Paolo Mattia Doria, nato a Genova il 24 febbraio 1667, era figlio di Giacomo e di Maria Cecilia SpinoIa, donna di gran casato e piena dei pregiudizi del suo stato. Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli per recuperare certi suoi crediti, tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale del Regno che non se ne mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel 1746). Non accettò neppure il pressante invito fattogli nel 1730 dal generale sassone Johann Mathias von Schulenburg (1661-1747) a visitare Corfù che costui, passato al servizio di Venezia dopo aver militato in tutti gli eserciti d’Europa, aveva abilmente difeso contro i Turchi nel 1716: per il Doria l’azione più brillante di questo sperimentatissimo uomo di guerra. Amicissimo del Vico, nel 1709 aveva pubblicato quel suo trattato della “Vita civile”, che a parere del più accurato radiografo dell’opera del Montesquieu, Robert Shackleton, sarebbe una delle fonti dell'”Esprit des lois” di Montesquieu. In ogni caso, anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera francese, apparsa – si sa – nel 1748. L’interesse di Doria per le teorie di Cartesio ò costantemente condizionato dalla preoccupazione di ricondurlo entro l’alveo del platonismo e dell’agostinismo, depurandolo così in qualche modo dai suoi aspetti più rivoluzionari. Il paradossale risultato ottenuto ò che alla filosofia cartesiana toccano più critiche che riconoscimenti: il principio della chiarezza e della distinzione appare insufficiente a garantire la verità , il metodo geometrico ò troppo astratto per cogliere la realtà e – questa ò l’accusa più infamante – il razioanlismo esclude un autentico spirito religioso e ha latenti in sè gli sviluppi panteistici di Spinoza. L’intento di Doria di emendare il cartesianesimo, condannandone gli aspetti più specifici e risolvendolo in più innocue tradizioni filosofiche, non ò comunque documentato nel solo ambiente napoletano e tutto sommato rivela come il pensiero di Cartesio non ebbe grande udienza presso il gusto filosofico italiano. Vico, grande amico di Doria, lo prendeva in giro per le sue simpatie verso Cartesio: rievocando nell’autobiografia le discussioni sostenute con Doria sulla filosofia del francese, Vico poteva sostenere che “ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgare trà platonici”. Il Doria fu scrittore copioso di filosofia politica e di matematica. I suoi testi più interessanti sono quattro, due editi, due inediti: “Il capitano filosofo”, ponderoso trattato di teoria militare uscito nel 1739; le “Lettere”, e ragionamenti varj, apparso nel 1741, dove si legge un esame critico dell’ “Histoire de Charles XII” del Voltaire pubblicata dieci anni avanti; due opere lasciate inedite dall’autore tra i tanti suoi manoscritti, tratte in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, sono il “Politico alla moda” del 1739 (che già aveva ricevuto miglior cura nelle mani di Vittorio Conti) e “Il commercio mercantile” del 1742: una delle sue ultime opere. Che il Doria fosse osservatore politico acuto si può dimostrare, per esempio, con un passo del “Politico alla moda” sulla Prussia. Re ne era ancora Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del potentissimo esercito prussiano: “Pare che egli aspiri ad ingrandire il suo stato con l’acquisto della Slesia, quando si divideranno li stati ereditarj dell’Imperatore”. Federico Guglielmo, alieno d’altra parte a sciupare con una guerra quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo l’anno successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani del defunto re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II. Bestia nera dell’ultimo Doria, dell’autore cioò del “Commercio mercantile” (non a caso proprio in quest’opera egli si fece propugnatore della disobbedienza civile era la politica “mercantile” del suo tempo, espressione che in lui non connota un sistema di scambi, ma un modo perverso di concepire i rapporti politici: quelli tra governanti e governati, quelli tra stato e stato, quello degli ordini all’interno degli stati, quelli infine tra uomo e uomo. Proprio quel gran mercanteggiare, quel disporre della vita dei popoli senza minimamente consultarli, quel passarseli di mano in mano era ciò che più faceva ardere di sdegno il Doria). Quei principi bassamente calcolatori, che non coltivavano altro disegno politico che quello di arricchire il loro erario privato, non erano forse più simili a mercanti – e a mercanti indegni, perchè mancatori di fede – che a guide e mantenitori di quegli organismi delicati, sempre pronti a esplodere a causa delle tensioni interne e della naturale turbolenza degli uomini che sono le società politiche? Caso esemplare di questa “mercantilizzazione” della politica: la Russia. La sua situazione internazionale era, prima dell’avvento di Pietro, del tutto marginale. Paese vastissimo, sembrava che fosse “utilissimo più che niun altro regno del mondo del commercio” e capace “d’inondare l’Europa”. Ma era purtroppo spopolato (“a cagione che ò stato governato da i loro czari con tirannia, era poco men che tutto spopolato”, tranne “quelli paesi che sono vicini al fiume Volga”). Non era stato perciò temibile da parte dell’Europa: “un’inondazione de’ soli moscoviti” era allora impensabile. Il clima rigidissimo non favoriva d’altra parte il commercio con i forestieri; e meno ancora lo favoriva il bassissimo livello culturale delle popolazioni: “Li popoli… sono stati incolti sino alla venuta di Pietro Alexiovitz nelle virtù militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro czari ad uso di bestie, onde poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che come uomini, hanno avuto pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni altro non facevano che ubbriacarsi e poi si cadevano a terra”. Le donne non facevano eccezione. Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi. Nelle molte guerre combattute con i Polacchi “sono sempre stati battuti sin’a tanto che li Polacchi hanno dato il sacco a Mosca”; e pochissima perizia e scarsa disciplina avevano dimostrato nei frequenti conflitti col Turco. Di questa incapacità militare ò prova il fatto che Carlo XII, nel 1700, potè battere a Narva con soli ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Nè migliore era la situazione religiosa. Greci scismatici, erano “osservantissimi” dei riti e delle “penitenze esteriori” e obbedientissimi dello zar e del loro patriarca; ma i loro costumi erano pessimi. Le tre quaresime all’anno che facevano e tutte le messe che sentivano non li facevano migliori: “in mezzo alla loro ignoranza ed alla loro barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel commercio e cattivi uomini”. La loro non era religione, ma “superstizione”; e c’era da augurarsi che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i cattolici romani. Pietro, uomo “dotato dalla natura capace di altissime virtù”, aveva concepito il disegno lodevolissimo di “civilizzare” la sua nazione e di “coltivarla nella virtù per lo mezzo del commercio colle altre nazioni”. In breve: “mutare la forma del governo barbaro in forma di governo politico”. Commise però l’errore, comune a tutti i principi europei, di credere che la politica “consista nel commercio… e nel mantenere esercito numeroso, e che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora per massima la massima che hanno li nostri principi, cioò che la gloria del principe consista nel dominare il popolo a sè soggetto e nel conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando la cura di promuoverne i popoli la vera morale e quelle vere virtù le quali sono… li veri e li soli fonti della vera politica”. Per raggiungere il suo fine di “coltivare li moscoviti nelle arti, nel commercio e nella guerra” non aveva risparmiato fatiche. I suoi successi erano sotto gli occhi di tutti. Aveva creato dal nulla un’eccellente scuola di architettura navale e li aveva resi abili in molte altre attività tecniche (“oggi li moscoviti fabricano vascelli, e fabricano tutte le altre cose alle quali nei passati tempi non hanno mai veramente pensato”); aveva aperto il commercio con la Cina, con la Persia, con l’Olanda, con la Svezia, con la Francia e altri paesi ancora (“il czar ha introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio”); aveva, con l’aiuto di ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi, disciplinato e ben istruito nell’arte di combattere l’esercito (“l’infanteria moscovita ò la migliore che sia in Europa”). L’ultimo perfezionamento dell’esercito era sì dovuto all’opera di due stranieri – il tedesco Burchard Christoph Mùnnich (1685-1767) e l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) – ai quali la zarina Anna, buona continuatrice della politica petrina, aveva concesso i maggiori poteri. Ma era stato pur sempre Pietro che aveva dato il primo e decisivo impulso e li aveva ingaggiati al suo servizio. E sua era stata la cura d’introdurre in Russia lettere e scienze, chiamandovi “con grandissimi soldi” molti scienziati delle università d’Europa per formarvi quell’Accademia delle scienze che Caterina I aveva poi realizzato. Se i russi avevano assimilato dunque perfettamente le tecniche e l’organizzazione delle risorse dell’Occidente non per questo erano però divenuti più “virtuosi”: che pure era il secondo punto del programma di Pietro. Bisognava cercare la radice di questo fallimento nella ristrettezza della sua visione politica: “non era filosofo, non era capace d’intendere l’origine e l’essenza della vera politica”. I rapporti dei cittadini con il potere non erano mutati: i Russi schiavi erano e schiavi erano rimasti. La loro ferocia si era tutt’al più convertita in malizia. Il commercio, la disciplina militare, il progresso nell’uso delle tecniche non bastano per far avanzare in civiltà . Il Doria non pensava tuttavia che quell’europeizzazione precoce e violenta avesse compromesso per sempre la possibilità d’incivilimento dei russi. Sarà questa un’idea di Rousseau: “Les Russes ne seront jamais vraiment policès, parce qu’ils l’ont ètè trop tà´t” (“Il contratto sociale”). Pietro era stato un eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi – così aveva detto sin dal 1709 – “quegli uomini forti e coraggiosi ma dotti e savj tutto ad un tempo, i quali alla felicità del popolo e dello stato le loro eroiche azioni indirizzarono ed in conseguenza di ciò prima penseranno agli interni ordini politici dello stato, dai quali nasce l’interno utile e naturale commercio, e poscia al commercio con le straniere nazioni ed in questa guisa faranno fiorire nei lor paesi la ricchezza alla virtù congiunta”. Il Doria ò molto avaro nel rilasciare patenti di eroismo: la nega anche a Carlo XII. Era stato sì “un mostro di coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle fatiche”: un temerario, non un eroe. Aveva rovinato la Svezia, il suo paese, e non si era proposto nessun fine virtuoso, come sarebbe stato quello di liberare dalla servitù i popoli che conquistava. E la nega, in polemica con Voltaire, al suo grande antagonista: Pietro. Il successo delle riforme compiute da quest’uomo brutale era incontestabile: la Russia era divenuta, vasta e ricca com’era, “la più potente Nazione d’Europa”. Ma egli non aveva saputo dare alla sua autorità la forza di un fondamento morale. Il potere degli zar era enorme, ma fragile. I supplizi più atroci non bastavano a spegnere nei russi il desiderio di “divenire liberi” alla maniera dei vicini svedesi alla morte di Carlo XII; come avevano inutilmente tentato nel 1730. “Le congiure contro la Czara – pronosticava – come prodotto da una piaga assai profonda, si multiplicheranno sempre e alla perfine scoppieranno in una universale rivoluzione, e ciò malgrado li numerosi supplicj che la czara [indubbiamente Anna] prattica contro li congiurati”. Per l’intrinseca debolezza del potere zarista non nutriva grandi timori per il futuro d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia, questo “gigante di smisurata grandezza”, fosse riuscita a soggiogare l’impero turco – era questo, del resto, il suo compito storico – e a formare uno stato che si stendesse dal Baltico al Mar Nero e al mar di Grecia, fino ai confini con Venezia, non era da temersi. Un’iniziativa russa ai danni di qualche paese europeo avrebbe per prima cosa suscitato una grande coalizione contro l’aggressore. Ma esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione territoriale degli stati, e tanto più gravi quanto più il potere centrale, per la sua natura autocratica, mancava di profonde radici. La forza degli eserciti non bastava ad assicurare il successo durevole di un tirannico conquistatore.
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- Filosofia - 1600