alto diventa il cosmo intero nella sua eterna vicenda, di fronte al quale il piccolo mondo umano appare inconsistente e futile. Da un autore che gli è caro â Eraclito di Efeso – Marco Aurelio attinge una concezione del mondo come perenne fluire. L’arroganza umana nasce, a suo avviso, dalla presunzione di essere immortali: il risultato è un radicale ridimensionamento di sò e del mondo circostante. Per l’imperatore, l’ altro non è più una sorgente potenziale di minacce di asservimento, viceversa, è l’altro che dipende dall’imperatore e pertanto è da sopportare, non da combattere. Non di rado Marco Aurelio lascia affiorare il senso di solitudine che l’ imperatore avverte nella sua corte: egli dice a proposito che “nessuno è così favorito da non avere accanto a sò, al momento della morte, qualcuno che gioisca del triste evento”. Egli sa di poter trovare nella corte non amicizia, ma soltanto dissimulazione e, di fronte a questa triste constatazione, egli può evitare di isolarsi completamente grazie all’ insegnamento stoico, secondo cui ciascuno è parte di quella totalità organica che è l’universo: nell’ordinamento cosmico ognuno ha un posto assegnato, con doveri specifici. Per Marco Aurelio è quello di romano e di imperatore, ma ciò non significa “sperare nella repubblica di Platone”, ossia in un capovolgimento radicale dello stesso ordinamento politico. Il vero punto di raccordo con l’universalità cosmica è ritrovato nel proprio interno, nella consapevolezza di farne parte. All’io ipertrofico e trionfalistico dell’ antico sapiente stoico, Marco Aurelio oppone l’io infinitamente piccolo, che con la morte torna a integrarsi, anche fisicamente, nella totalità . E tuttavia possiamo vedere nella figura di Marco Aurelio, in un certo senso, il raggiungimento del sistema politico auspicato da Platone, il quale asseriva (Lettera VII) che ci sarebbe stato un buon governo solo quando i filosofi fossero diventati re o i re fossero diventati filosofi. E quello di Marco Aurelio, in effetti, fu un buon governo. Egli ò un imperatore onnipotente, ma non riesce a superare gli ostacoli che nella società impediscono la realizzazione della sua filosofia. Nella personale rilettura dello stoicismo, che dalla fondazione in poi ha subito tre revisioni, Marco Aurelio non porta una rielaborazione originale, non fa una rivisitazione anche in chiave politica, rivisitazione che sarebbe stata necessaria in presenza della sempre più impetuosa diffusione del cristianesimo e della progressiva consunzione dei valori sociali, dell’economia e della potenza di Roma. Egli annota: “io sono nato per governarli, come il toro la mandria, l’ariete il gregge. E’ la natura che regge l’universo e, se questo è vero, gli esseri inferiori sono nati per i superiori e viceversa” (A se stesso XI, 18). La sua filosofia resta confinata fra i fogli di pergamena, una lancia non scagliata: “Se l’intelligenza è comune agli uomini, pure la ragione, che ci rende ragionevoli, ò a tutti comune. Se questo risponde a verità è comune anche la ragione che ordina ciò che si deve e non si deve fare. Esiste perciò una legge comune, perciò siamo tutti cittadini e perciò partecipiamo tutti a una specie di governo, quindi il mondo è simile a una città … ” (A se stesso IV, 4). Ricorre spesso nella mente di Marco Aurelio il pensiero della morte. Ma questi pensieri, anche se qualche volta apparentemente staccati, sereni, hanno venature di paura, presentano le caratteristiche tipiche di una patologica insicurezza che potrebbe aver radice nella morte prematura del padre e nella conseguente infanzia ricca ma trascorsa con una madre severissima e con precettori che già a dodici anni lo costringono allo studio della filosofia violando i tempi di maturazione della sua identità . Il dubbio lo tormenta, lo attanaglia lâhorror vacui dell’ignoto “dopo”. E gioca sul filo dell’illusione, travolto dall’emotività che l’insegnamento di Apollonio non ha sradicato: “lasciare il mondo degli uomini, se gli dei esistono, non ò affatto motivo di terrore: certo non ti getterebbero nella sventura. Ma se gli dei non esistono, o non si occupano delle umane cose, perchè vivere, in un mondo deserto di dei o vuoto di Provvidenza? Ma invece esistono, e si occupano delle umane cose, e perchè l’uomo non cada in quelli che sono i veri mali, su di lui tutto hanno concentrato” (A se stesso II, 11). L’iter di questo pensiero è sicurezza-dubbio-sicurezza. Nell’annotazione seguente il dubbio prevale, dissimulato appena da un velo di sarcasmo: “dopo aver curato tanti mali Ippocrate cadde malato a sua volta e morì. Alessandro, Pompeo, Gaio Cesare, che pure tante volte rasero al suolo intere città e fecero a pezzi in battaglia schiere intere di decine di migliaia di fanti e cavalieri, infine anch’essi lasciarono la vita. Dopo tanti studi finali sulla conflagrazione del mondo Eraclito, il corpo gonfio per l’idropisia e la pelle spalmata di sterco, morì. Democrito morì a causa dei pidocchi… Ebbene, ti sei imbarcato, il viaggio è finito, sei giunto all’approdo: sbarca. Se ciò significherà entrare in una nuova vita, lì non troverai più nulla che sia vuoto di dei. Se ciò significherà non sentire nulla, cesserai di provare pene e piaceri” (A se stesso III, 3). Ciò che più caratterizza lâopera filosofica di Marco Aurelio ò indubbiamente dato dal contrasto fra una precettistica mirata alla conquista della serenità interiore e il senso di malinconia che aleggia in quelle pagine, traducendosi spesso in cupe meditazioni sul tempo e sulla morte: consapevole di essere lâultimo dei grandi Cesari, Marco Aurelio registra lucidamente i segni premonitori dellâimminente declino dellâimpero, tanto più che i grandi imperatori del passato (Augusto, Traiano, Adriano) sono solo fantasmi inghiottiti dal baratro dei secoli.
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