Biografia Pietro Verri, discendente da una delle più nobili e importanti famiglie milanesi, dotato di grande intelligenza e di una rara capacità di rinnovarsi per la sua geniale sete di conoscere e di sapere, nacque a Milano il 12 dicembre 1728 da Gabriele, magistrato di notevole carisma, presidente del Senato milanese negli ultimi anni della sua vita, e da Barbara Dati di condizione aristocratica; compie i suoi primi studi nei Collegi dei Gesuiti di Monza e Brera e li proseguirà prima nella scuola pubblica di sant’Alessandro, retta dai Padri Barnabiti, nel Collegio nazareno di Roma (che più tardi paragona con orrore all’esperienza avuta nei sordidi accampamenti imperiali durante la guerra dei Sette Anni), e infine a Parma nel Collegio dei Nobili, retto dai Gesuiti; nel 1741 nascerà il fratello Alessandro, col quale dividerà interessi culturali vari e vasti e che lascerà una traccia profonda nell’ambito dell’Illuminismo milanese. Tornato in famiglia nel 1748, fin dall’anno seguente cominciano i suoi contrasti con la famiglia, soprattutto col padre, un alto funzionario governativo (era vicario di provvisione nella capitale lombarda), a causa della sua relazione con Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, mentre intraprende la carriera di magistrato, ottenendo l’incarico di “protettore dei carcerati” e partecipa contemporaneamente all’accademia dei “Trasformati” col titolo di “Abitatore Disabitato”. L’anno successivo pubblica la di poesie satiriche dal titolo La Borlanda impasticciata, servendosi d’un linguaggio derivante dall’uso maccheronico e storpiato di varie lingue. Del 1753 il padre, che era stato nominato reggente del Supremo Consiglio d’Italia, si reca a Vienna e si fa accompagnare dal figlio nella speranza che la momentanea lontananza potesse contribuire a troncare il legame con la duchessa Serbelloni; ma al ritorno il suo distacco dalla famiglia si accentua perchè prosegue la relazione amorosa che diventa più intima, anche se per poco tempo ancora. Con la Serbelloni si interessa di attività teatrali e traduce le opere di Philippe Nericault Destouches, scrivendo anche una particolare introduzione sulla scena comica; nello stesso periodo prende posizione a favore della riforma goldoniana Abbandonato dalla Serbelloni nel 1754 attraverso un periodo di crisi, durante il quale non trascura comunque gli studi. Nel 1757 pubblica un almanacco dal titolo Il gran Zoroastro, ossia predizioni astrologiche per il 1758, tratte da un manoscritto di pietra e dall’egiziano in volgare favella per la pubblica utilità tradotte, scritto secondo l’uso del tempo, in tutti i linguaggi possibili, dal greco al dialetto milanese, in cui mette alla berlina i vizi della società aristocratica milanese con i suoi scandali e le sue superstizioni, con un tono ferocemente avverso al clero, ai nobili e ai pregiudizi popolari. Ripete la pubblicazione l’anno seguente, un’edizione per il 1759, in cui attenua certi toni violenti e sarcastici; ne pubblicherà un terzo nel 1762 intervenendo a favore di Cesare Beccaria nella polemica contro il marchese Carpani. Un ultimo Gran Zoroastro per l’anno bisestile 1764, verrà pubblicato l’anno seguente. Tra il 1759 e il 1760 viaggia tra Vienna (dove partecipa a una guerra contro la Prussia, nel reggimento Clerici, dopo aver ottenuto il brevetto di Capitano), Dresda, ancora Vienna per ritornare infine a Milano, dove pubblica un trattato Sul tributo del sale nello stato di Milano ed uno Sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano, allo scopo di attirare su di sò l’attenzione delle autorità regie mostrando le sue attitudini a ricoprire un incarico nella pubblica amministrazione. Sulla questione monetaria ed economica tornerà nel 1762 pubblicando a Lucca il Dialogo tra Fronimo e Simplicio sul disordine delle monete nello Stato di Milano. Insieme al fratello Alessandro fonda nel 1761 l’Accademia dei Pugni, che in qualche modo continua l’esperienza degli almanacchi già pubblicati, soprattutto il primo: ò un ritrovo “piuttosto insolito anche in quell’età fiorentissima di accademie e di circoli, dominato com’era da intenzioni mondane e culturali, oziose e insieme coraggiosamente progressive”, ed era stata chiamata così proprio per rendere meglio l’idea dello spirito aggressivo e spregiudicato che animava i suoi iscritti sia nelle discussioni private che nei dibattiti pubblici. Sempre nel 1761, in un momento di generale crisi dei periodici eruditi, fonda, insieme al fratello Alessandro (A), all’abate Alfonso Longhi (L), a Cesare Beccaria (B), al matematico e fisico Paolo Frisi (X), a Luigi Lambertenghi (NN), Giuseppe Visconti di Saliceto (G), (collaboratori furono anche Giuseppe Colpani (GC), Pietro Secchi(S) e Sebastiano Franci (F) – tra parentesi abbiamo messo le lettere iniziali con cui hanno segnato i loro articoli), la rivista “Il Caffò”, che comincia le sue pubblicazioni nel giugno 1764 uscendo con una cadenza di dieci giorni e durerà fino al maggio 1766: due anni ricchi di animazione culturale e di contributi originali di idee. La rivista viene così chiamata perchè si finge di trascrivere le conversazioni, le discussioni e i racconti che venivano narrati in una bottega da caffò, di proprietà di una certo Demetrio, un greco saggio e di intelligenza pronta che si era trasferito a Milano. Nell’editoriale così scrive il Verri a nome di Demetrio: “in essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche… in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso il Giornale Enciclopedico e l’Estratto della Letteratura Europea e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’ò di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li do alle stampe col titolo “Il Caffò”, poichè appunto son nati in una bottega da caffò”. I maggiori collaboratori saranno proprio Pietro Verri (con 37 articoli) e il fratello Alessandro, ma il più celebre ò senz’altro Cesare Beccaria, che vi pubblicherà “Dei delitti e delle pene”, un trattato che gli darà risonanza europea e verrà letto nei più famosi salotti di Parigi, di Mosca e di altre città europee. Sul piano di una ricerca in qualche modo filosofica ed esistenziale pubblica anonimo a Livorno un libretto, intitolato Discorso sulla felicità o Meditazioni sulla felicità , definito da qualcuno come il manifesto dell’illuminismo lombardo, in cui, talvolta in consonanza col pensiero illuministico francese (e di Rousseau in particolare), sviluppa il tema del contratto sociale mediante il quale l’individuo rinuncia a parte della sua libertà per delegare allo Stato la sicurezza della collettività , delineando un’etica laica e spregiudicata, nella quale troviamo prima di tutto l’accettazione dei propri privilegi insieme all’espressione della volontà e quasi all’obbligo di usarli per il bene comune; poi l’analisi dei piaceri e dei dolori su una visione non religiosa, ma materialistica, dell’esistenza, insieme all’analisi dell'”ambizione”, considerata come la più funesta ma anche la più benemerita fra le passioni. L’opera si conclude con un breve saggio sulla storia umana, interpretata come progresso spezzato continuamente da catastrofi e periodi di decadimento, per cui il processo di civilizzazione ò da intendersi come un percorso non indolore anche se le esperienze accumulate devono essere interpretate come un arricchimento dell’umanità . Incaricato di redigere un progetto di riforma amministrativa per Milano riguardo all’appalto dei tributi, nel 1764 comincia la sua collaborazione colle autorità austriache. La passione con cui si dedica alla riforma del sistema tributario scatena le ire dei “fermieri”, cioò dei privati ai quali era data in appalto la riscossione delle imposte, che notoriamente taglieggiavano la popolazione. Il piano di riforma, criticato aspramente sulla Frusta Letteraria dal Baretti, incontra il favore dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, nonostante le idee illuministiche spesso estremistiche dell’autore. Pietro Verri ò un esempio convincente di questa figura di intellettuale calato nella vita civile; nel 1768 scrive le Memorie storiche sull’economia politica dello Stato di Milano (destinate ad essere pubblicate postume nel 1804) e l’anno successivo scrive le Riflessioni sulle leggi vincolanti il commercio dei grani, allineato sulle posizioni delle teorie fisiocratiche che avversavano la limitazione imposta dai dazi doganali in materia di derrate alimentari, che verrà pubblicato solo nel 1797, l’anno della sua morte. Per il Verri il 1770 ò un anno particolarmente importante; sul piano personale ottiene un particolare successo quando viene chiamato a far parte nel della Giunta per la riforma fiscale, nella quale si batte per l’abolizione degli appalti privati nella riscossione delle imposte, eliminando i privilegi dei “fermieri”: il governo asburgico stabilisce il passaggio delle imposte indirette alla gestione pubblica e nel contempo allontana dalla Commissione delle Riforme il Verri che rimane deluso e irritato, anche se la sua “carriera” come funzionario non viene interrotta; nel 1772 viene nominato vicepresidente del supremo consiglio per l’economia e successivamente nel 1780 presidente del Consiglio Camerale (sforzandosi di riorganizzare meglio l’apparato fiscale), succedendo al conte Gian Rinaldo Carli, che pur lo aveva avversato aspramente qualche anno prima, ma col quale si era successivamente riconciliato, e infine nel 1783 “Consigliere Intimo Attuale di Stato” e sempre nello stesso anno gli viene concessa l’alta onorificenza di “Cavaliere di Santo Stefano”. Soppresso nel 1786 il Consiglio Camerale, ritornerà a vita privata, dopo essersi reso conto che le maniere riservategli dall’Imperatore divenivano sempre più fredde, anche a causa dell’invidia dei suoi nemici a corte e dei suoi detrattori, che avevano insinuato nell’animo di Giuseppe II “il sospetto che il di lui zelo fosse interessato, e che egli col favor popolare cercasse quasi una indipendenza: Si fece nascere una gelosia di lumi e di ingegno, quasi che egli volesse soverchiare e tutto sconvolgere a suo talento. La diffidenza fece moltiplicare gli ostacoli alla sua carriera, per modo che trovavasi non di rado costretto a disperdere la sua attività in una continua difesa personale… Ecco perchè annojato, alla fine chiese egli stesso di essere liberato dal peso di amministrare, e questo era quello che si bramava che egli facesse”. Sempre nel 1770 redige la prima stesura delle Osservazioni sulla tortura, l’opera per cui viene più spesso ricordato, a partire da Alessandro Manzoni per la stesura della Storia della colonna infame. Fin dal 1764 aveva abbozzato alcune idee su questo orribile abuso. Ne esiste infatti un cenno nel celebre almanacco pubblicato in quell’anno nel punto in cui parla del mal di milza. L’opera viene rielaborata nel 1777, e per rendere più efficace la forza del suo ragionamento porta come esempio di delitto impossibile e confessato attraverso l’uso eccessivo della tortura, l’episodio delle unzioni venefiche cui si attribuì la peste che desolò Milano nel 1630. L’opera verrà pubblicata solo postuma, nelle serie di volumi dedicati agli “Economisti classici, parte moderna, vol. XVIII”, anche perchè suo padre era Presidente di quel collegio che centoquarantasette anni prima aveva dato un così atroce esempio di ignoranza e di crudeltà nel legale assassinio di tanti innocenti e si credette che la stima nei riguardi del Senato potesse restar macchiata per la diffusione dell’antica infamia; per rispetto del padre, si pensa che il Verri non diede alle stampe il libro. Intanto si diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni sull’economia politica (1771) che esaltano la libera iniziativa e prospettano l’ideale di un sistema statale in cui avrebbe dovuto essere garantita la felicità al maggior numero possibile di cittadini, i migliori dei quali avrebbero dovuto essere chiamati a ricoprire i più elevati uffici pubblici: siamo, come si può notare, più all’interno dell’utopia illuministica che dell’analisi razionale della realtà quotidiana ed economica oltre che politico-amministrativa. Nel 1776 sposa la nipote Marietta Castiglioni, di molti anni più giovane, dalla quale avrà l’anno dopo la figlia Teresa; in occasione della nascita della bambina scrive i Ricordi alla figlia, confidenze privatissime, non destinate alla pubblicazione. Successivamente avrà un secondo bambino, di nome Alessandro, come il fratello, che morirà prestissimo, seguito presto anche dalla madre. Il 13 luglio 1782 si risposa, prendendo in moglie Vincenzina Melzi, che amò sempre teneramente, dalla quale ebbe “numerosa prole” che allietò gli ultimi anni della sua vita. Nel 1781 pubblica i Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, che erano già usciti separatamente (il primo nel 1773), in cui stabilisce la teoria che il piacere consiste nella cessazione del dolore. Nel 1783 dà alle stampe la Storia di Milano, dopo una diligente ricerca delle antiche memorie milanesi, soprattutto sul piano economico, un’opera che riceve il plauso anche delle autorità viennesi, soprattutto del Principe Kaunitz che in una lettera del 4 settembre di quell’anno ebbe a scrivere: non dubito che l’opera avrà tutto quel merito che si può sperare dall’erudizione dell’autore, guidato da uno spirito filosofico e superiore alla maniera di pensare comune a’ compilatori di simili storie, e per lo più privi di sana critica”. Nei dieci anni che seguirono il suo ritiro a vita privata, compare sulla scena pubblica solo nel 1790, in occasione della pubblicazione dei Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790, in occasione della morte di Giuseppe II, rimettendo in discussione le sue idee politiche ed economiche. Nel 1796 l’entrata di Napoleone in Milano e la creazione di un organo municipale gli dettero un ultimo momento di celebrità , perchè fu chiamato a far parte della Municipalità , impegnandosi col solito ardore; ma quasi un anno dopo, nella notte del 28 giugno 1797, proprio durante una riunione nella sala della Municipalità , morirà per un improvviso attacco apoplettico, a sessantotto anni. La moglie gli farà erigere un monumento accanto al sepolcro che egli stesso si era preparato nella cappella gentilizia della sua villa di Ornago. Il pensiero Il centro più importante dell’Illuminismo italiano fu Milano, dove una schiera di scrittori si riunì intorno ad un periodico, Il Caffò, che ebbe vita breve ma intensa (1764-1765). Il giornale, che ebbe come modello lo “Spectator” inglese, fu diretto dai fratelli Pietro e Alessandro Verri e vi collaborò, fra gli altri, Cesare Beccaria. Particolarmente curioso ò il titolo di tale testata giornalistica: fu chiamata “Caffò” perchè i suoi membri si riunivano a lavorare e ad impaginare in una fabbrica dismessa, ove un tempo si produceva, appunto, il caffò; ma, accanto a questo primo significato “di facciata”, ce n’era un altro. Infatti, non era forse il caffò quella bevanda che teneva svegli gli uomini, impedendo loro di sprofondare nel sonno o di rimanere assorti in esso? Il riferimento era – ovviamente – a chi viveva nei dogmatismi di vario genere, rifiutandosi di aprire gli occhi sul mondo e di indagare con la ragione, accostata appunto al caffò per la sua capacità di “svegliare” gli individui. Non ò un caso che, in quegli stessi anni, Kant riconoscesse a Hume il merito di averlo destato dal “sonno dogmatico”. Se Alessandro Verri fu letterato e storico, Pietro Verri fu filosofo ed economista dalle spiccate qualità : il suo fu – secondo l’espressione di Luperini – un Illuminismo nobiliare ed utilitaristico. Verri partecipò attivamente a “Il Caffò” (con ben trentasette articoli). Egli rappresenta il tentativo più coerente in Italia di instaurare una collaborazione con il potere politico delle monarchie illuminate. In alcuni suoi scritti (“Meditazioni sulla felicità “, 1763; “Discorso sull’indole del piacere e del dolore”, 1773), Verri importò in Italia le posizioni di Helvètius e di Condillac, fondando sulle sensazioni e sulla ricerca dell’utile (ossia del piacere) le basi di ogni attività umana. L’idea di fondo che aleggia negli scritti verriani (e che mette in luce il suo debito verso la filosofia sensista francese) ò che la vita umana sia padroneggiata dal dolore e che il piacere altro non sia se non i momenti di cessazione del dolore stesso (una tesi, questa, che ritroviamo in Schopenhauer e in Leopardi). Anche l’arte, come altre forme di illusione, favorisce tale sospensione del dolore attraverso la sua azione sui sensi. In questa prospettiva, l’arte nasce dal bisogno di aggiungere piaceri alla vita e, poichè – secondo l’insegnamento platonico del “Gorgia” – il piacere non ò pensabile se non in riferimento al dolore (provo piacere a bere perchè così vinco il dolore della sete), l’arte dovrà presentarsi come abile alternanza di dolori ben calibrati e di immediati piaceri che pongano ad essi fine. Solo in tal modo all’uomo ò concesso di distrarsi dai “dolori innominati” da cui trae origine il bisogno stesso dell’arte. “La grand’arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch’egli prosegua ad essere occupato degli oggetti proposti, e terminatane l’azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io osservo che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole e in qualche modo dolorosa. Cosà nella poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto cagionano una sensazione disgustosa, e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori versi [â¦] Bisogna che le cose belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo o di tempo, in guisa tale che abbia luogo fra una sensazione e l’altra d’intromettersi il dolore. ” (Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cap. IX). Verri sostiene il principio che tutte le sensazioni – piacevoli o dolorose – dipendono dalla speranza e dal timore. La dimostrazione di questa tesi ò condotta dapprima per ciò che riguarda il piacere e il dolore morale, riportati ad un impulso dell’anima verso l’avvenire. Il piacere del matematico che ha scoperto un nuovo teorema deriva, per esempio, dalla speranza dei piaceri che lo aspettano in avvenire, dalla stima e dai benefici che la scoperta gli apporterà . Il dolore per una disgrazia ò similmente il timore dei dolori e delle difficoltà future. Poichè la speranza ò per l’uomo la probabilità di vivere nel futuro meglio che nel presente, essa suppone sempre la mancanza di un bene ed ò perciò il risultato di un difetto, di un dolore, di un male. Il piacere morale non ò che la rapida cessazione del dolore ed ò tanto più intenso quanto maggiore fu il dolore della privazione o del bisogno. Il bene supremo per l’uomo ò qui, come nell’Illuminismo, la felicità , una felicità intesa però – come la troviamo in Beccaria e in Bentham – non come individuale, bensì come estesa al maggior numero possibile di persone: riaffiora, in qualche misura. il concetto di eutimia ed atarassia delle filosofie antiche. Questa teoria di Pietro Verri sarà , inoltre, molto apprezzata dallo stesso Kant. Lo scopo della società ò quello di favorire la massima utilità possibile per il maggior numero di soggetti: deve cioò accrescere il piacere pubblico e scemare il dolore. In campo economico, Verri scrive le “Meditazioni sull’economia politica” (1771) e si può notare come, in tale ambito, il suo pensiero tenda ad evolversi, sfuggendo a schemi fissi: partito da un iniziale mercantilismo, si avvicinò a moderate posizioni fisiocratiche (particolarmente in voga nell’età dei Lumi), passando anche da un’iniziale fiducia in un governo di stampo assolutistico assistito dai filosofi alla preferenza per la monarchia costituzionale (seguendo il modello dell’Inghilterra). Anche la storia non esulò dai suoi poliedrici interessi: oltre ad una “Storia di Milano” (1783), egli compose le celeberrime “Osservazioni sulla tortura”, di carattere storico/giuridico: uscite solo nel 1804, sette anni dopo la morte del grande illuminista milanese, in esse si affronta la riflessione sui fatti milanesi del 1630 che videro torturati e condannati due presunti “untori”, del tutto innocenti. Lo scopo, più che l’illustrazione degli effetti reali che la tortura produsse “all’occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano”, era l’ottenimento dell’abolizione della tortura stessa, dopo che Maria Teresa d’Austria l’aveva mantenuta in vita, seppur a livelli minimi, in tutta la Lombardia. Nel pamphlet verriano vengono pertanto riportati gli interrogatori a cui furon sottoposti i presunti untori. “Da questo esame solo ne ricaverà chi legge l’idea precisa della maniera di pensare e procedere in quei disgraziatissimi tempi… Il metodo col quale si procedette allora fu questo: si suppose di certo che l’uomo in carcere fosse reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l’innocenza loro, ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell’accusatore, e si persisteva nel tormentarli sinchè convenissero d’accordo”. La conclusione del Verri sul panorama offerto dalle varie “inquisizioni” ò davvero sconsolata e l’atteggiamento di Verri ò comprensivo nei confronti dei giudici solo nella misura in cui essi erano costretti, secondo lui, ad attuare delle regole che appartenevano ad un sistema ingiusto di giurisprudenza. Quello della giustizia era un problema particolarmente sentito nell’età dei Lumi: anche Beccaria se ne occupò attentamente e il frutto di tale attenzione ò il suo celebre “Dei delitti e delle pene”, in cui dimostra come la tortura e la pena di morte siano due pratiche barbariche che si oppongono totalmente ai dettami della ragione, da Beccaria intesa come autentica guida della condotta umana. Attraverso le attente analisi dei processi contro gli untori del 1630, Verri dimostra su quali assurdi pregiudizi (e la critica ai pregiudizi costituisce il cuore della riflessione illuministica) si fondi la pratica della tortura a fini giudiziari, ancora in uso a quei tempi. Smontati gli indizi sulla base dei quali fu pronunciata la terribile condanna degli untori, Verri mette in luce l’inaffidabilità e l’ingiustizia del sistema giudiziario attraverso cui si pervenne alla condanna. Viene abilmente mostrata – con un argomentare da scienziato – l’inefficacia della tortura al fine di scoprire la verità , poichè – egli fa notare – gli “untori” del 1630 confessarono sì le proprie colpe, ma solamente per sottrarsi alle atroci sofferenze fisiche inferte loro dai giudici. Assodata la mancata utilità giudiziaria della tortura, Verri si sofferma anche sull’aspetto etico della questione, cercando di dimostrare che “quand’anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto”. Il ragionamento verriano ò di una semplicità stupefacente e si basa su due assunti basilari: la tortura ò, in ogni caso, una crudeltà , poichè se colpisce un colpevole certo, gli infligge sofferenze non necessarie; e se colpisce un colpevole solo probabile, rischia di abbattersi contro un possibile innocente. E poi la tortura ò eticamente inaccettabile e contro natura, poichè costringe gli accusati a rinunciare alla istintiva (naturale e sacrosanta) difesa di sè, facendosi accusatori e traditori di se stessi. “Se ò certo il delitto, i tormenti sono inutili, e la tortura ò superfluamente data, quando anche fosse un mezzo per rintracciare la verità , giacchè presso di noi un reo si condanna, benchè negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perchè non ò giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. Se il delitto poi ò solamente probabile, qualunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a misurarsi, egli ò evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora ò somma ingiustizia l’esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse ò innocente; e il porre un uomo innocente fra que’ strazj e miserie tanto ò più ingiusto quanto che fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l’innocente dagli oltraggi. La forza di quest’antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poichè fra l’essere e il non essere non vi ò punto di mezzo, e laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque l’uso della tortura ò intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi, quand’anche fosse egli un mezzo per rinvenire la verità “. (cap. XI) Molti e interessanti sono anche gli scritti di carattere familiare e privato, tra cui spicca un epistolario ricco e appassionante e un “Manoscritto da leggersi alla mia cara figlia Teresa”, nel quale l’infanzia viene presentata in termini piuttosto simili a quelli dell’ “Emile” di Rousseau, con l’attenzione rivolta alla felicità dei bambini e alla loro innata ricchezza, ma con un maggior senso (rispetto a Rousseau) della responsabilità educativa affidata alla famiglia e alla società , in grado di distruggere o favorire le potenzialità dei ragazzi.
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