Vita e filosofia di Montaigne - Studentville

Vita e filosofia di Montaigne

Vita e pensiero del filosofo Montaigne.

Breve presentazione Con Montaigne lo scetticismo torna in auge e rivela una novità  di motivi perchò è considerazione realistica e revisione critica dei problemi della cultura contemporanea. Michel de Montaigne nasce il 1533 nel castello avito di Montaigne, nel Perigord, studia diritto in gioventù e in seguito ricopre cariche pubbliche a Bordeaux; ma a partire dal 1571 si ritira nel suo castello a vita privata, lontano dalle lotte politiche e religiose che insanguinano la Francia dei suoi tempi e, salvo brevi interruzioni, attende alla redazione e all’accrescimento dei suoi Essais, fino alla morte, che lo coglie nel 1592. Nei suoi rapporti familiari e sociali Montaigne ha applicato con implacabile egoismo la massima stoica, che troviamo nel suo scritto Essais (I, 38): “la vera solitudine si può godere anche nelle città  e nelle corti dei re; ma la si gode meglio stando appartati… Bisogna aver donne, figli, beni e soprattutto salute, se si può; ma non bisogna attaccarvisi in modo che la nostra felicità  ne dipenda: bisogna riservarsi un dietrobottega tutto proprio, tutto indipendente, in cui possa riporsi la nostra vera libertà  e il nostro principale e solitario rifugio”. Vi è qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma è un ascetismo mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale. Non vi è una filosofia ben definita e compatta nel Montaigne: nei lunghi anni del lavoro di redazione, il suo pensiero si è venuto orientando in modo sempre diverso, passando dallo stoicismo all’epicureismo e infine allo scetticismo. Ma, al di sopra di ogni spirito di sistema, Montaigne interessa la storia del pensiero come il maggior esponente della crisi del neoclassicismo umanistico. Se nel Rinascimento non erano mancate delle proteste contro il feticismo per l’antichità  e qualcuno aveva perfino capovolto il criterio della valutazione comparativa tra i classici e i moderni, facendo dei primi l’espressione dell’ infanzia, dei secondi quella della maturità  dello spirito, nessuno al pari di Montaigne ha saputo ricondurre l’antichità  al comune livello umano. E ha fatto questo seguendo spregiudicatamente i suoi autori nei loro ragionamenti, nelle loro opere, spregiudicatamente giudicando, ad esempio, un Cicerone o un Platone: “la licenziosità  del tempo mi scuserà  questa sacrilega audacia di stimare che anche i dialoghi di Platone si trascinano per le lunghe e che la loro materia è troppo soffocata”. Così, a spregio egli ha il gusto retorico, particolarmente in voga ai suoi tempi: l’educazione umanistica non ha avuto per fine di farci buoni e saggi, “non ci ha insegnato a seguire e ad abbracciare la virtù e la prudenza, ma ce ne ha impartite le radici grammaticali e le etimologie; noi sappiamo declinare la virtù, ma non amarla”. Di sapore accentuatamente stoico è invece il suo disprezzo per la morte, che gli suggerisce alcune delle considerazioni più profonde e vissute degli Essais: “la premeditazione della morte è premeditazione della libertà . Chi ha appreso a morire, ha disappreso a servire; non c’è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione stessa della vita non è un male”. Inoltre, quella sua indifferenza per la vita sociale è espressione di un atteggiamento conservatore: “ò dubbio se vi sia profitto nel mutamento di una legge ricevuta, quale che sia: perchò una costituzione è come una costruzione di vari pezzi uniti insieme con un tal legame che è impossibile rimuovere uno senza che tutto il corpo ne risenta. Io per me sono disgustato delle novità , qualunque faccia esse abbiano”. Per Montaigne non è lecito fare una stabile e dommatica professione di non sapere: la formula perfetta non è quella degli antichi “io non so”, ma “che so io? “. Non abbiamo nessuna comunicazione col vero essere delle cose: chi si ostina a voler attingere l’essere, fa come chi volesse, nel pugno, stringere l’acqua, che, più la stringi e più scorre dappertutto. Montaigne scopritore del moderno Tutti concordiamo, almeno in linea di principio, sul fatto che l’età  moderna cominci laddove finisce il Medioevo: ma, non appena ci domandiamo quali siano gli autori che incarnano col loro pensiero l’ avvio della modernità , le prospettive cominciano a divergere. Una lunga tradizione che trova la sua prima formulazione nella celebre opera di Jacob Burkhardt La civiltà  del Rinascimento in Italia e che giunge, passando per diverse e – spesso – contrastanti tappe, fino a Giovanni Gentile, tende a leggere nei trattati celebrativi del genere umano fioriti soprattutto nel Quattrocento la prima e compiuta teorizzazione del moderno: scritti platonici come l’Orazione sulla dignità  dell’uomo di Pico e la Teologia platonica di Ficino, o trattati sensu lato aristotelici come il De avaricia di Bracciolini, il De familia di Leon Battista Alberti o il De dignitate et excellentia hominis di Manetti, segnerebbero pertanto la nascita della modernità , di una modernità  che tuttavia prenderà  piena coscienza di sè soprattutto con il Discorso sul metodo di Cartesio, che del mondo moderno costituisce il manifesto. Ma questa prospettiva, che così a lungo ò parsa inattaccabile, scricchiola non appena ci domandiamo quali siano i tratti distintivi del moderno: a tal proposito, la definizione fornita da Hegel pare illuminante; egli asserisce che il moderno consiste in una conversione dal cielo alla terra, mettendo in luce come la differenza più evidente – almeno in prima analisi – tra l’età  medievale e quella moderna sia da rintracciarsi in una diversa concezione del mondano e del terreno: mero teatro in cui si vedono all’opera le qualità  dei singoli individui che così possono guadagnarsi l’accesso alla vita eterna, il mondo terreno, infestato dai mali e dalla presenza di un diavolo che ci tenta in ogni istante, ò per i Medioevali una semplice anticamera al vero mondo celeste, di fronte al quale il nostro perde ogni valore. Al contrario, nell’età  moderna – un po’ come era accaduto con i Sofisti e con Socrate dopo le indagini cosmiche e fantasmagoriche dei fusiologoi – gli uomini tornano coi piedi per terra, abbandonando i nebbiosi cieli della vita eterna e prendendo coscienza di come quello in cui quotidianamente si trovano a vivere sia il mondo reale, con l’inevitabile conseguenza che la prospettiva teocentrica cede il passo a quella antropocentrica, le certezze rivelate dai Testi sacri vengono sostituite da una ragione che – ridestatasi dopo il lungo letargo medievale, in cui era relegata al ruolo di ancilla theologiae – torna ad essere socraticamente curiosa di tutto. Ma la conversione di cui parla Hegel non consiste esclusivamente in un abbandono dei cieli della religione, ma anche di quelli – altrettanto nebulosi distanti dalla vita reale – della metafisica e delle sue certezze inattaccabili: le categorie platonico-aristoteliche del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto assolutamente intesi si fanno in disparte e il loro posto ò ora occupato da nuovi parametri saldamente legati alla vita nella quale siamo immersi: subentrano le mondane categorie dell’utile, del conveniente, del vantaggioso, tutte accomunate da una rinuncia alla pretesa di cogliere il mondo quale effettivamente ò, e dall’accettazione di una più modesta e risicata prospettiva che renda conto di che cosa ò al singolo utile di volta in volta. In una tale ottica, le categorie totalizzanti adottate dalla metafisica risultano a dir poco chimeriche ed illusorie, fantastiche e inapplicabili alla realtà , quasi come se nella ricerca platonica e aristotelica delle essenze universali si fossero perse di vista le entità  individuali che popolano il mondo reale: il metafisico – tanto quello platonico-aristotelico quanto quello cristiano – può allora essere a ragion veduta accostato a Talete, che – scrutando il cielo – smarriva il contatto con la terra, precipitando nei pozzi e facendosi perciò deridere dalle serve. Ma se la modernità  consiste in un ritorno coi piedi a terra dopo il lungo quanto improduttivo volo della metafisica, possiamo davvero dire – in sintonia con la tradizione avviata da Burkhardt – che gli archegeti di questa nuova età  siano Pico, Leon Battista Alberti, Ficino, Bracciolini, e tutti gli altri autori di trattati del primo Quattrocento? Se soffermiamo per un attimo la nostra attenzione sulla già  citata Orazione sulla dignità  del genere umano di Pico ci accorgiamo facilmente di come la conversione dal cielo alla terra sia più apparente che reale: l’uomo ò sì per Pico il supremo tra gli esseri del creato, in quanto capace – grazie al libero arbitrio – di innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti, ma in definitiva mantiene il cielo come mòta ultima (platonica e insieme cristiana) dell’uomo, restando in tal maniera lontanissimo dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. La stessa immagine dell’uomo che affiora dal pensiero di Ficino pare non riuscire a smarcarsi del tutto dal cielo: pur insistendo egli – in termini spiccatamente antropocentrici – sull’assoluto primato di cui l’uomo (inteso come copula mundi) può vantare all’interno del cosmo, ciononostante non rinuncia a porre Dio come punto supremo a cui l’uomo tende. Sul versante in senso lato “aristotelico” ci imbattiamo in un reale svincolamento dai cieli cristiani, ma non per questo possiamo affermare di trovarci dinanzi al moderno: tutti questi autori (Alberti, Manetti, Bracciolini) restano saldamente legati alla prospettiva aristotelica dell’uomo come campione di virtù, capace di coprirsi di una nobiltà  acquisita per merito e non per via ereditaria. Sicuramente questa variante ò più “moderna” rispetto a quella di Pico e di Ficino, ancora così legati al “cielo” e distanti dalla “terra”, ma non ò ancora corretto dire che in questi autori si trovi la modernità , altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere ch’essa consista in una ripresa anacronistica dell’etica aristotelica della virtù e dell’ottimismo che da essa trasuda. Nella tesi che intendo sostenere, ò con Montaigne che si spalancano le porte del moderno, concepito – seguendo la definizione hegeliana – come ritorno sulla terra, ma anche come rifiuto di quel principio di autorità  a cui costantemente ricorrevano i Medioevali e come trionfo del dubbio sulla certezza metafisica, aspetto, questo, da cui scaturisce un necessario privilegiamento per le piccole conoscenze che quotidianamente facciamo nella nostra personale esperienza di contro alle grandi quanto illusorie certezze metafisiche di comprendere in toto la struttura del mondo. Sarà  pertanto utile fare costante riferimento al pensiero di Cartesio, che abbiamo detto essere l’ autore con cui il moderno prende piena coscienza di sè e giunge alla consapevolezza che le modalità  di ricerca seguite dai predecessori, se non hanno saputo darci alcuna certezza, vanno abbandonate; si tratterà  allora – dopo essersi congedati dalla filosofia precedente – di partire da zero con una nuova indagine, fissando però preliminarmente il nuovo metodo da seguire: ed ò a tal proposito che Cartesio stende il Discorso sul metodo. Dunque, dopo esserci sbarazzati degli umanistici quattrocenteschi in quanto o ancora troppo legati a Dio come mòta ultima o dipendenti da un sistema aristotelico di virtù oramai sorpassato, ci troviamo a dover sostenere che il moderno prenda le mosse e da Montaigne e da Cartesio, cadendo così in una (almeno) apparente aporia, dettata dalla così netta diversità  tra questi due pensatori: se il moderno nasce sulle ceneri del Medioevo e dà  un’ immagine del mondo e dell’uomo simile a quella tratteggiata da Cartesio e da Montaigne, se ne evincerà  â€“ come minimo -, data la straordinaria differenza tra il pensiero dei due filosofi, che il moderno ò segnato da un bifrontismo tale per cui l’uomo montaigneiano, dubitante in un mondo che non dà  certezze, convive in perfetta armonia con quello cartesiano, certo delle sue conoscenze assolute che gli permettono di avere conoscenze (laddove esse siano “chiare e distinte”) non meno precise di quelle che ha Dio. E in effetti l’intera modernità  ò percorsa da due diverse scuole di pensiero, spesso in conflitto tra loro, miranti l’una a cogliere metafisicamente il reale e l’umano (Hobbes, Spinoza, Hegel, Marx) e l’altra (Pascal, Hume, Nietzsche) a mettere in evidenza l’impossibilità  di compiere tale operazione, limitando perciò il conoscere umano al dubbio e all’ incertezza. Ma, nonostante la convivenza (spesso conflittuale) tra queste due scuole di pensiero che abbiamo visto prendere le mosse l’una da Cartesio e l’altra da Montaigne, pare evidente che quella che pretende di cogliere la realtà  e l’uomo nel suo insieme, con sottili stratagemmi metafisici, non sia genuinamente moderna, ma piuttosto segni il protrarsi nella nuova età  delle posizioni metafisicheggianti emerse con Platone e Aristotele e passate per il mondo medioevale; Cartesio, che di tale posizione ò il padre, sarebbe perciò, più che un nemico di Platone e Aristotele, un loro degno prosecutore, ad essi accomunato dalla volontà  di raggiungere certezze salde e inoppugnabili. Sul versante opposto, Montaigne segna realmente il passaggio dai cieli (sia del divino sia della metafisica) alla terra su cui ci troviamo gettati a condurre la nostra esistenza, un passaggio che si palesa come trapasso dalle forme chiuse del sapere metafisico ad un pensiero che si forgia nel contatto con la vita, e che mai oblia le riflessioni dei predecessori. Sia Cartesio sia Montaigne inaugurano l’epoca moderna, ma solo Montaigne ò veramente moderno fino in fondo, ed ò nelle sue pagine che si riconoscono i lineamenti dell’uomo moderno, fluttuante nel dubbio e lontano dalle chimeriche certezze garantite da una metafisica capace di gettar nebbia sul dubbio stesso, ma non di dissiparlo con l’antidoto della reale certezza. Ci troviamo enigmaticamente dinanzi a due inauguratori dell’età  moderna che ne danno due immagini diametralmente opposte, a tal punto che si potrebbe legittimamente dubitare che avessero di fronte la medesima realtà : per Cartesio il moderno ò conquista di quella certezza che l’antico non ò stato in grado di procurare, per Montaigne ò invece rinuncia di cercare una certezza che gli antichi – così pieni d’ingegno e di sagacia – non sono riusciti a conquistare. Tutti e due volgono lo sguardo dal cielo alla terra, ma ò solo Montaigne che compie quest’operazione in modo radicale, fino all’estrema conseguenza di un dubbio che arriva ad erodere anche le certezze che maggiormente paiono tali: egli infatti libera l’uomo tanto dalle catene del divino quanto da quelle della metafisica, proponendoci l’immagine di un mondo caotico in cui le certezze vengono a mancare e anche quelle che unanimemente vengono considerate tali non sfuggono ai martellanti colpi del dubbio. Cartesio, dal canto suo, libera la prospettiva dai vincoli dei cieli religiosi, ma non riesce a portare l’istanza di riappropriazione della terra fino in fondo, restando saldamente legato al cielo per quel che concerne la rigorosa veduta metafisica di cui il suo pensiero si nutre. Il suo ò – per così dire – un ritorno sulla terra solo a metà . Se gli antichi e illustri filosofi non han saputo raggiungere la certezza, ciò ò avvenuto solo in forza dello scorretto metodo da essi dispiegato: sicchò basta mutar metodo per poter comprendere il mondo nella sua interezza, poichè la ragione umana ò onnipotente, illimitata e perfetta, a patto che venga correttamente impiegata. E l’onnipotenza della ragione, sulla quale Cartesio imposta l’intera sua filosofia, ò quanto di meno moderno possa esserci, giacchò era stata l’età  antica che, giungendo in ciò all’apice con Platone e – soprattutto – con Aristotele, aveva nutrito una fiducia illimitata nelle sue potenzialità , senza riuscire ad accorgersi – nella foga – dei limiti intrinseci ed ineliminabili che essa presenta e sui quali non potrà  mai trionfare. La ragione così come la intende Cartesio, onnipossente e incontrastata, capace di produrre conoscenze assolutamente certe, verrà  non a caso messa alla berlina dai più grandi pensatori dell’età  illuministica, che resteranno sì fedeli alle potenzialità  gnoseologiche dell’uomo, ma nella consapevolezza che esse siano pur sempre limitate e impossibilitate a conoscer tutto: così Kant instaurerà  un immaginario tribunale della ragione, in cui essa svolge la duplice mansione di giudice e di imputato, poichè ò essa stessa ad indagare sui propri limiti costitutivi. Ancora Voltaire non esita minimamente ad attaccare Cartesio e la sua concezione della ragione illimitata e inattaccabile, che pretende di conoscere ogni cosa ma che in realtà  non arriva a nulla e, più che risolvere i problemi, ne genera di nuovi: così Micromega – nell’omonimo scritto -, gigante proveniente da un altro pianeta, si fa beffe della dottrina del pensatore francese, rivelando invece una certa simpatia per il pensiero di Locke, con il quale Voltaire stesso ò in sintonia: di contro alla ragione sconfinata e acritica, dogmaticamente certa di sè, Locke aveva invece ridimensionato tale fede, prospettando l’immagine di una ragione accostabile ad una candela capace illuminarci il cammino, ma di una luce fioca e insufficiente per cogliere la realtà  nella sua interezza. Tuttavia, anche per Locke e per gli Illuministi, la ragione resta essenzialmente l’unico mezzo di cui l’uomo dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene a trecentosessanta gradi, pur nella consapevolezza che non potrà  mai conoscere ogni cosa, ma che potrà  almeno portarci a smontare e a dichiarare l’inattingibilità  di alcuni concetti tipicamente metafisici tramandatici dalla tradizione. La differenza tra Locke e Cartesio si configura allora come differenza tra il moderno in senso pieno e il moderno in senso parziale, che si ò sì svincolato dai cieli della religione, ma resta ancora vincolato a quelli della metafisica: Locke sa bene che ogni nostra conoscenza, per quanto profonda possa essere e sempre e di nuovo integrata da altre, non potrà  mai esaurire la realtà ; per Cartesio, invece, la ragione può tutto, cosicchò, se ben condotta, può portarci alla comprensione dell’intera realtà . Una ragione siffatta, però, finisce paradossalmente per configurarsi come irrazionale, poichè rinuncia impulsivamente a porsi questioni critiche sulla legittimità  del proprio operato: il razionalismo cartesiano tende così a naufragare in un irrazionalismo di fondo. Dicendo che la prospettiva critica, rinunciataria e volutamente distante dalle certezze metafisiche, ò quella che sta alla base del moderno, non intendiamo sostenere che invece la veduta cartesiana sia antiquata e sorpassata: chò altrimenti non si spiegherebbe come autori che rientrano a pieno titolo nella modernità  â€“ quali Hegel o Marx – restino ancora in certo modo fedeli ad un modello metafisicamente onnicomprensivo del reale; semplicemente, intendiamo sostenere che il loro ò il trascinarsi in età  moderna di un pensiero che ò tutto fuorchò moderno. Dal canto suo, Montaigne – che ò e resta un umanista tout court, sebbene sia espressione di un umanesimo ormai in crisi – si muove con una certa circospezione quando tratteggia il campo di applicabilità  della ragione, anticipando in tal maniera le riflessioni di Locke e degli Illuministi: lontanissimo dalla prospettiva cartesiana, egli ravvisa nella ragione un proficuo strumento in grado di fornire, più che certezze assolute, utili accorgimenti per la vita comune, validi consigli per muoversi nella caoticità  di un’esistenza di per sè priva di certezze; dai cieli della metafisica a cui ancora volgeva lo sguardo Cartesio, Montaigne ò tornato coi piedi per terra, soffermando l’attenzione non sulle nebbiose conoscenze metaempiriche e onnicomprensive – che ci inducono a creder di abbracciare tutto, quando in realtà  non stringiamo che vento -, ma su quelle orientate all’utile per l’uomo, virando in tal modo verso il moderno (e in ciò la differenza con Cartesio ò inconfutabile). Ben si attaglia allora al pensiero di Montaigne l’immagine della ragione come candela in grado di gettare una tenue luce sul nostro cammino: proprio perchè si tratta di una candela, resteranno necessariamente oscure molte zone (anzi: quasi tutte) del reale, cosicchò sarà  opportuno vagliare con attenzione le opinioni che in merito han formulato gli antichi, poichè la verità  non ò stata da noi colta più di quanto non lo sia stata da loro. Ecco spiegato il titolo dell’opera montaigneana: “Saggi” innanzitutto nel senso del saggiare con circospezione critica il terreno per appurarsi che esso sia abbastanza consistente per essere percorso, il che mette in luce quell’istanza critica e sempre diffidente verso le presunte certezze che invece manca a Cartesio. Montaigne, più modestamente rispetto al suo collega, non pretende di conoscere il mondo nella sua interezza, ma si accontenta di frugare fra le pieghe dell’animo umano, fluttuando costantemente nel dubbio, dal quale non riuscirà  mai ad uscire completamente, rivelando in ciò una matrice scettica. Nel capitolo XXVI dei “Saggi”, egli scrive significativamente: “soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti”, aggiungendo a conferma della funzione conoscitiva del dubbio il verso dantesco: “che non men che saper dubbiar m’aggrada”. Il fatto stesso che nessuno degli antichi – con cui nel suo scritto Montaigne dialoga costantemente in una conversazione al di là  del tempo – abbia raggiunto certezze assolute dovrebbe indurci a ridimensionare la nostra convinzione di poter riuscire laddove tutti han fallito, di fronte ad una realtà  configurantesi come un groviglio inestricabile, che ò a dir poco illusorio credere di poter sciogliere; la posizione del saggio sarà  allora quella di chi – liquidando la chimerica pretesa di conoscere il reale nel suo complesso – si accontenterà  di piccole conoscenze utili per la vita quotidiana, conoscenze che, in forza di tale aspetto ridimensionato, non possono che essere strutturalmente deboli. Anche Cartesio fa del dubbio il suo cavallo di battaglia, ma in modo del tutto diverso: Montaigne parte dal dubbio e vi rimane, prendendo atto dell’impossibilità  di conoscenze “forti” che rendano conto della struttura del reale; in Cartesio il dubbio ò un gradino per raggiungere la certezza, si serve di esso per eliminarlo: revocata in dubbio ogni cosa, non appena rinviene nel cogito, ergo sum l’incontestabile punto archimedico su cui far poggiare una conoscenza illimitata e certa, che non possa essere in alcun modo corrosa da dubbi. Anzi, se egli abbatte l’edificio del sapere tramandato dagli antichi ò proprio perchè esso poteva troppo facilmente essere attaccato (e di fatto lo era) da dubbi in grado di farlo vacillare: il suo obiettivo ò di ricostruirlo da zero su nuove basi incontestabilmente certe, che non lascino più alcuno spazio ai dubbi. Tanto più che quello di Cartesio non ò un dubbio genuino, di cui egli sia stato effettivamente in balia: il suo ò invece un dubitare meramente metodico e artificiale, un voler dubitare su cose di cui in realtà  si ò certi per considerare quali conseguenze ne derivino. Merita, a tal proposito, per meglio comprendere questa divergenza di vedute, affidarci ai testi stessi dei due pensatori. Scrive Cartesio nel Discorso sul metodo: “non imitavo, gli scettici, che dubitano solo per dubitare e ostentano una perenne incertezza: al contrario, ogni mio proposito tendeva soltanto a raggiungere qualcosa di certo, e a scartare il terreno mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l’argilla”. E più avanti egli prosegue: “presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto ò falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità : penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo” (Discorso sul metodo, parte IV). Dai due passi testè riportati, affiora chiaramente il proposito e l’esito del pensiero cartesiano: egli muove da certezze che però la tradizione non ò riuscita a dimostrare tali, e, per riuscire laddove i suoi predecessori han fallito, Cartesio gioca la carta del dubbio, mettendo strumentalmente in forse ogni cosa per poter trovare un punto assolutamente fermo (il cogito, ergo sum) sul quale edificare una filosofia della certezza. Scrive invece Montaigne: “io non sono pienamente signore di me stesso e dei miei impulsi. Il caso ha più potere di me in ciò. L’occasione, la compagnia, lo stesso tono della mia voce traggono dal mio spirito più di quanto vi trovo quando lo esploro e lo uso per mio conto. […] Mi capita anche questo: non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’investigazione del mio giudizio. Posso aver gettato là  qualche arguzia nello scrivere. (Voglio dire: spuntata per qualcuno, acuta per me. Ognuno dice ciò secondo le proprie capacità ). L’ho smarrita al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo talvolta l’ha scoperta prima di me. Se usassi il raschietto ogni volta che ciò mi accade, mi cancellerei del tutto. L’occasione mi offrirà  qualche altra volta luce più chiara di quella del mezzogiorno; e mi farà  stupire del mio esitare” (I, 10). La prospettiva cartesiana ò ribaltata: il dubbio di Montaigne non ò artificiosamente impiegato, ma genuino ed in esso egli resta impigliato a tal punto da non trovar via d’uscita: perfino la sfera dell’interiorità  ne ò contagiata, sicchò l’io non costituisce il punto cardinale su cui far leva per sfuggire al dubbio, ma ò anzi un’incerta zona d’ombra alla pari della realtà  esterna, una zona in cui non si ha potere e in cui, addentrandosi, si finisce per smarrire la via. Sicchè Cartesio si adopera per individuare un metodo in grado di guidare la ragione umana ad una certezza così salda da non poter più essere scalfita da alcun dubbio, e sebbene presenti – nel Discorso sul metodo –, con una forma di modesta autodiminuzione, il proprio procedere come un’acquisizione meramente soggettiva, senza alcuna pretesa di universalità , non si fatica a comprendere come in realtà  egli sia assolutamente certo che il suo metodo sia inattaccabile e applicabile universalmente. Dal canto suo, Montaigne mette preventivamente in guardia il lettore, nella prefazione ai Saggi, dal ritenere che il suo scritto sia animato dalla pretesa di dispensare verità  o precetti universalmente validi e utili, giacchò “mes forces ne sont pas capables d’un tel dessein”: al contrario, il fine dell’opera appare notevolmente ridimensionato se raffrontato con l’intento universalistico che, seppur taciuto, Cartesio rivendicava, e può essere in certo senso ridotto (ed ò ciò che Montaigne stesso fa) all’utilità  personale dello scrittore stesso, il quale, nel comporre l’opera, ha l’opportunità  di meglio addentrarsi nella conoscenza di se stesso, di quell’io che – come abbiam già  rilevato – sfugge alla certezza riconosciuta da Cartesio. Al preteso universalismo di stampo metafisico che soggiace alle opere cartesiane si oppone l’utilitarismo personalistico di Montaigne, che scrive non già  per imbandire verità  o nozioni valide e utili per tutti gli uomini, bensì per conoscersi meglio (e per farsi meglio conoscere dai suoi amici più intimi), secondo l’ antico motto delfico gnwqi sauton. Ma tale solenne imperativo ò, nel caso di Montaigne, destinato a rimanere incompiuto, giacchò il dubbio che travaglia il filosofo francese non risparmia neppure la sua interiorità , cosicchè può essere a ragion veduta ripreso l’antico aforisma di Eraclito secondo cui “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo ò il suo là³gos” (Eraclito, fr. 45 Diels-Kranz). Ma – domandiamoci – non ò forse il dubbio, questo inseparabile compagno del filosofare montaigneano, una delle più tipiche e abituali componenti dell’uomo moderno? Più che raccoglier certezze, non deve egli seminare dubbi? Ne segue che l’immagine dell’autentico uomo moderno si rispecchia molto più nel pensiero sempre e di nuovo dubitante di Montaigne che non in quello di Cartesio, dogmaticamente riposante su verità  già  accertate. Pare quanto meno enigmatico che due uomini così diversi e inaccostabili fra loro siano entrambi i fondatori dell’età  moderna. Lo scetticismo a cui Montaigne costantemente si richiama ò il più fulgido shmeion della sua insofferenza per le certezze di ogni sorta: nello scontro tra il dogmatismo cartesiano e il criticismo montaigneano possiamo leggere in filigrana l’affacciarsi sullo scenario filosofico di quella distinzione – magistralmente colta da Vattimo – tra il “pensiero forte”, certo delle sue verità  (in nome delle quali ò anche pronto a brandire la spada) e il “pensiero debole”, rifiutante le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, consapevole dei propri limiti intrinseci e, perciò, pronto ad aprirsi agli altri, poichè – non potendo essere mai data la verità  nella sua interezza – ò solo dal confronto e dal dialogo che la conoscenza può andare via via arricchendosi, senza tuttavia mai giungere a traguardi ultimi. L’ apertura verso gli altri – da Vattimo intesa come un progressivo aprirsi verso le culture “altre”, da sempre tacitate e represse in nome di una presunta verità  di cui esse non partecipavano – ò presente in Montaigne nella misura in cui egli dialoga con gli antichi e con i contemporanei, introducendo e discutendo – all’interno dei suoi scritti – numerose loro opinioni; Cartesio, dal canto suo, nella fortezza del suo pensare metafisico, non sente questa esigenza, e il suo si configura, più che come un dialogo, come un monologo, tipico di chi ò convinto di possedere la verità : nel “Discorso sul metodo”, egli scrive che “a conversare con gli uomini del passato accade quasi lo stesso che col viaggiare. E’ bene conoscere qualcosa dei costumi di altri popoli, per poter giudicare dei nostri più saggiamente […]. Ma quando si spende molto tempo nei viaggi, si diventa alla fine stranieri in casa propria”. Da ciò emerge benissimo come il rapporto intrattenuto da Cartesio con gli antichi e, in generale, con gli altri non sia mirante ad un autentico arricchimento del proprio sapere, ma, piuttosto, per prendere coscienza che esistono pensieri diversi dal nostro, a cui però non ò bene appressarsi troppo, per non correre il rischio di diventare “stranieri in casa propria”. Per Montaigne, imperando il dubbio, non si può mai aver certezza che quanto asserito dagli altri sia meno vero rispetto alle nostre credenze, poichè manca un termine di paragone a cui riferirsi: da qui scaturisce il costante riferimento al pensiero altrui, ciceronianamente esposto in maniera dossografica, senza mai accordare la palma d’ oro a nessuna corrente filosofica, salvo poi nutrire una certa simpatia per le posizioni scettiche. Ma non ò per questo motivo lecito nemmeno fare – sulle orme di Socrate – una stabile e dogmatica professione di non sapere, cosicchò la formula perfetta non è quella degli antichi “io non so” (a sua volta ricadente nel dogmatismo), ma “che so io? ”; ciò ò forse dovuto al fatto che la realtà  stessa sia soggetta ad un fluire incessante che la rende cangiante in ogni momento, cosicchò – riprendendo Eraclito ed Epicarmo – Montaigne può dire che non possiamo immergerci due volte nelle stesse acque o che l’invito a cena non vale più il giorno dopo poichè non siamo più gli stessi. A coronamento di questa situazione abbandonata da ogni certezza, Montaigne si chiede aporeticamente “che cosa veramente ò? ”, domanda destinata a restare in lui irrisolta. Infatti, a dispetto di quanto crede Cartesio, non siamo in alcun contatto col vero essere delle cose e chi si ostina a voler attingere l’essere, fa come chi volesse, stringere nel pugno l’acqua, che più la stringi e più schizza via dappertutto. Sotto questo profilo, la posizione scettica ò da Montaigne riconosciuta come quella che meglio si adegua ad una realtà  inattingibile quale ò quella circostante, nella quale abitualmente ci muoviamo con troppa certezza, senza interrogarci sul significato delle nostre azioni più comuni. Così Cartesio, partito dal dubbio, lo seppellisce ben presto, ripristinando una certezza ancora più metafisicamente indubitabile di quella tramandata dagli antichi; sull’altro versante, Montaigne – in ciò pirroniano fino in fondo – non trova vie d’uscita e, perciò, resta nel perpetuamente rinnovantesi circolo del dubbio, finendo paradossalmente – al fine di evitare di cadere in contraddizione – per dubitare perfino di dubitare. Sicchò l’uomo della modernità  quale viene presentato da Cartesio ò l’uomo erede della tradizione umanistica, la pedina fondamentale che si muove sulla scacchiera del mondo terreno, di cui può conoscere anche gli anfratti più nascosti attraverso una ragione metafisicamente “forte”, a cui nulla resta celato; al contrario, l’uomo che emerge dagli scritti di Montaigne ò un uomo più attaccato alla mondanità , giacchò si ò liberato dei ceppi sia del dogmatismo religioso sia di quello metafisico, ma ciononostante ò di inferiore statura rispetto all’onnisciente uomo cartesiano che, equipaggiato di una ragione “forte”, può conoscere tutto; infatti, pur coi piedi per terra, egli non può conoscere fino in fondo la realtà  in cui si trova immerso, non ò il centro del creato, ma uno degli infiniti granelli che lo costituiscono e – poichè, per dirla con Orazio, parvum parva decent – la conoscenza di cui può disporre – conseguibile con sforzi immani – sarà  sempre e comunque debole e incerta, poichè la ragione stessa ò affetta da una certa miopia connaturata. Sarebbe però fuorviante e, al contempo, riduttivo credere che Montaigne approdi al dubbio esclusivamente perchè suggestionato dalla lettura del pensiero scettico, giacchò quest’ultimo – a ben vedere – si configura più come conferma che non motore del dubbio montaigneano, acceso primariamente dal particolare momento storico in cui il pensatore francese si ò trovato a vivere e di cui il suo pensiero ò, in certo senso, uno specchio; non a caso, si tratta di un periodo storico profondamente segnato dall’improvviso crollo di buona parte di quelle certezze che avevano fino ad allora accompagnato l’uomo occidentale lungo il suo cammino. Il primo caposaldo a franare in questa strage di certezze ò l’assoluta certezza della propria fede che ogni cristiano in cuor suo nutriva: infatti, con i dissidi religiosi divampati in seguito alla vibrata protesta luterana, che aveva a sua volta acceso la miccia per l’esplodere di altri movimenti di opposizione al cattolicesimo (primo fra tutti il calvinismo), era entrata in crisi la certezza – fino ad allora incrollabile – del cristiano, il quale ora si trova dilaniato dal dubbio nel dover scegliere la vera religione da professare, disorientato dinanzi ad un proliferare di diversi credo religiosi che, per forza di cose, si trovavano a coesistere. La stessa scoperta dell’America aveva travolto la certezza, da sempre nutrita dall’uomo europeo – salvo le eccezioni, che, seppur sporadiche, non mancarono), di essere al centro della terra, certezza ulteriormente demolita dalle teorie di Copernico che, sebbene fossero state presentate dal pensatore polacco solo come ipotesi, prospettavano insidiosamente l’idea che l’uomo europeo non solo non fosse al centro della terra, ma neanche dell’ universo, facendo così tramontare definitivamente la prospettiva ficiniana dell’homo copula mundi, trapassante ora nella più mesta constatazione di Giordano Bruno secondo cui umbra profunda sumus (De umbris idearum). Questa congerie di dubbi assillanti confluisce interamente nella riflessione di Montaigne e trova il suo più adeguato adattamento nel pensiero scettico, che per primo aveva messo in luce in maniera così netta i limiti intrinseci un uomo isolato nella fluidità  dell’universo e movente verso una verità  a cui mai potrà  approdare; ed ò proprio il pensiero scettico che sventola come vessillo dell’antidogmatismo contrapposto ai “cieli” della metafisica e della religione, che non a caso avevano ravvisato in esso il loro acerrimo nemico, capace di gettar scompiglio nelle presunte certezze metafisicamente propugnate. Ma, nonostante lo scetticismo che informa il pensiero montaigneano e ne fa un baluardo dell’età  postmetafisica, sembra che nel rifiuto cartesiano della tradizione antica, volto a fondare su basi certe e stabili l’età  moderna, ci sia molto più di moderno che non in Montaigne e nel suo costante dialogare con i pensatori del passato: si tratta però solo di un’apparenza, destinata a crollare non appena ci domandiamo se l’età  moderna, nella sua profondità , si sia davvero svincolata da ogni legame con la tradizione antica o, piuttosto, se non sia ancora strettamente legata ad essa. A tal proposito, Heidegger dice significativamente che noi moderni non facciamo altro che chiosare Platone e Aristotele, mettendo in questa maniera in luce la stretta dipendenza – che Cartesio aveva tentato di recidere – che ci lega agli antichi; ancora Hegel – che pure nell’intendere la filosofia ò molto più prossimo a Cartesio che non a Montaigne – propone il proprio sistema come risposta alle domande poste dai Greci, e similmente il pensiero di Nietzsche e di Freud nasce sulle venerabili rovine del mondo antico, di cui la nostra età  ò figlia. Se ci soffermiamo anche solo brevemente sugli altri pensatori che costellano l’età  moderna, non possiamo non ravvisare tale dipendenza col mondo antico e con le sue realizzazioni, soprattutto con quella stagione felicissima della storia umana che coincide con il mondo dei Greci. C’ò un passo – nell’apologia di Raymon Sebond – che costituisce un punto nodale del pensiero di Montaigne, un passo in cui vengono ad incontrarsi pressochò tutte le diverse prospettive del suo pensiero: “quand je me joue à  ma chatte, qui sait si elle passe son temps de moi plus que je ne fais d’elle? ” Da questa divertente domanda traspare quel dubbio che alimenta l’intera filosofia montaigneana e che arriva a travolgere perfino gli aspetti più scontati della nostra vita quotidiana, quale può appunto essere il nostro rapporto con gli animali domestici: che cosa può infatti garantirmi che, nel momento in cui gioco con la mia gatta, essa non si stia divertendo più di me? Non c’ò nulla, evidentemente, che possa dissipare tale dubbio, cosicchè peccano di un ottuso dogmatismo coloro i quali vivono nella certezza pregiudiziale di essere al centro del mondo, come voleva la tradizione umanistica da Pico ad Alberti, da Ficino a Valla. Ciascuno di noi finisce per essere in maniera protagorea la misura della realtà  che lo circonda, il che non solo ò legittimo, ma ò anzi del tutto inevitabile, poichè ognuno vede sempre e comunque il mondo coi propri occhi; l’errore nasce quando non ci si accorge della limitatezza della propria debole posizione e si avanza l’assurda pretesa di universalizzarla e assolutizzarla metafisicamente, facendo del nostro debole punto di vista una prospettiva forte e totalizzante, alla quale uniformare la realtà . Montaigne stesso sa bene che, prima facie, la realtà  appaia a tutti tale per cui i protagonisti, tanto nel giocare col gatto quanto nel muoverci nel mondo, siamo noi, ma ò altresì convinto che tale certezza debba essere scavata, saggiata e, in certo modo, incrinata, poichè riposante su una convinzione dogmatica che può in qualsiasi momento essere messa in dubbio: l’età  umanistica dell’uomo in bilico tra il terrestre e il divino (homo copula mundi) ò ormai irrimediabilmente sorpassata, ma non certo in vista di quella che sarà  la prospettiva altrettanto dogmatica e assolutizzante di Cartesio, ad avviso del quale – non diversamente da Aristotele – l’uomo ò un animale pensante il cui ufficio precipuo ò di conoscere la realtà , rispecchiandola oggettivamente. Al contrario – se proprio dobbiam dare una definizione che renda conto del pensiero di Montaigne – l’uomo ò e resta perennemente un animale dubitante, sospeso nel nulla e sorretto solamente dalla fede, intesa però non in maniera dogmatica, bensì come esito necessario di una ragione troppo debole per farsi strada da sè: tale concezione ò contenuta in nuce in questa riflessione montaigneana: “se chiamiamo prodigi o miracoli le cose a cui la nostra ragione non può arrivare, quanti se ne presentano continuamente al nostro sguardo? Consideriamo attraverso quali nebbie e come a tastoni siamo condotti alla conoscenza della maggior parte delle cose che abbiamo fra le mani: certo troveremo che ò piuttosto l’abitudine che la scienza a non farcene vedere la stranezza” (I, XXVII). La stessa sensibilità  di Montaigne per il mondo animale – sensibilità  che ben emerge nel passo della gatta – pare come non mai moderna ed ò anch’essa il frutto di un pensiero che, fluttuando nel dubbio, non può ricadere nella dogmatica convinzione di un’indiscussa superiorità  dell’uomo o – ancora peggio – nella credenza cartesiana che gli animali siano mere macchine che, a differenza dell’uomo – “macchina che, essendo stata fatta da Dio, è incomparabilmente meglio ordinata e ha in sò movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che gli uomini possono inventare” (Discorso sul metodo) -, sono prive di ragione e di sensibilità  e si muovono “solo per una disposizione dei loro organi” (Discorso sul metodo, parte V). L’uomo stesso, in una tale dogmatica prospettiva meccanicistica, altro non ò se non una macchina pensante o, come ha suggestivamente sostenuto Ryle, una “macchina” abitata da uno “spettro” battezzato “spirito” o “anima”. Dal passo della gatta, poi, emerge chiaramente come Montaigne proietti sempre, con una certa modestia, la propria indagine su realtà  quotidiane e, in forza di ciò, più vicine a noi, che le sentiamo a tutti gli effetti nostre perchè può accadere che ci poniamo questioni analoghe: l’investigazione cartesiana che si propone di abbracciare tutto lo scibile umano, dall’universo fisico alle passioni dell’anima, appare allora un miraggio di una ragione che si crede più forte di quanto non sia e, nell’avvitarsi su questioni metafisiche sempre più alte, finisce per perdere contatto con la realtà  terrena; con Montaigne si affaccia invece finalmente sullo scenario filosofico la ipermoderna categoria dell’utile – preconizzata da Machiavelli -, che detronizza quella – tipica dei tempi d’oro della metafisica – del sapere disinteressato, privo di risvolti pratici e, in virtù di ciò, di qualità  superiore. La conoscenza viene in tal maniera subordinata all’utilità , cosicchò – se non produce effetti fruibili – ò indegna di essere seguita: tesi, questa, che trova la sua piena formulazione in Bacone prima e nell’Illuminismo poi, che di Bacone ò in certo senso figlio. Infine, merita di essere rilevato il gradevole umorismo che permea costantemente gli scritti montaigneani – fedele in ciò alla poetica oraziana del ridentem dicere verum quid vetat? – e che raggiunge uno stato di perfetta sobrietà  nella gustosa scenetta di Montaigne che si diverte con la sua gatta; l’umorismo, tuttavia, non era una componente estranea neppure al pensiero di Cartesio, seppur non in maniera così radicata come in Montaigne, che trova il suo diretto precedente in tale gusto per lo scherzo e per l’umorismo raffinato in Luciano di Samosata, a cui ò peraltro anche accomunato dal deciso ripudio di ogni dogmatismo – sia di tipo filosofico, sia di tipo religioso – e dalla convinzione che il pensiero umano sia connaturatamente debole. L’antidogmatismo di Luciano – questo antesignano del “pensiero debole” – si coniugava sapientemente con il gusto del comico e dello scherzo, quando egli, nei suoi scritti dissacranti e demolitori di ogni certezza, metteva in forse l’esistenza degli dòi e della loro integrità  morale, assestando agli abitanti dell’Olimpo il colpo decisivo già  azzardato – ma non inferto con sufficiente forza – dal Prometeo di Eschilo e dagli Uccelli di Aristofane. Del resto, nella Storia vera, l’avversione per ogni dogmatismo sfociava in un divertito e divertente tripudio della fantasia, con l’incredibile viaggio di Luciano – Astolfo ante litteram – sulla luna e su altri mondi infinitamente distanti e diversi dal nostro, fino ad essere ingerito da una balena, anticipando la sorte che toccherà  a Pinocchio. Ora, soffermandosi – seppur giocosamente – su questi mondi “altri” rispetto al nostro, Luciano mette in luce come la nostra abitudine a pensarci al centro dell’universo riposi esclusivamente su una dogmatica convinzione, non altrimenti fondata che sull’ignoranza e su preconcetti accumulatisi l’uno sopra l’altro. Egli fa pertanto professione di quel relativismo culturale già  predicato da Protagora e che Montaigne – in nome del suo dichiarato scetticismo – recupera, alla luce delle recenti scoperte geografiche che avevano portato a prendere coscienza dell’esistenza di popolazioni abitanti sull’altra faccia del pianeta e viventi secondo norme e costumi diversissimi dai nostri, ma non per questo inferiori e indegni di rispetto. Nella ripresa del relativismo culturale – che necessariamente scaturisce da un pensiero il cui cardine sia un dubbio mai appagato – possiamo leggere ancora una volta una componente assolutamente imprescindibile dell’età  moderna, di cui Montaigne si riconferma scopritore, anticipando, in questo senso, le riflessioni relativistiche di Locke (miranti a scardinare la possibilità  di idee innate), del Montesquieu delle Lettere persiane, del Voltaire di Micromega e, in generale, dell’intera narrativa di viaggi che fiorirà  nel Settecento. Di fronte agli indigeni brasiliani, impietosamente etichettati come “barbari” e “selvaggi” dall’Europa in cui dilagavano le funeste guerre di religione, Montaigne assume un atteggiamento che non tradisce, ma anzi ravviva la sua posizione scetticheggiante e antidogmatica, da cui traspare un relativismo che riecheggia i versi pindarici “la consuetudine (nomoV) ò padrona di tutte le cose”: “or je trouve, pour revenir à  mon propos, qu’il n’y a rien de barbare et de sauvage en cette nation, à  ce qu’on m’en a rapportè: sinon que chacun appelle barbarie, ce qui n’est pas de son usage. Comme de vray nous n’avons autre mire de la veritè, et de la raison, que l’exemple et idèe des opinions et usances du paà¯s où nous sommes. Là  est tousjours la parfaicte religion, la parfaicte police, parfaict et accomply usage de toutes choses. Ils sont sauvages de mesmes, que nous appellons sauvages les fruicts, que nature de soy et de son progrez ordinaire a produicts” (I, 31). Dal rilevato dogmatismo che ci spinge a concepire ottusamente come rozzo e indegno tutto ciò che esula dalle nostre usanze, Montaigne prende spunto per mettere in luce i numerosi aspetti che fanno della civiltà  europea dilaniata dai conflitti religiosi un ben più indegno panorama rispetto al mondo dei cannibali: “je ne suis pas marry que nous remerquons l’horreur barbaresque qu’il y a en une telle action, mais ouy bien dequoy jugeans à  point de leurs fautes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Je pense qu’il y a plus de barbarie à  manger un homme vivant, qu’à  le manger mort, à  deschirer par tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l’avons non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pietè et de religion) que de le rostir et manger apres qu’il est trespassè”. L’Europa non ò per Montaigne il centro del mondo, nè l’uomo ò il cuore dell’universo: quelle che a noi paiono usanze ragionevoli, se osservate dal punto di vista di chi non ne partecipa (ad esempio i cannibali, o i Persiani di Montesquieu), si rivelano come morbosi gesti insensati, che poggiano più sull’abitudine che non sulle prescrizioni di una presunta ragione legiferante. Questi, che noi in via del tutto pregiudiziale bolliamo con l’etichetta di “selvaggi”, non possono esser detti barbari solo perchè dotati di una cultura diversa, giacchò – se così fosse – noi stessi diverremmo barbari ai loro occhi, e ciascuno lo sarebbe dinanzi ad ogni altro: più che una dogmatica e violenta imposizione delle nostre “verità â€, imposte con l’efferata arma della crociata, sarà  opportuno aprirsi a queste culture “altre”, tentando il dialogo – ed ò quel che Montaigne fa nel momento in cui cerca di comunicare con gli indigeni brasiliani condotti in Francia nel 1571 -, partendo dal presupposto che la ragione debole non ha svelato più a noi che a loro la verità  e che, pertanto, la via meglio percorribile resta quella del confronto, attraverso il quale ricomporre quel mosaico dalle mille tessere che ò la verità : anzi, a rigore, si potrebbe dire che non si può andar d’accordo perchè si ò raggiunta la verità  â€“ giacchò il raggiungimento di essa ò e resta un concetto limite, un’idea nel senso kantiano -, ma, viceversa, che si ò raggiunta la verità  nel momento in cui si va d’accordo, quando cioò il sordo monologo di una cultura illudentesi di conoscere ogni cosa cede il passo al libero circolo di idee che trova nel dialogo la sua forma più appropriata. In questo senso, si può legittimamente affermare che lo scetticismo di cui Montaigne fa professione in sede etica e gnoseologica non si traduca, sul piano pratico, in un gretto vivere in conformità  delle usanze vigenti dettato dall’impossibilità  di cogliere la verità  delle cose; al contrario, il dubitar di tutto induce Montaigne a dubitare anche della validità  delle tradizioni, senza piegarsi – chè sarebbe un dogmatismo – ad esse, ma saggiandole una ad una con la ragione, debole sì, ma non a tal punto da non accorgersi dell’assurdità  dei dogmatismi. In maniera piuttosto esplicita, il filosofo francese si richiama, oltrechè a Luciano, anche a Plutarco, apprezzandolo per la sua profondità  etica e, trasversalmente, per il “debolismo” che percorre, in maniera sotterranea, la sua opera e che trova forse l’apice in questa professione di antidogmatismo che apre spiragli in direzione dello scetticismo: “tutte queste cose, o Favorino, mettile a confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado nè maggiore nè minore di probabilità , manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il proprio assenso” (Moralia, 955 c). Questo breve brano ben rende conto dello scetticismo di cui il pensiero montaigneano si sostanzia, e che approda non già  a vacillanti certezze che poggiano su basi doxastiche, bensì all’ epoch con cui gli antichi Scettici sospendevano il giudizio, arrivando aporeticamente a sostenere che “ che ogni cosa non ò più questo che quello” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61-62). Con il suo fare spiccatamente antidogmatico e relativistico sul piano culturale, nonchè attento al mondo animale, Montaigne – nell’Apologia di Raymond Sebond – si chiede, sulla scia di quanto aveva già  fatto l’antico Senofane per smontare la concezione antropomorfica della divinità : “perchè un papero non potrebbe dire così: «Tutte le parti dell’universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a infondermi i loro influssi; ho questo beneficio dai venti, quest’altro dalle acque; non c’ò niente che questa volta consideri così favorevolmente quanto me; sono il cocco di natura; non ò l’uomo che mi alleva, che mi alloggia e che mi serve? ”. Pur nel dichiarare la sua simpatia per il dubitare di matrice pirroniana, l’afasia a cui approdava la scuola scettica appare inaccettabile quanto improduttiva agli occhi del filosofo francese, che ad essa oppone – mantenendo valido il presupposto che la verità  resti sempre sconosciuta – un vivace dibattito che finisce per coinvolgere uomini del passato e del presente in un dialogo metastorico non su come le cose siano, ma su come sembrino ai vari uomini che di volta in volta si sono interrogati su di esse. Non ò un caso che questa via fosse già  stata seguita dallo stesso Cicerone, anch’egli simpatizzante per la scuola scettica, nella formulazione probabilistica datane da Carneade. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di una dogmatica e acritica difesa delle posizioni tramandateci dai nostri predecessori, recepite come depositarie della verità  e da addurre come irremovibili certezze per inverare i propri discorsi: piuttosto, sono dei sentieri già  battuti da personaggi dallo straordinario acume intellettuale e che perciò sono degni di essere presi criticamente come modelli su cui plasmare la propria indagine, facendo di essi delle guide e non dei padroni: ò questo un tema direttamente mutuato dalla 33° delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, a cui Montaigne espressamente si rifà . Infatti, di fronte ad una vita che, per la sua brevità , ci consente di esperire un esiguo numero di cose, non resta che affidarsi al pensiero di chi ci ha preceduto, per poter così estendere – seppur solo virtualmente – la propria esperienza a realtà  che altrimenti non avremmo modo di conoscere, in quanto a noi precedenti: da qui nasce l’importanza che Montaigne riconosce alla filosofia e – sulla scia di Machiavelli – alla storia, intesa appunto come la conoscenza di accadimenti che di persona non avremmo mai potuto esperire. Non diversamente da come Aristotele concepiva la dialettica, Montaigne ritiene che la filosofia debba essere esercitata come un costante dialogo con i pensatori del passato, un dialogo in cui però essi possono anche essere criticati e smentiti in nome del dubbio e dell’ antidogmatismo: in questo modo, Montaigne scardina un altro dei pilastri dell’età  metafisico/religiosa e segna un punto nodale nella conversione al moderno: il principio di autorità  (l’ipse dixit) con il quale, anzichè argomentare a favore di una tesi, si adduce l’insindacabile giudizio di una personalità  autorevole e, perciò, inattaccabile; con la caduta di tale dogmatica difesa degli asserti altrui, ritenuti validi più in forza della loro venerabile paternità  che non della loro veridicità , la ragione torna liberamente a muoversi trecentosessanta gradi, estendo la sua presa ad ogni cosa e arrivando a mettere in discussione gli stessi dogmi metafisici e religiosi. E così, di fronte ad un’Europa dogmaticamente addormentata nel pregiudizio che vuole i “selvaggi” come barbari e indegni di esser qualificati come uomini – e perciò da neutralizzare a tutti i costi, come attesta il caso di Francisco Pizarro e degli altri conquistadores -, Montaigne, pilotato da una siffatta ragione instancabile, ribalta la prospettiva, arrivando a tratteggiare un makarismoV in cui immagina questi uomini più felici di noi, perchè immersi nella più assoluta tranquillità , in un regno in cui il rapporto con la natura si ò conservato intatto, di contro ad un’Europa funestata dalle guerre, dalla brama del denaro e dalla corruzione che ne deriva: in questa contrapposizione tra un’Europa in balia della corruzione perchè accecata dalla sete di potere e un mondo “selvaggio”, incontaminato e ancora in perfetto equilibrio con la natura, Montaigne anticipa ancora una volta l’Illuminismo – specie nella sua veste rousseauiana – e il suo mito del “buon selvaggio”, ingenuo e perciò intrinsecamente buono, pur con la differenza che se l’Illuminismo guarda alle culture “altre” solo per meglio comprendere la propria – restando così in una posizione saldamente eurocentrica -, il dubbio mai appagato che anima la filosofia di Montaigne spinge il filosofo francese ad accostarsi disinteressatamente agli indigeni brasiliani, nella convinzione che sul piano conoscitivo essi non fluttuino nel dubbio più di noi, ma che conducano un’esistenza più genuina perchè non (ancora) contaminata dalla virgiliana auri sacra fames che ha appestato la “civile” Europa e dalle tremende macchinazioni ordite per soddisfarla, ignari di quanto “couttera un jour à  leur repos, et à  leur bon heur, la cognoissance des corruptions de deà§à â€ e del fatto che “de ce commerce naistra leur ruine”. In una tale prospettiva l’Europa diventa, da centro culturale e di civiltà , covo di ogni perversione e fonte di tutte le corruzioni immaginabili, nascenti – in ultima istanza – da quel fatidico allontanamento dalla natura che ci ha portati a credere – metafisicamente – di essere onnipotenti. L’utile egoistico e la filosofia come meditatio mortis Uno dei portati principe dell’ età  moderna ò l’indiscussa egemonia dell’utile tanto sulle virtù platoniche e aristoteliche quanto sulla santità  cristiana, accomunate dall’essere frutto di una concezione del mondo universalizzata e, perciò, sfuggente alle particolari articolazioni del reale. Non appena volgiamo gli occhi dal cielo alla terra e ci sbarazziamo dell’ingombrante fardello dell’immagine dell’ uomo come campione di virtù o come cultore della santità , ci accorgiamo improvvisamente di come ogni nostra azione ad altro non tenda se non alla nostra individuale utilità , prima fra tutte la sopravvivenza, di volta in volta garantita grazie all’accumulo di ricchezza, di potere, di amici e così via. Non c’ò azione che si sottragga a questa terribile condanna. Tuttavia accade che la ragione, lungimirante e critica, prenda atto di come sia conveniente, ai fini del perseguimento dell’utile individuale, subordinarlo a quello comune, perchè ò solo attuando una pace con gli altri individui – miranti anch’essi alla propria autoconservazione e al proprio utile, collimante con quello altrui – che si può garantire una condizione di sopravvivenza di tutti e, quindi, anche di se stessi, uscendo in tal modo dal primitivo stato di natura, retto dalla feroce legge del bellum omnium contra omnes, ed entrando nella società  civile. In qualche misura, Montaigne risente di questa lettura dell’età  moderna, per la prima volta formulata in maniera esauriente e profonda da Machiavelli, per essere poi ripresa, a meno di un secolo di distanza, da Hobbes: l’uomo moderno, schiavo delle passioni piuttosto che loro signore, ma comunque in grado di indirizzarle grazie all’ausilio di una ragione calcolatrice, si trova costantemente all’inseguimento egoistico del proprio utile, in vista del quale arriva a concepire gli altri individui come meri strumenti funzionali al proprio interesse. Montaigne fa professione di egoismo fin dalla prefazione del suo scritto, allorchè avverte il lettore che quanto si accinge a leggere ò dedicato alla “commoditè particuliere” dell’autore stesso e della ristretta cerchia dei suoi amici; ma ò nel capitolo XXXIII, significativamente intitolato De la solitude, che il pensatore francese esprime le sue riflessioni più attente su tale tematica. Pur non respingendo la prospettiva aristotelica dell’uomo animale congenitamente socievole, Montaigne risente delle riflessioni di tipo utilitaristico maturate con Machiavelli e perciò muove dalla convinzione che la situazione ideale sia quella della solitudine, in cui ci si ritaglia uno spazio per se stessi, per meditare e riflettere indisturbati dagli altri e dagli eventi esterni: vi è qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma è un ascetismo mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale del monaco isolato nel monastero e che più che al laqe biwsaV degli Epicurei (implicante un vivere lontani dalle vicende politiche, ma sempre e comunque attorniati da una cerchia di amici sinceri) può essere accostato alla massima stoica del saggio autosufficiente e vivente in uno stato di incrollabile autarkeia. Quella a cui mira egoisticamente il saggio, in vista del proprio utile, ò “la vraye solitude, et qui se peut joà¼ir au milieu des villes et des cours des Roys; mais elle se jouyt plus commodèment à  part. Or puis que nous entreprenons de vivre seuls, et de nous passer de compagnie, faisons que nostre contentement despende de nous: Desprenons nous de toutes les liaisons qui nous attachent à  autruy: Gaignons sur nous, de pouvoir à  bon escient vivre seuls, et y vivre à  nostr’aise” (cap. XXXIX, La solitudine). In tal maniera, egli si conferma in bilico tra la vita solitaria ed eremitica e quella a contatto con gli altri, a cui la sua natura aristotelicamente intesa come socievole lo richiama. Aristotele aveva asserito – nella Politica – che solo Dio e le fiere possono condurre un’esistenza solitaria, l’uno perchè, nella sua assoluta perfezione, basta a se stesso, le altre perchè prive di ragione: ma Nietzsche correggerà  la mira, aggiungendo il caso del filosofo, anfibio tra l’animale e il divino, capace di vivere appartato senza contatti con i suoi simili: in questo ripensamento nietzscheano del pensiero aristotelico possiamo in qualche modo dire che si rifletta il modus vivendi di Montaigne e del vero filosofo, quale egli lo intende, proiettato nell’ introspezione e alla ricerca – costantemente aporetica – del proprio io, che Cartesio aveva colto in maniera immediata ed autoevidente. E’ l’esortazione agostiniana dell’in te ipsum redi che ritorna, ma completamente trasfigurata, poichè – come abbiamo già  sottolineato – nel rivolgersi alla propria interiorità  l’uomo moderno non trova quella certezza che, secondo Agostino, mancava nel mondo esterno (noli foras ire […] in interiore homine habitat verum, “De vera religione”, XXXIX, 72), ma si imbatte in un dubbio sempre e di nuovo rinascente e proliferante. Non ò un caso che il cogito, ergo sum di Cartesio avesse un suo illustre precedente nel si fallor, sum di Agostino, il quale si serviva – ed in ciò ò seguito a ruota da Cartesio stesso – del dubbio come gradino per innalzarsi alla Verità , giacchò ò innanzitutto attraverso la certezza di dubitare che si entra in contatto – seppur solo embrionalmente – con la Verità  stessa: ma Montaigne rigetta l’ipotesi agostiniano/cartesiana che si possa esser certi di dubitare, poichè riconoscere esplicitamente che si sta dubitando equivale, appunto, ad ammettere che si ò in possesso della certezza di non aver certezze, facendo in tal maniera crollare il presupposto scettico. Stoicheggiante ò, in certa misura, la concezione che Montaigne ha del saggio come autosufficiente capace di condurre un’esistenza in egoistica solitudine: e di sapore accentuatamente stoico è anche il suo disprezzo per la morte, tematica, questa, che affonda le sue radici profonde in tempi remoti, ma che senz’ombra di dubbio resta al centro anche della riflessione dell’uomo moderno (da Pascal a Kierkegaard, da Leopardi a Michelstaedter), se ancora Heidegger si sofferma tanto diffusamente, in pieno Novecento, sull’essere-per-la-morte (Zum-Tode-sein). La filosofia stessa si configura agli occhi di Montaigne come meditatio mortis e, come recita il titolo del XX capitolo dei Saggi, “philosopher c’est apprendre a mourir”: richiamandosi a Cicerone, che nelle Tusculanae disputationes si era a ampiamente concentrato sull’argomento, Montaigne si ricollega direttamente al Fedone platonico, in cui Socrate, in procinto di essere giustiziato, così si rivolge ai suoi interlocutori: “tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non ò altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo ò vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita

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