Vita e filosofia di Marsilio da Padova - Studentville

Vita e filosofia di Marsilio da Padova

Pensiero e vita del filosofo Marsilio da Padova.

Introduzione Marsilio da Padova nacque circa nel 1280, fu medico, studiò presso l’università  di Parigi, nella quale fu successivamente insegnante, fino a diventarne rettore nel 1313. La morte lo colse nel 1342 (o forse nel 1343). Nel 1324 cominciò a lavorare a quella che sarebbe divenuta la sua opera principale, il “Defensor pacis” (“Il difensore della pace”), che dedicò all’imperatore Ludovico il Bavarese. Anni dopo, egli compose un compendio (intitolato “Defensor minor”) del “Defensor pacis”. A causa dello scontro che vide opposti l’imperatore e Giovanni XXII, Marsilio fu costretto a fuggire da Parigi nel 1236 – insieme con Jean de Jandun, seguace di Sigieri di Brabante – per porsi al seguito dell’imperatore, al fianco del quale egli rimase fino alla morte. In sintonia con Aristotele, Marsilio da Padova concepisce lo Stato come un’istituzione naturale, nata dalla congenita esigenza dell’uomo (“animale politico”, diceva Aristotele) a vivere in associazione coi propri simili. Lo scopo dello Stato – sostiene Marsilio, anche qui d’accordo con Aristotele – consiste nel consentire all’uomo di vivere e, oltre a ciò, di vivere bene: in questo senso, lo Stato permette all’uomo di raggiungere la felicità  (che se vivesse da solo, senza il contatto con altri uomini, non potrebbe raggiungere). Perchè ciò si realizzi, diventa essenziale la salvaguardia della pace (a cui si richiama il titolo stesso dell’opera marsiliana) e lo strumento di cui lo Stato si avvale per garantirla ò la legge. L’ intero discorso di Marsilio orbita intorno al problema della pace e l’eliminazione dei conflitti; un tema, questo, già  noto ad Aristotele (e da lui trattato nella “Politica”), al quale era però ignoto quello scontro tra la Chiesa e lo Stato, tra il papa e l’imperatore, che andava configurandosi ai tempi di Marsilio e che il concordato di Worms (1122) non era riuscito a risolvere. Perchè la pace sia assicurata, ò necessaria la legge, il cui fine precipuo consiste nella giustizia civile e nel vantaggio comune. Nessun governante, anche se giusto, può governare senza far ricorso a delle leggi, ma occorre allora chiarire che cosa sia la legge: a ciò Marsilio provvede nel primo dei tre discorsi in cui si articola l’opera “Defensor pacis”; il secondo discorso ò orientato a corroborare le sue tesi con l’ausilio delle testimonianze tratte dalla Scrittura e dai suoi “santi interpreti”, mentre il terzo trae le conclusioni e gli insegnamenti utili che si possono ricavare dai discorsi precedenti. Caratteristica del primo discorso ò la struttura dimostrativa: si tratta di partire da “proposizioni che sono evidenti di per sè ad ogni mente non corrotta per natura, consuetudine o sentimento perverso” per dedurne le conclusioni. L’ esistenza di una regola (o comunque venga chiamata: “statuto” o anche “consuetudine”) come base di qualsiasi governo civile ò per Marsilio un principio di per sè evidente: come già  aveva messo in luce Aristotele, la strada che porta alla conoscenza di tali princìpi ò l’induzione (ossia il procedere dal particolare all’universale); e, nel nostro caso, l’osservazione delle singole comunità  perfette mostra che esse sono fondate su norme e leggi, cosicchò se ne evince che ogni comunità  perfetta ò fondata su norme e leggi. Il termine “legge” si presta però ad una molteplicità  di significati: in primis, “significa un’ inclinazione naturale sensitiva verso qualche azione o passione” (“Defensor pacis”, Primo Discorso, cap. X), come quando, ad esempio, diciamo che il corpo segue leggi diverse da quelle della mente. In un secondo significato, legge “indica ogni abito produttivo e in generale ogni forma, esistente nella mente, di cosa producibile, dalla quale […] derivano le forme delle cose prodotte dall’arte”, come quando diciamo che questa data legge ò la legge della casa. In un terzo significato, il termine legge “indica la regola che contiene i moniti per gli atti umani comandati secondo che essi siano ordinati alla gloria o alla punizione nel mondo futuro”, come quando si dice (S. Paolo, “Lettera agli Ebrei”, VII, 12) “perchè ò trasformato il sacerdozio, ò necessario che si muti anche la legge”. Partendo da queste definizione, Marsilio prova a darne una generale, che tenga conto di esse: “la legge ò un discorso o espressione che nasce da una certa prudenza o dall’intendimento politico; ossia, un’ ordinanza fatta dalla prudenza politica intorno alle cose giuste o vantaggiose ed al loro opposto, e che ha forza coattiva, e cioò per la cui osservanza viene emanato un comando che si ò costretti ad osservare, oppure che ò emanata per mezzo di tale comando”. Parlando della legge, Marsilio da Padova introduce una delle sue più importanti innovazioni concettuali: nella tradizione del pensiero politico e giuridico, confluita nel diritto romano e poi in età  medioevale nel diritto canonico, concetto cardine era quello di legge naturale, ricondotta ad un’origine divina. Marsilio, invece, definisce legge un “precetto coattivo” legato ad una punizione o a una ricompensa da attribuire in questa terra, ossia ad una sanzione. Connettendo il concetto di legge a quello di sanzione e alla sua applicabilità  immediata, Marsilio restringe la nozione di legge al solo ambito umano, escludendo quello divino (caso più unico che raro in età  medievale). Infatti, la legge divina ò anch’essa sanzionata, ma dà  premi e castighi non in questa vita, bensì fuori del tempo, in una vita ultraterrena. Una legge ò tale in quanto una volontà  la emana e ha il potere di farla rispettare, comminando pene nel caso in cui tale legge venga infranta. Il compito di istituire le leggi – considerate dalla ragione umana giuste e utili per la comunità  â€“ spetta al popolo, cioò all’ intero corpo dei cittadini o alla sua parte prevalente (“pars valentior” dice Marsilio). Tale prevalenza può essere intesa in senso quantitativo, ma specialmente qualitativo: si tratta cioò dei detentori delle qualità  migliori. Pertanto, la fonte del potere ò il popolo, che può decidere di affidare il compito di governare ad un principe dotato della forza capace di garantire la pace (cioò un principe che sia “defensor pacis”), fondata sul rispetto delle leggi. La miglior forma di governo ò quella fondata sull’elezione: al di fuori di tale sfera non esiste alcun potere legittimo, autorizzato a ricorrere alla forza. La funzione della Chiesa e dei sacerdoti ò meramente spirituale e consiste nel “conoscere e insegnare ciò che si deve credere, fare o evitare per ottenere la salute esterna”. In casi di contrasti su queste materie di fede, l’autorità  suprema ò – secondo Marsilio – non il papa, ma il Concilio, il quale rappresenta la comunità  dei cristiani. La funzione spirituale non legittima alcun conferimento alla Chiesa e al papa di potere coattivo: essi non potranno comminare pene temporali e scomuniche. Quindi risulta destituita di ogni fondamento la pretesa papale di esercitare il suo potere sull’imperatore e sui governanti. Tale pretesa non può che generare una forma di conflitto – sconosciuta ad Aristotele – tra Chiesa e potere civile, la quale sconvolge e turba pericolosamente la pace, che ò e resta l’obiettivo a cui mira la filosofia marsiliana. In realtà , in quanto membri della comunità  civile, anche i membri del clero devono essere sottoposti alle leggi civili, nè più nè meno dei laici: non fa specie che le tesi di Marsilio – che aprono ragguardevoli spiragli verso una prospettiva laica – vennero vigorosamente condannate dalla Chiesa nel 1327. La difesa dello stato laico E occorre riferirsi qui sùbito, con evidenza, a quello che forse ò l’esempio massimo di moderna laicità , nella cultura trecentesca, l’opera di Marsilio da Padova “Defensor pacis”, dedicata all’imperatore Lodovico, che sopravanzava molto quella politica di frate Guglielmo d’Ockam. Il laico Marsilio, averroista italiano, ghibellino, medico e giurista, maestro delle arti e temporaneo rettore dell’università  di Parigi, era espressione della civiltà  comunale italiana. La sua avversione all’imperialismo papale, catastrofico per l’unità  e la pace in Italia, originava – come l’ostilità  dantesca – dalla situazione storica italiana. Da qui il titolo “Defensor pacis”, che esprime la preoccupazione politica dominante dell’autore, confermata dall’indicazione tematica dell’esordio dell’opera: la “tranquillità ” civile nella città  e nello stato. Altrettanto dichiarata dall‘inizio ò l’ispirazione diretta alla Politica aristotelica, per cui probabilmente valse la collaborazione all’opera di Jean de Jaudun, maggiore averroista francese. E’ assai strana seppure non insolita la disparità  rispetto all’opinione corrente degli studiosi, che si riscontra nel vol. IV e aggiunto dei fratelli Carlyle, così inutilmente insistenti nel negare alle tesi del Defensor pacis un carattere di modernità  “rivoluzionaria”, che l’autore non presumeva e nessuno credo gli abbia attribuito. I Carlyle si riferivano in retrospettiva ai notevoli e pure contraddittori aspetti di secolarizzazione desacralizzante, che affioravano nelle discussioni dei giureconsulti franco-inglesi, a difesa dell’autonomia dell’imperium, col ritorno alle fonti del diritto romano. E citavano quell’Egidio Colonna (Romano) autore fra i secoli XIII-XIV delle citate opere come il “De regimine principum” e il “De ecclesiae potestate”, sbilanciate verso il sovra-potere pontificio. Ma più in particolare citavano il “De legibus” dell’inglese Bracton, per la sua valorizzazione della priorità  della legge, fondata non solo sulla volontà  del principe, coadiuvato dai suoi maggiorenti, ma pure sull’approvazione della comunità , il populus fonte nominale del diritto romano (vol. III, pp. 56ss., 89ss. ). E’ superfluo dire che gli essenziali aspetti di novità  “laica” e “democratica” erano ricondotti (sempre dai Carlyle) allo studio bolognese di giurisprudenza romana, rifondato da Irnerio nell’XI secolo, cioò ai princìpi del diritto romano, che erano espressione eminentissima di benaltra civiltà  politica da quella anche tardo-medioevale. Ma che addirittura li esibiscano come “princìpi tradizionali” nella teoria e perfino nella prassi medioevale, cioò nella civiltà  feudale e teocratica cristiana, ò assurdamente mistificatorio e contraddetto dallo sviluppo della loro stessa opera (vol. III, pp. 409ss.; vol. IV, pp. 11ss., 45ss. ). Se si riferissero al tardo affermarsi della civiltà  comunale e del sistema rappresentativo, dovrebbe essere precisato ma non lo ò e anzi, con tipica astrazione dalla violenza di contrasto degli eventi storici europei, si tende a fare apparire quelle difficili conquiste come espressione “caratteristica” del Medioevo, mentre ne erano conflittualmente l’uscita liberatoria. Il “Defensor pacis” – legato alla premoderna civiltà  cittadina dei comuni –, ò apparso in ovvio senso relativo così “moderno” anticipatore della società  futura, giacchè nessuno dei testi coevi appare così radicalmente “secolare” come il Defensor pacis. Quasi in deliberato contrasto, un altro studioso inglese, Harold J. Laski, professore di scienze politiche a Londra, valutava così altamente l’apporto teorico di Marsilio, “l’esponente di gran lunga più brillante della vera controversia con Roma”, da scrivere: “Le concezioni, che queste tesi gigantesche implicano, adombrano quasi ogni punto della moderna filosofia politica. La sostituzione del popolo al sovrano quale vera fonte del potere, l’insistenza sulla tolleranza religiosa, la riduzione del clero da una gerarchia che domina la vita degli uomini a un ministero al servizio dei medesimi, tutto questo, esposto nei minimi particolari, costituisce una profezia così audace da non avere uguali nella storia del pensiero umano” (“Il pensiero politico del tardo medioevo”, in Storia del mondo medievale, vol. VII, pp. 892-93). L. de Lagarde intitolava il vol. II della sua opera Naissance de l’èsprit etique au declin du Moyen-à¢ge (1934): Marsile de Padoue ou le premier thèoricien de l’ à‰tat laà¯-que. E’ al contrario al limite dell’insensato l’interpretazione di un altro francese, Marcel Prèlot, che in una sua sintesi opinabile di Storia del pensiero politico (1970), scrive che Marsilio avrebbe teorizzato lo “stato totalitario” (p. 161), il cui modello totalitario, strutturale e metodologico, può scorgersi solo nell’autoritarismo poliziesco dei sacri imperi e delle burocrazie ecclesiastiche. E’ invece apprezzabile che pure lo “spiritualista cristiano” F. Battaglia (già  autore di un Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Le Monnier 1928) abbia riconosciuto che Marsilio svolse un nuovo “principio laico”, spinto “con tutta la coerenza possibile fino a scuotere le basi della visione della vita propria dei secoli di mezzo” (“Il pensiero politico medievale”, in Nuove questioni di storia medioevale, Marzorati 1964, p. 523). In tale prospettiva pure un altro storico americano del pensiero politico, George H. Sabine (Storia delle dottrine politiche, 1937, 1949, tr. it. Comunità  1953, p. 232), lo definiva “aristotelico averroista”. Marsilio teorizzava la fondazione “aristotelica” cioò mondana e razionale, civile e laica dello stato, in cui la religione ò inserita come cosa estranea, affidata a una classe speciale, il clero pari a ogni altra classe sociale, la cui funzione ò di insegnare le “verità ” irrazionali, le cose che secondo la Scrittura si devono credere, fare o non fare, per la salvezza oltremondana, e per evitare il male (Defensor pacis, I, VI, 8, mia parafrasi breve dalla antologia di A. Sabetti, Liguori 1966, che integra lo studio su Marsilio da Padova, Liguori 1964; la traduzione integrale dell’opera ò di C. Vasoli, 2^ UTET, 1975). E’ un rovesciamento poderoso, non solo rispetto all’intero Medioevo, ma alla intera storia del cristianesimo ecclesiale pontificio alleato dell’ impero, dalle origini costantiniane. Diceva bene Sabine che tale separazione drastica, fra l’altro anti-tomistica, fra ragione e fede, ò “l’antenata diretta dello scetticismo religioso” e, nelle sue conseguenze, si risolve in un “secolarismo anticristiano e antireligioso insieme” (p. 236). Di fatto solo con questa opera si ha una sortita concettuale e culturale dal Medioevo cristiano. Marsilio era perfettamente conscio della “ardua impresa” che si era assunto, dovendo sfidare e contrastare “la persecuzione del potere violento del vescovo romano e dei suoi complici” (II, II 1). Il Defensor pacis fa distinta analogamente dalla legge “divina” la legge umana, quale prodotto esclusivamente umano e “comandamento” della “totalità  dei cittadini” (universitas civium), o della sua parte prevalente elettiva o assembleare: questa legge ò “civilmente vantaggiosa”, diretta solo al vantaggio comune, in cui consiste la “giustizia civile” (I, XI, 1), che quindi ha una sanzione giuridica, coercitiva e penale, solo umana, legislativa e cioò giuridica. Il centro protagonistico dello stato laico di Marsilio ò il legislator, “causa prima efficiente della legge”, che s’identifica sempre con l’universalità  dei cittadini o con la sua rappresentanza, che istituisce la pars principans governante, il monarca o comunque l’organo che governa, che comanda e decide, avendo potere coercitivo, ma sempre per mandato dei “popoli” (I, XII, 3). Non poteva ancora riferirsi al potere legislativo, ma a quello di governo della comunità  politica autonoma – come scriveva Sabine –, “secondo un concetto comune alla città -stato” (p. 237): io direi in un’ottica democratica comunale, che d’altra parte implica pure il potere di legiferare. In questo senso ò superflua perchè scontata la discussione di McIllwain su questo cap. XII del trattato, “probabilmente il più interessante e importante di tutto il libro” (pp. 371ss. ). Ma ò lo stesso studioso che, rigettando le interpretazioni troppo modernizzanti, ne riconosce la “modernità ” storica (p. 377). Quanto al secondo Discorso di attacco virulento ai privilegi del potere ecclesiastico, si ò accennato come la riduzione sia la più estrema del secolo, nella giusta esigenza di applicare i medesimi princìpi politici, enunciati finora per la comunità  civile, alla chiesa cattolica concepita anch’essa, come era in origine, unicamente quale comunità , precisamente come civium fidelium universitas, ovvero “popolo cristiano”, che si identifica con la comunità  civile. Se la chiesa nel suo costituirsi come regnum, con governo monarchico, esercita nel suo interno i poteri previsti dal suo ordinamento, ò indubitabile che la comunità  cristiana, e pure la gerarchia ecclesiastica, fatta da e di uomini, essendo una comunità  politica sottostà  alle leggi, al governo civile, ai suoi obblighi e alle sue sanzioni penali, assorbendo e vanificando così la legislazione canonica. Marsilio anzi civilizza tutto l’apparato ecclesiastico, dai poteri penali (scomuniche ecc. ) alle proprietà  in concessione, perfino agli obblighi legali delle funzioni religiose, senza parlare del diritto pubblico di destituire ogni autorità  ecclesiastica, incluso il papa. Notava Sabine: “L’idea che la filosofia politica difendesse la libertà  religiosa ò totalmente errata. I despoti nazionali del periodo della Riforma, nella illegalità  della loro posizione, raramente giunsero agli estremi che la sua teoria giustificherebbe, e la cui conclusione sarebbe la soggezione assoluta della religione al potere civile” (p. 240). La dottrina del “Defensor pacis” era comunque una destituzione globale della pretesa plenitudo potestatis, di ogni potere ecclesiastico che non sia “spirituale”. Una utopia irrealizzabile, come si ò constatato nelle compromissioni politiche dei secoli moderni, proprio perchè la costituzione gerarchica risponde puramente a esigenze mondane di potere politico, non a esigenze “spirituali” seriamente sostenibili. Sabine scriveva che questo preparava la Riforma futura, ma per me aveva torto, perchè la Riforma protestante comunque sembrava muovere da esigenze mistico-religiose, mentre la destituzione di Marsilio lui stesso la caratterizza come tendenziale agnosticismo laico. In questo senso, dopo avere censurato McIllwain, mi piace riportare sue parole conclusive di ampio riconoscimento della sua opera, che una volta tanto ritengo pienamente condivisibili. “Il grande significato del Defensor pacis sta nel fatto che in esso per la prima volta lo stato secolare pretende una uguaglianza pratica che può essere ottenuta soltanto attraverso una superiorità  teorica. I papisti estremi avevano trattato per qualche tempo lo stato come un ufficio subordinato della chiesa: il Defensor pacis ò il primo libro che rovesci il procedimento e che consideri la chiesa come un ufficio dello stato, in tutte le questioni di interesse terreno. Il Defensor pacis ò il primo libro, in tutta la lunga controversia, che neghi al clero qualsiasi autorità  coercitiva, spirituale o temporale, diretta o indiretta. Perciò deve essere considerato come una vera pietra miliare, non soltanto nella storia della lotta tra chiesa e stato, ma nello sviluppo complessivo del pensiero politico” (p. 387). Purtroppo questo era un livello e modello dottrinale, quasi estremo e quindi utopico in epoca, sollecitato e motivato dalle controversie politiche anti-ecclesiastiche, che nella realtà  si scontrava con la cultura dogmatica dominante, con l’ordine del mondo imposto nella coercizione teo-politica ecclesiale. Nei cui confronti non l’uomo generico, ma l’intellettuale pensante e scrivente, guadagnava a fatica e spesso con incoerenza e fallimento la propria autonomia di mente e di coscienza, la propria autentica “dignità ” umana. Con tipica visione storico-erudita Garin, notoriamente benemerito degli studi su Umanesimo e Rinascimento, su cui ha prodotto molti libri, perlopiù raccolte di studi specifici, constatava e a un tempo sollecitava ancora un apprezzamento “positivo” sia del Medioevo che del Rinascimento, superando la contrapposizione ottocentesca (anche di Burckhardt), protratta fino nel 900. E citava Hauser quasi come modulo di giudizio consensuale: “il Medioevo ò probabilmente morto per avere realizzato col Rinascimento la maggior parte dei suoi sogni” (cit. in Umanesimo e Rinascimento, op. cit., p. 358). Che ò una battuta priva di senso, se non si precisa di quale “medioevo” si parla, pure nell’affermazione bilanciata che “le due età  si implicano e si escludono reciprocamente” (ivi). Io concordo nel senso dell’impegno di storicizzare ogni età , fuori o dentro le partizioni artificiose ma irrinunciabili di cui si ò indotti a abusare. Lo ripeto, Medioevo Umanesimo e Rinascimento non sono che nomi, come gli dòi tutti, personificazioni sfruttate come indispensabili al discorso storico, ma in sè vuote, cioò da riempire di dati di fatto storici. Nel flusso continuo della storia umana, in perpetuo mutamento, ò ovvio che si osservino successioni di fenomeni, in evoluzione o involuzione secondo i punti di vista ideo-culturali assunti dallo storico. Il Medioevo millenario ò un lungo scenario di eventi economico-politici, di poteri istituzionali auto-conservativi, di interessi in conflitto con altri che vi si oppongono in competizione incessante, con enorme spargimento di sangue; ò una storia di protagonisti diversissimi, di fatti culturali in sviluppo, che modificano ogni momento la fisionomia epocale. Nel Medioevo gli imperi si succedono, la sola spettrale permanenza “divina” ò quella imperiale benpiù temibile, possessiva e totalitaria della chiesa romana. Ma nello stesso Medioevo lo sviluppo italiano e poi europeo delle città , l’acquisto contrastato e il difficile mantenimento delle autonomie politiche, ò una conquista civile e perciò “umanistica” primaria e prioritaria, che cioò precedette di secoli le poche acquisizioni innovative o espressioni eterodosse di inibiti intellettuali organici della chiesa cattolica, o dei “laici” cittadini controllati sempre dal potere ecclesiastico. Pure il nostro sondaggio rapido, che seguirà , lo conferma: poterono molto più, in senso oppositivo “riformatore”, i vari moti ereticali interni (se così può dirsi) alla chiesa, fino al gioachimismo più fantasioso. E’ bene poi ribadire – V. Rossi aveva ragione – che il vero “umanesimo” si formava e si realizzava fuori, col risveglio della vita reale cittadina, con lo sviluppo delle libertà  comunali, in cui l’”umanità ” dei rapporti inter-individuali e di gruppo si affermava nel vigore dei suoi stessi conflitti, con la formazione e la crescita economico-politica e giuridica di una nuova “borghesia” laica mercantile e professionale. Che si espandeva dalle campagne nelle città , in senso antifeudale e anti-autoritario, quindi anche anti-ecclesiastico (Pirenne, Le città  del Medioevo cit., capp. VII-VIII), con lo sviluppo di una libera economia produttiva proto-capitalistica, di scambio monetario ecc. (v. J. Rossiand, in L’uomo medievale cit., pp. 168ss. ). E’ questo l’autentico “umanesimo” tardo-medioevale, che coincise con la nascita e la diffusione delle lingue “volgari” e delle letterature profane, poesia erotica stilizzata, ma anche la prosa “realistica” delle “croniche” ecc., in cui la “umanità ” della vita cittadina ò ritratta e testimoniata quasi al vivo. Che altro “umanesimo” si vuole oltre questo, che non necessitava di modelli classici, di “ritorni” filosofici, ma prorompeva nella vita reale delle città  e delle campagne? Mentre i poeti stilnovizzavano le loro immagini femminili, allegoriche o “reali”, mentre gli intellettuali dotti dissertavano come Dante stesso sull’Amore e sulla Filosofia, la “umanità ” della vita reale si agitava fuori e intorno travolgente. Dante stesso, umanissima vittima, travagliata e sconfitta, esiliato e quasi mendicante nelle corti italiane, scrive il suo grande e dis-umano “poema sacro”, sovraccarico del mondo reale in cui vive, ma stipato nelle sue costrittive strutture giudiziali. Strutture radicalmente alienanti rispetto alla propria stessa “umanità “, per la visione mito -teologica che riconsacra poeticamente, idealmente, misticamente, remote dalla “umanità ” dell’uomo reale. L’”umanesimo cristiano” ò infatti, nè altro può essere, che una rappresentazione perpetuata dell’”uomo medioevale”. L’umanesimo “uma- nistico” (“rinascimentale”) trae risalto e significato storico, nella misura in cui se ne pone contro o comunque ne esorbita per “laicità ” e radicalità  culturale. L’Umanesimo insomma non consiste soltanto delle tecniche filologiche degli studia humanitatis, ma più generalmente, globalmente involge la faticosa riemersione della “cultura dell’uomo”, a tutti i livelli socio-economici e antropo-culturali. In questa prospettiva sono da rifiutare arcate storiche indiscriminanti come quella millenaria “europea” proposta da Paul Renucci, che pure era uno storico “laico”, non confessionale, in L’aventure de l’ humanisme europèen au Moyen-Age (IV-XIV siòcle) (Paris 1953), che identificava proprio con “Le sort de la culture classique au cours du moyen-à¢ge”, e nella seguente pretesa “Renaissance mèdièvale”. Si noti infatti che una “Renaissance” qui Renucci l’ attribuiva già  a Teodorico (per Boezio e Cassiodoro, funzionari imperiali), e ovviamente ai gloriosi carolingi, sempre nell’ ottica di una “cultura antica” in regressione e declino quasi mortale, che tuttavia “rinascerebbe” sempre, pure nei secoli più oscuri. Ma si consideri che anche l’impegno dichiarato di Renucci era giustamente di contrastare se non sottrarre il tardo monopolio italiano dell’Umanesimo e del Rinascimento, suffragato da Burckhardt, opponendogli un fenomeno europeo (sottinteso in prevalenza francese), di “rinascita” umanistica. E ci piace che ne identifichi i valori con la “cultura antica” (classica), e coi suoi ritorni prima rari e sporadici, poi crescenti e più diffusi nella cultura medioevale. Ci piace che qui dica d’ intendere per umanesimo “la volontà  di afferrare l’intera storia del pensiero e dell’arte per mobilitarla laicisticamente al servizio dell’uomo, considerato il più perfettibile degli esseri e il solo capace d’intendere, d’improntare l’universo” (p. 9). Ma quanto si concilia tale prospettiva dell’uomo, che qui s’iden-tifca con la “cultura antica”, e con le pretese “rinascite” medioevali: che cosa “rina-sce” (e in realtà  sopravvive, più o meno) nella corte di Teodorico e in quella di Carlomagno? Ma pure in seguito, proprio in quella prospettiva, ò sufficiente la ricognizione dei testi classici, magari solo quelli neoplatonici, già  acquisiti e cristianizzati da Agostino, a configurare una “rinascita” definibile umanistica, nel senso antropo-culturale anzidetto? Lo abbiamo visto nel nostro non breve percorso teo-filosofico medioevale: in cui la mistificata “continuità ” non ò alpiù che una continua o discontinua assimilazione trasformante, una “conversione” stravolgente dei valori umanistici classici. Si va dal Platone patristico, allievo di Mosò e nunzio di Cristo, all’ari-stotelismo cattolicizzato nella teologia sistematica del santo Tomaso: ò questo l’umanesimo cristiano che può vantare la cultura medioevale europea? Ma finanche il cosiddetto “averroismo latino” di Sigieri e lo stesso pensiero di Averroò, si ò visto come trapeli in contesti teologici pursempre istituzionali, e con quali torsioni, correzioni e ritrattazioni, con quali rischi e conseguenze personali. No, una più rigorosa visione “umanistica” ò obbligata al rigetto di tali diffuse dilatazioni prospettiche, dettate da interessi politici diversi confessionali e laici, ma di scarso esito significante. La “rinascita medioevale” ò un lento processo fatto di limitati e pure minimi episodi, prodotti fra difficoltà  enormi, inibizioni e repressioni ecclesiastiche sempre più tracotanti, sicchè anche l’humanitas dei nostri maggiori poeti e dotti trecenteschi va limitata ragionevolmente. Ricordo il trittico coevo di volumi editi da “Belles Lettres” (1952-54), nella collana “Les classiques de l’humanisme”, Dante disciple et juge du mond latin dello stesso Renucci; Dante Minerve et Apollon di I. Batard, e Dante humaniste di Renaudet: complessivamente una amplificazione spropositata di 1500 pagine! Lo storico Renaudet, nelle sue 550 pp. di Dante humaniste, distingueva un primo e un secondo umanismo di Dante: il breve umanesimo “laico” del Convivio, e quello teologico e mistico dilagante della Commedia, caratterizzato sùbito come “umane-simo cristiano”, che consistette nei limiti ampi della cultura classica di Dante. Renaudet si poneva lui stesso preventivamente il problema del preteso humanisme chrètien, riassunto riduttivamente in una èthique de la noblesse humaine, che sarebbe “rivolta insieme allo studio e all’azione”, e riconoscerebbe, esalterebbe “la grandezza del genio umano, la potenza delle sue creazioni, e opporrebbe la sua forza alla “forza bruta della natura inanimata”. L’essenziale sarebbe “lo sforzo dell’individuo per sviluppare in se stesso, mediante una disciplina severa e metodica, tutte le potenzialità  umane, per non lasciare nulla di ciò che accresce e magnifica l’essere umano” (p. 17). Questa formulazione, che non a caso si appella sùbito dopo al Faust goethiano, ò quantomai ambigua appunto nel suo faustismo individualistico e superomistico della grandeur, nella nostra visione storico-umanistica nella più larga accezione etico-civile, non ò l’umanesimo storico nemmeno rinascimentale, come vedremo. E’ di grande rilievo che lo studio diretto, allora filologicamente possibile, dei testi letterari e filosofici greco-romani permettesse di conoscere la originaria humanitas naturalistica classica, perduta nelle mistificate “trascendenze” ecclesiali cattoliche. Renaudet scriveva cautamente che “essi attribuivano ai testi antichi nei quali si esprime il pensiero greco-romano la virtù di rendere gli uomini più umani conoscendosi meglio”. E però ammetteva lui stesso che “l’antichità ” indeterminata, ma da intendersi “classica”, considerata globalmente nella sua cultura storico- filosofica, “non aveva mai cessato di operare nel senso e nello spirito dell’umanesimo”. Gli intellettuali rappresentativi del rinascimento italiano ritennero – continuava Renaudet, che assecondiamo per consenso – di riprendere, dopo la lunga interruzione medioevale, l’impegno della conoscenza del mondo e della natura umana, carentissimi nel Medioevo, sul quale era fondata l’antica “educazione dell’uomo e del cittadino”, e da cui sembra si aspettassero – diceva – “la riforma intellettuale e morale della moderna cristianità ” (p. 18). Renaudet sosteneva che questo presuppone “un atto di fede nella potenza dello spirito umano, e più ancora un atto di fede nella bontà  e virtù della natura umana”, opposta al tetro pessimismo cristiano ecclesiale dell’uomo peccatore, del mondo diabolico, della natura umana corrotta e dannata, che l’ecclesia divina ò preposta a “salvare”, delegata dai suoi numi, nel suo ordine “soprannatuale” necessario al suo potere. Il comico ò che per tale infame concezione Renaudet rimandi al citato Esprit de la philosophie mèdièvale di Gilson, storico militante cattolico, e precisamente al capitolo “L’ottimismo cristiano”, ottimismo ecclesiastico s’intende. Qui si leggeva a chiare lettere che “il pessimismo cristiano sarebbe così la negazione stessa dell’uma-nesimo”. Anche i promotori della Riforma, a cominciare dagli anatemi di Lutero, pursempre cristiani, erano ostili all’umanesimo sospetto di “paganesimo”, per la sua fiducia nella potenza della ragione e nella bontà  della natura” (Gilson, tr. cit., p. 11). E giustamente citava l’infelice contrasto fra Lutero e Erasmo, di cui diremo più ampiamente poi. Sono i temi fondamentali della nostra costruzione, che vediamo pienamente confermati in questa incipiente “età  moderna”, la cui cultura nascente, nongià  “rinascente”, si produceva in opposizione e possibile cancellazione delle “so-prannature” omicide ecclesiali, strumentali al suo potere mondano. Quanto e come, con quali sofferenze e rischi personali, quegli intellettuali vi riuscivano, ò altro discorso da circostanziare in singoli casi, e non mancheremo di farlo. Senonchè qui lo storico della Sorbona, il laico Renaudet, tornava a sfoderare il suo mistificante “umanesimo cristiano” che, per una sorta di prodigio metafisico, di arcana coincidentia oppositorum, già  dai primi secoli procederebbe insieme dalla cultura antica, avversata e combattuta come “pagana”, ma riscattata dal vangelo: si eleverebbe così “dalla scienza e dalla saggezza greche”, da quella bassura “alla santità  degli apostoli”. Come non esserne edificati? Qui ò lo storico corrivo a riasserire, capovolgendo quanto detto prima da un punto di vista laico-umanistico, le falsificanti tesi ecclesiastiche cristiane, da Giustino a Ambrogio e Agostino fino a Tommaso, sostenendo che “la chiesa cristiana si mostrò attenta dalle origini a trarre partito da ciò che l’antichità  aveva saputo del mondo e dell’uomo”, che quindi “fra la credenza cristiana e la ragione greca si era compiuta una riconciliazione necessaria” (p. 21). Nemmeno sfiorata l’ipotesi di una appropriazione per la propria qualificazione culturale e per la “conversione”, per una cristianizzazione che appare stravolgente, pro-prio nella prospettiva umanistica prima riassunta inequivocabilmente. Si moltiplicano qui a conforto le citazioni più incongrue, sempre facendo fede a Gilson, col massimo semplicismo senza controllo, così mettendo insieme Agostino arcinoto “umanista” trinitario della “Città  di Dio”, il monaco Alcuino patrono retorizzato della “rinascita carolingia”, e perfino i due irriducibili nemici Bernardo e Abelardo affratellati, i mistici Riccardo e Ugo da san Vittore, la “scuola di Chartres” e il monaco Giovanni di Salisbury. Con indiscriminazione totale, del tutto acriticamente, lo storico sorbonico su tali esempi celebrava un autentico “trionfo dell’umanesimo cristiano” medioevale (p. 22), tra una “Rinascenza” e l’altra di quella orrenda storia ecclesiale. Un Renaudet apologista cattolico poteva scrivere qui che santo Tommaso avrebbe costruito, “a fronte dell’averroismo anticristiano e antiumanista, un aristotelismo insieme umanista e cristiano” (p. 23). L’altro sostegno sicuro dello storico militante, dopo e con Gilson, era l’abate H. Bremond, per raccoglierne una esaltazione dell’”umanesimo devoto”, che nei secoli XVI-XVII, rappresentato dai mistici della Controriforma, porterà  alla sublimazione il già  fulgido “umanesimo cristiano”, con l’ esaltazione psichiatrica della “grandezza della creatura umana”, di cui abbiamo fornito larghe prove nella ultima parte del vol. III. Così vediamo che su tali basi equivoche, con tale confusione d’idee, lo storico francese fondava senza fondamento il suo monumento oratorio all’opinabile “umanesi-mo di Dante”, così viziato e in certa misura tradito, col classificarlo nella mistifican-te casella bremondiana dell’”umanesimo devoto”: ò questo che avrebbe avuto “una magnifica affermazione già , indistintamente nell’opera filosofico-politica di Dante, nel Convivio e nella Monarchia, triunfando infine nella Commedia. Il laico cristiano Renaudet non si accorgeva di dequalificarlo in quanto “umanesimo”, concorrendo alla tradizionale appropriazione clericale, che mostrificava quei valori “umanistici” classici, stravolgendoli nel loro esatto contrario, e peggio nei soliti mistificati ibridi falsamente conciliativi dell’inconciliabile, e solo compromissori o puramente retorici, con cui si decanta l’anti- e pseudo-umanesimo cattolico. Si pensi che fra gli obbligati riferimenti cattolici di Renaudet c’ò perfino un libro italiano di Rocco Montano (che se ne sarà  lusingato), allora giovane allievo di Toffanin a Napoli, difensore e ripetitore, dell’umanesimo medioevale culminante nel-l’arci-umanesimo tomistico (Dante e il Rinascimento, guida 1942). Il libro era tutta una rivendicazione polemica, dichiaratamente anti-laicistica e cattolica, della “pro-fonda coscienza religiosa” (s’intende sempre cattolica) degli umanisti italiani, con un attacco alla tradizione laica degli studi da De Sanctis a Cassirer, a Garin e Russo ecc., a cui opponeva quella ortodossa cattolica di de Wulf, Gilson ecc. Così Dante, dopo la “crisi giovanile”, si porrebbe “al centro fra il pensiero medievale e l’ideolo-gia dell’umanesimo, sintesi impareggiabile del rinascimento duecentesco ed anticipazione, insieme, di quello cinquecentesco” (pp. 77ss. ). Ecco il quadretto scolastico dell’assurdo storico e antistorico, in cui si profilava retoricamente, quasi caricaturata “l’immensa figura di Dante”, col consenso incredibile dello storico cristiano-sor-bonico. Che su questi pilastri critici dieci anni dopo riaffermava, senza riserve critiche, come “dimostrate la legittimità  dottrinale e la realtà  storica di un umanesimo cristiano”, dal quale si annuncerebbe paradossalmente l’esprit de la Renaissance – si noti – “nel pieno trionfo della scolastica e della mistica”, in perfetta sintonia storico-culturale (p. 31). Così risplende l’umanesimo cristiano più devoto! Il pensiero politico E’ attuale Marsilio da Padova? Ponendosi in maniera semplicistica questo interrogativo, alcuni storici hanno travisato il contenuto dell’opera marsiliana, il “Defensor pacis”; l’hanno cioò estrapolata dal suo contesto storico e, per giustificare assetti politici successivi, ne hanno isolato arbitrariamente alcune tematiche. Per inquadrare correttamente la genesi e il contenuto della dottrina marsiliana, ò invece necessario conoscere l’ambiente politico e culturale in cui sorge. Il professor Franco Alessio, per meglio illustrare la situazione del ‘300, ò ricorso ad un’efficace metafora: le istituzioni politiche verticalistiche, dure a morire per la loro istintiva e caparbia tendenza alla conservazione, sono state da lui paragonate ad un solido muro, nei cui interstizi si vada lentamente insediando un’erba, la parietaria; quest’ultima rappresenta le nuove forze sociali e politiche che si vanno imponendo per la loro vitalità  e dinamicità . Come l’insediamento della parietaria ò un tentativo, così l’affermarsi del nuovo ò a lungo minacciato dal verticalismo impositivo dell’istituzione tradizionale della Chiesa, che tuttavia inizia a cedere per un processo quasi di autocorrosione. Questa situazione si manifesta in primo luogo sul piano pratico. La “breve Europa” del tempo appare “a macchie”: il vecchio costituito dall’organizzazione sociale tradizionale e dalle tradizionali istituzioni dell’Impero e del Papato, ò intervallato da vaste zone in cui si vanno stabilizzando nuove forme di organizzazione sociale e politica. In Francia il potere effettivo del re, congiunto con la volontà  del popolo, ha tolto l’autorità  e la supremazia agli istituti universalistici dell’impero e della Chiesa. E Padova, importante comune italiano in cui sono vitali i nuovi ceti artigianali e commerciali, ha sostituito anch’essa alla ormai vecchia e malferma tradizione del “potere discendente” una organizzazione politica autonoma, istituendo un governo repubblicano. Marsilio si fa interprete, teorico, di questa innovazione, schierandosi contro il verticalismo della Chiesa, che costituisce ancora, pur se realmente effettivamente indebolito, una minaccia per le organizzazioni politiche secolari. Ed il testo che costituisce buona parte del presupposto dottrinario del “Defensor pacis” e che mai prima d’ora avrebbe potuto essere davvero compreso, date le sue rispondenze con le esigenze che la nuova realtà  sociale suscita nella coscienza degli uomini, e la Politica di Aristotele. La Politica aristotelica ò un testo che la tradizione, della Schola medioevale impone a Marsilio come una auctoritas, nel quale tuttavia egli coglie quegli elementi che gli permettono di avviare un discorso per la risoluzione delle problematiche del suo tempo. La Politica di Aristotele descriveva scientificamente varie forme di Stato, tutte ugualmente legittime, in contrapposizione al modello unico di stampo platonico. Naturalmente Aristotele non poteva prevedere un sistema politico di tipo verticale quale quello medioevale, nei quale dall’alto di una verità  scendesse per gradi intermedi (papa, imperatore ecc. ) l’essenza della vita politica nei fatti. Marsilio, che conosce questa realtà , si serve di Aristotele, integrandolo. Dal testo del filosofo greco, Marsilio trae un mito: quello dell’animale, che ò alla base della visione organicistica dello Stato. Lo Stato viene da lui concepito come un essere vivente tendente a perseguire i propri interessi e a procurarsi i mezzi per realizzarli, nella prospettiva del “bene essere”, quindi non più schiavo della verità  suprema ed assoluta. Lo Stato inoltre ò considerato come un tutto, il cui fine ultimo, cioò il raggiungimento dell’autoconservazione e l’equilibrio, precede gli interessi delle singole parti. E’ interessante notare l’analogia tra le tesi politiche marsiliane e gli studi biologici diffusi a Padova: come il linguaggio politico utilizza termini strettamente biologici, così quello biologico si avvale della terminologia propria della politica. Questi linguaggi sono intercambiabili in quanto esprimono entrambi l’esigenza di autonomia del mondo terreno da quello spirituale. Ritornando alla concezione naturale e organicistica dello Stato, per Marsilio l’armonia dello Stato coincide con la giustizia: ò proprio in riferimento a ciò che, secondo il professor Alessio, emerge l’attualità  di Marsilio. L’idea dello Stato come organismo ò cioò estrapolabile dallo scritto marsiliano e dal suo contesto storico; in forma di schema politico, può essere, ed ò stata, applicata a società  diverse, anche di tipo industriale.

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