Parmenide: vita, opere e pensiero filosofico - StudentVille

Vita e Filosofia di Parmenide

Approfondimento sulla vita e pensiero di Parmenide.

Parmenide: la Vita

Parmenide fondò ad Elea, nell’attuale Campania, una vera e propria scuola filosofica e diede inizio alla corrente di pensiero eleatica che vede in Zenone e Melisso due discepoli e sostenitori. Parmenide fu attivo ad Elea verso il 500 a.c., nacque da famiglia aristocratica e avrebbe contribuito alla legislazione della città .Permangono dubbi a proposito del suo possibile soggiorno ad Atene insieme al discepolo Zenone, dove avrebbe incontrato Socrate.

Il pensiero di Parmenide

Il tema della ricerca è molto sentito da Parmenide, ma è la divinità  stessa ad indicare la via che occorre percorrere. Spesso la corrente di pensiero fondata da Parmenide viene denominata “monismo eleatico” per il fatto che essi, se vogliamo riallacciandosi ai Milesi e distaccandosi dai Pitagorici, sostenevano che tutto fosse riconducibile ad un unico principio. In realtà  la tradizione antica vuole che il fondatore della scuola di Elea fosse Senofane, partendo da due presupposti; in primo luogo Senofane aveva girato mezzo mondo ed era pure passato ad Elea. In secondo luogo, il tema centrale degli eleatici era l’unitarietà  dell’essere, tema già  presente in Senofane. Però al giorno d’oggi sappiamo che questo ò davvero improbabile: ò vero che Senofane predicava l’unitarietà , l’immutabilità , l’eternità  e tutte le altre cose che predicavano gli eleatici, ma egli le riferiva interamente alla divinità , mentre gli eleatici le riferivano all’essere. Senofane era un teologo, Parmenide un ontologo: il concetto dell’essere ò molto più astratto di quello della divinità . Gli eleatici sostengono l’immobilità  della causa e così essa viene a mancare in quanto la sua funzione ò quella di spiegare a che cosa ò dovuto il cambiamento, che per loro non esiste: l’essere ò immutabile. La parola essere (in greco “tò on”, ciò che ò ) ò proprio a partire da Parmenide che entra nell’uso filosofico. Egli fece un ragionamento che comportò un enorme passo avanti verso l’astrazione: notò infatti che tutti gli enti sono tra loro diversi, ma che hanno in comune il fatto di essere, di esistere. Abbiamo detto che egli fu un ontologo: ma cosa significa ? L’ontologo ò colui che studia ” l’essere in quanto essere ” (come dice Aristotele), vale a dire le caratteristiche di tutto quel che esiste. Aristotele ci parla di Parmenide e dice che studiava l’essere secondo definizione: si tratta quindi di indagare secondo definizione: la differenza tra Parmenide e gli altri pensatori sta proprio nel fatto che egli non iniziava la sua indagine partendo da constatazioni empiriche per arrivare alle conclusioni; lui partiva dalla definizione di cosa ò l’essere e tramite una serie di deduzioni arrivava alle conseguenze, spesso in netta contrapposizione con le testimonianze dei sensi. Parmenide non accenna mai alla realtà  empirica. Arriva ad esplicitare due tautologie: a) l’essere ò b) l’essere non ò. Parmenide scrisse un poema in esametri (proprio come Senofane ed Empedocle), intitolato “Sulla natura” (Peri fusewV), di cui ci rimangono frammenti. Mentre Senofane si serviva dell’esametro per avere maggior successo sugli ascoltatori e perché la sua opera si divulgasse il più possibile, Parmenide scriveva in esametri perché descriveva argomenti divini e quindi il verso epico era il miglior verso per parlare di tali argomenti.

L’opera era strutturata in un proemio e due parti successive: proprio alla fine del proemio la divinità  spiega che ci sono 3 vie da seguire: 1) L’essere ò 2) L’essere non ò 3) Si mescolano insieme l’essere ed il non essere. La seconda via verrà  dichiarata impraticabile e puramente teoretica: ò infatti impossibile dire o pensare ciò che non ò. La terza via ò quella che imboccano i comuni mortali, che mescolano l’essere con il non essere: per esempio i mortali parlano di nascere e morire, il che implica una mescolanza di essere e di non essere: nascere vuol dire essere, ma anche non essere prima di essere e morire vuol dire non essere, ma anche essere prima di non essere. Il criterio per giudicare scorretto il linguaggio degli uomini non ò la sua corrispondenza a quanto ci ò testimoniato dai sensi: a questi infatti appaiono oggetti che nascono e che muoiono. Ma il verdetto di Parmenide sul linguaggio e sulle opinioni degli uomini, collegate a quel tipo di linguaggio, non assume a criterio di giudizio le apparenze fornite dai sensi, bensì il contenuto logico delle parole usate dagli uomini. Essi infatti usano parole nelle quali si trova mescolato in modo contraddittorio ciò che ò disgiunto radicalmente, ossia essere e non essere. Con i termini ” ò ” ed ” essere ” Parmenide intende probabilmente una molteplicità  di cose. Infatti dire che qualcosa ò, può significare che esso ò presente o che esso esiste o che ò qualcosa o che ò vero. Tutti questi significati sono presenti nell’essere di Parmenide. Solo ciò che ò può essere propriamente pensato e detto: questo comporta un necessario legame tra ESSERE, PENSIERO e LINGUAGGIO. Partendo dalla disgiunzione assoluta tra ” è ” e “non ò “, Parmenide procede quindi ad individuare quali sono le proprietà  di ciò di cui si può propriamente pensare o dire che ò. Egli introduce in tal modo una procedura che resterà  essenziale per il ragionamento non solo filosofico, ma anche matematico. Si tratta della DEDUZIONE, vale a dire il ragionamento che partendo da proposizioni ammesse come premesse ricava delle conclusioni: si parte da definizioni e verità  generali per passare in modo logico a nuove verità  più particolareggiate. In particolare Parmenide mette in opera una particolare forma di deduzione consistente nella cosiddetta DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO, della quale Zenone farà  la base per la sua filosofia. Essa assume come premesse il contrario di ciò che si vuole dimostrare e ne deduce una serie di conseguenze contraddittorie o errate. E poiché queste conseguenze sono errate, ne risulta che sono errate le premesse a partire dalle quali sono ricavate. Il risultato ò che saranno vere le premesse contrarie a quelle errate. E’ proprio con la dimostrazione per assurdo che Parmenide dimostra l’immutabilità , l’immobilità , l’indivisibilità  e l’unicità  dell’essere. Ammettiamo che l’essere muti: ne consegue che esso ò ciò che non era prima o non ò ciò che era prima. Ma in tal modo si attribuisce a una stessa cosa l’essere e il non essere, il che va contro quel carattere di disgiunzione assoluta tra ” è ” e ” non ò “, assunto come necessario all’inizio. Per evitare tale contraddizione, diventa allora necessario concludere esattamente l’opposto, ossia che l’essere non muta. Lo stesso vale per dimostrare l’unicità : se l’essere fosse molteplice occorrerebbe riconoscere che ciascuno di questi molteplici ò se stesso e non ò altri e pertanto nuovamente sarebbe e non sarebbe. L’essere ò immobile: ammettiamo che si muova; una cosa ò mobile quando si muove da una cosa ad un’altra: l’essere quindi si dovrebbe muovere verso qualcosa di diverso da se stesso. Ma il diverso dall’essere ò il non essere, che non esiste: quindi l’essere ò immobile. Tra le proprietà  dell’essere Parmenide introduce anche il carattere finito di esso: infatti se fosse infinito sarebbe incompiuto e quindi mancherebbe di qualcosa; ma se manca di qualcosa vuol dire che non ò ciò di cui manca. Anche la nozione di infinito quindi comporta una mescolanza contradditoria di essere e non essere. Per questo Parmenide paragona “ciò che ò” (to on) ad una sfera compatta, la quale esprime nel miglior modo possibile il carattere di compiutezza e totalità  che caratterizza l’essere. La prima parte dell’opera si chiamava “ALETHEIA” (alhqhia “verità “, dal verbo “lanqanw”: la verità  ò ciò che non si nasconde) e rappresenta la prima via e la verità  di primo livello. L’ altra parte dell’opera si chiamava “DOXA” (doxa “opinione”) e rappresentava la seconda via e la verità  di secondo livello. Nell’ Aletheia Parmenide fa considerazioni sull’essere mentre nella Doxa presenta una sorta di mezza verità , dove cerca di rendere compatibile la testimonianza dei sensi con la verità  vera e propria: ò come se cercasse un’interpretazione del mondo fisico compatibile con i sensi, con il modo in cui lo vediamo, e non in contrasto con l’Aletheia. Del proemio del “Peri fusewV” possediamo molto, della Doxa invece abbiamo solo pochi frammenti e questo testimonia che era ritenuta contraddittoria perché dà  l’impressione che Parmenide voglia distaccarsi da quanto aveva affermato più volte in precedenza: ciò che capiamo con la ragione va seguito anche se ò in contrasto con ciò che ci dicono i sensi. Va riscontrato che Aristotele mentre ci parla di Parmenide nella “Metafisica” prende un’enorme cantonata: dice infatti che secondo Parmenide il caldo si identifica con l’essere ed il freddo con il non essere. Ma passiamo ora ad esaminare il proemio dell’opera di Parmenide: egli racconta di aver compiuto un viaggio verso la verità , voluto dal Cielo. La metafora del viaggio resterà  rimarrà  una costante nella riflessione antica: dal termine “hodòs” (odoV via, strada) si verrà  formando già  in Platone il termine ” methodos ” (meta ton odon, ciò che sta oltre al viaggio: il percorso che conduce alla verità), ma il concetto di hodòs risulta centrale anche per tutta la prima parte del poema. L’iniziativa del viaggio tuttavia e soprattutto la direzione che esso assume non dipende da Parmenide, sebbene egli ne sia protagonista, bensì dalle dee che lo guidano, così come varcata la porta che separa i due domini delle tenebre e della luce, sarà  la dea a comunicargli quale via di ricerca egli dovrà , in futuro, percorrere. Il racconto di Parmenide riguarda dunque non una rivelazione già  tutta compiuta; questa infatti fornisce solo i caratteri generali della via lungo la quale occorrerà  proseguire la ricerca e soprattutto formula i divieti relativi alle vie che non bisogna percorrere, cioè quelle comunemente battute dagli uomini in preda alle opinioni. Parmenide non dice mai chi siano esattamente le dee che lo guidano, ma sono collegate con il culto del Sole e quindi con Apollo. Il percorso che deve affrontare Parmenide conduce dalle tenebre (l’ignoranza) alla luce (la conoscenza); ad un certo punto, mentre il carro su cui ò Parmenide sta procedendo velocemente, le dee si tolgono i veli: questo gesto simbolico rappresenta la rivelazione. La metafora tra l’altro spiega che ciò che viene disvelato e ciò che disvela sono lo stesso: si tratta sempre delle dee; ò come se l’essere stesso rivelasse la via da percorrere. Parmenide e le dee giungono alla porta che separa il giorno dalla notte: descrivendo questo portale Parmenide non fa nient’altro che descrivere l’assetto urbanistico della sua città , Elea, dove esisteva sul serio una porta: essa divideva la parte alta e aristocratica della città  (l’acropoli) da quella bassa e popolare. Per aprire la porta ò necessario l’intervento della Giustizia (Dikh): le dee stesse la convincono con discorsi suasori ad aprirla. L’oggetto della rivelazione ò quindi l’essere, ma attenzione: non ò che sia la divinità  a darcelo: l’essere, la divinità , il principio… sono la stessa cosa: ò un’autorivelazione dell’essere e va intesa come spiegazione di quali siano le vie da seguire; la ricerca ò l’uomo stesso a farla. Ma non ò un percorso che possono fare tutti gli uomini: quello di Parmenide ò un percorso solo suo, che nessun altro uomo può fare. La verità  stessa impone determinate vie da seguire. Le dee dicono a Parmenide di imparare a conoscere due cose: A) il cuore non scosso ed immobile della Verità , la quale ò ben rotonda (come una sfera compatta) B) le opinioni instabili e campate per aria dei mortali: la conoscenza infatti si perfeziona quando oltre a conoscere le cose perfette si conoscono le imperfezioni. Le dee dicono che non si deve fondare il sapere sull’ esperienza perché essa è dettata dai sensi né sulla lingua, che attribuisce i nomi alle cose, ma si deve ponderare con la ragione. La rivelazione divina non implica che l’uomo non debba cercare di conoscere con il raziocinio. Vengono a Parmenide presentate le vie PENSABILI: il termine greco per pensabili ò “nohsai” che può voler dire sia ” pensabili ” sia ” per pensare “: entrambe le traduzioni sono quindi accettabili. Una via dice che l’essere ò e non può non essere, l’altra che l’essere non ò e che può non essere. La prima via ò quindi effettivamente percorribile ed ò caratterizzata dalla verità  e dalla persuasione: la Verità  ò infatti in grado di persuadere. L’altra strada ò contraddittoria ed impercorribile. Il testo in questione presenta diverse difficoltà  di interpretazione, la più valida delle quali ò che solo l’essere ò pensabile e dicibile, mentre il non essere ò impensabile ed indicibile: la prima via risulta quindi percorribile in quanto pensabile, l’altra no: ò qui che emerge maggiormente l’identità  parmenidea tra essere e pensare. Ma tutto questo si presta a più interpretazioni: per esempio potrebbe voler dire che se l’unica cosa che ho l’essere, allora il pensiero, dato che ò, fa parte dell’essere come tutti gli altri enti. Ma potrebbe anche voler dire che tutto ciò che diciamo e pensiamo ò: anche se pensiamo ad un qualcosa che materialmente non esiste ed ò solo frutto della nostra immaginazione in qualche misura esiste: anche un drago per il fatto che viene pensato in qualche misura esiste. Man mano che prosegue il viaggio, salta fuori che in realtà  le vie non sono 2, ma 3: la terza ò quella che seguono quasi tutti i mortali, dove si mescolano l’essere ed il non essere: Parmenide li chiama ” uomini dalla doppia testa ” perché affermano simultaneamente che l’essere ò e non ò: si tratta di gente stolta ed indecisa, dice Parmenide. Egli muove poi un’aspra critica ad Eraclito ed alla sua concezione del divenire, piena di mescolanza di essere e non essere (ricordiamoci che Parmenide negava che l’essere potesse muoversi e mutare), e a quella di molteplicità . Parmenide dice che questa terza via va assolutamente purificata e resa scevra di errori, affinché risulti almeno parzialmente compatibile con la Verità  della prima via. La seconda invece va assolutamente scartata. Parmenide dà  poi una raffinata ed elegante definizione di eternità : l’essere non era ne sarà , perché ò ora tutt’insieme: una cosa ò davvero eterna quando ò fuori dal tempo. Ma Parmenide non si limita ad affermare, ma dimostra anche: l’essere infatti non può ne nascere ne morire (come dicono i comuni mortali). Ipotizziamo che l’essere nasca: da sé non può nascere e quindi deve nascere da qualcosa che non sia lui stesso: deve essere quindi un qualcosa che non sia essere: ma ciò che non ò essere ò non essere: ma il non essere non ò, di conseguenza l’essere non nasce ne muore. Parmenide dice poi per dissipare definitivamente ogni dubbio sul fatto che l’essere ne nasca ne muoia: che motivo avrebbe mai avuto per nascere ad un certo momento ? Tuttavia anche un astratto come Parmenide ha avuto bisogno di ricorrere all’incarnazione dell’astratto (l’essere) in qualcosa di concreto (la sfera tonda e compatta): però va detto che quello della sfera potrebbe essere un semplice paragone e non un’effettiva incarnazione. Dunque Parmenide prova a correggere gli errori dei mortali: il loro primo errore consiste nell’individuazione di due principi della realtà  tra loro antitetici: la luce e le tenebre. Il loro ò una sorta di pitagorismo esposto in termini fisici. La luce ò un principio più attivo, corrispondente al fuoco, le tenebre sono più passive e corrispondono alla terra. Ma accanto a questo errore Parmenide ne individua un altro più grossolano: hanno contrapposto tra loro questi due principi. Ammettiamo di poter interpretare la realtà  in termini di luce e tenebre, evitando però di contrapporle e considerarle l’una l’essere e l’altra il non essere. In fondo quello degli esseri mortali comuni non ò un errore poi così grave: ò vero che hanno mescolato l’essere con il non essere, però se andiamo a vedere ne con la luce ne con le tenebre c’ò il nulla, il non essere. I mortali sono stati ” bravi ” a non incappare nella seconda via. Sempre a proposito dell’opera di Parmenide possiamo concludere dicendo che mentre nell’ Aletheia troviamo un Parmenide brillante e convinto di ciò che sta dicendo, nella Doxa egli appare più restio e meno convinto. E’ come se Parmenide, dopo aver sostenuto che bisogna fidarsi solo di ciò che ci dice la ragione, avesse avuto paura di quanto detto perché portava troppo fuori dalle testimonianze dei sensi e volesse come se scusarsi nella Doxa. Va poi detto che nessuno leggendo il testo di Parmenide si fa convincere a riguardo di quanto egli dice: seguendo il ragionamento logico ci si accorge che Parmenide ha ragione, ma le conclusioni paradossali impediscono al lettore di credere a quanto egli dice. Platone dirà  di aver commesso il “parricidio di Parmenide”: si accorgerà  infatti che Parmenide aveva commesso un errore a riguardo dei significati dell’essere: Aristotele individua tre modi di intendere l’essere: 1) univoco (l’essere ha un solo significato) 2) biunivoco (l’essere ha equivocità , può essere inteso in più modi) 3)analogico (il verbo essere ha diversi significati ma tutti connessi tra loro). Aristotele lo intendeva in modo analogico, Parmenide in modo univoco: per lui essere significa solo esistere. Dunque Platone farà  notare che dire ad esempio ” questo libro non ò ” non vuol dire predicare il non essere: infatti si può dire ” questo libro non ò una penna “: ò l’essere diversamente, dove l’essere assume il valore di copula.

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