La vita e il pensiero La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d. C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l’imperatore e l’aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sò la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l’abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell’individuo, il ritiro dalla vita politica o l’impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza è la vita e l’opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d. C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre – celebre retore – e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d. C. fu esiliato in Corsica dall’imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchò alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d. C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all’ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d. C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza è tanto più ammirevole, quanto maggiore è il potere di chi la manifesta. Lâintera produzione di tragedie di Seneca ò del resto â secondo Alfonso Traina â direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza è agli antipodi dell’ira – la malattia del tiranno -, di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira: se vogliamo avere la meglio sull’ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all’esterno; infatti – dice Seneca – se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchò non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: è opportuno raddolcire la voce, allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l’interno si conformerà all’esterno: exemplum di questo atteggiamento ò Socrate, il quale, quando era adirato, era solito “submittere vocem”. Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III) Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perchè lui stesso lâavrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sullâira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo allâira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell’autodominio, che è garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia è la forma naturale di costituzione: come il cosmo è tenuto insieme – secondo una tesi tipicamente stoica – da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell’impero è tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l’uccisione di Burro, che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l’alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l’esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un’esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando lâuomo non è più libero esso è concesso come extrema ratio: “non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchò vivere non è un bene, ma è un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce, non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere… Quel che importa non è morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene è fuggire il pericolo di vivere male” (Epistole a Lucilio, 70 ). Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchò quello è negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa è la vita per un uomo saggio? “Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur” (vive colui che è di utilità a molti, vive colui che può usare se stesso): per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sò, della parte migliore di sò, cioò della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nò temere. Anche per Seneca, costretto all’impotenza politica, la filosofia diventa – come già per Cicerone – la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall’estensione nel tempo dell’efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E’ in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti, in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchò sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce lâintero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sò la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all’ indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri. Ma ciò che Seneca ritrova è soprattutto la sua interiorità : in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte è impossibile lottare e che l’errore fondamentale è di attribuire valore a ciò che dipende da essa: “siamo tutti schiavi del destino: qualcuno è legato con una lunga catena d’oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri… Tutta la vita è una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire” (De tranquillitate animi). Se â stoicamente â il destino ò signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare ò accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti ò invece opporsi, con la conseguenza che si ò ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico ò da Seneca compendiata – Epistulae ad Lucilium, 107 – nella sententia “il fato guida chi ò consenziente, trascina chi si oppone” (“ducunt fata volentem, nolentem trahunt”). Il dominio dei valori si trova così spostato dall’esterno all’interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L’ interiorità , a cui fa appello Seneca, è il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che è esterno per la salvaguardia della propria libertà : ed ò per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata. La virtù non è preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichò questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchò con la sorte non si interferisce: anche il padrone ò schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca è quella volontaria, l’assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nellâepistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare lâabbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in unâepoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui ò schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: “Sono schiavi. ” No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa casa. “Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi. ” No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: “così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sè un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura”. Tanto più che la sorte â incontrastata signora delle vicende umane â può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: “considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, ò nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo”. Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quandâerano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poichè “della propria condotta ciascuno ò responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perchè ne sono degni, altri perchè lo diventino”. Del resto â nota acutamente Seneca â chi non ò schiavo? “à uno schiavo. ” Ma forse ò libero nell’animo. “à uno schiavo. ” E questo lo danneggerà ? Mostrami chi non lo ò: c’ò chi ò schiavo della lussuria, chi dell’avidità , chi dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un’ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù ò più vergognosa di quella volontaria. Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis – unâopera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto â egli scrive: “nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est” (De beneficiis, III, 18, 4). Se ò vero che la via della virtù non ò preclusa a nessuno, ò altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: ò questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico ò più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: ò talmente raro â dice Seneca, Epistola 42 â da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato “indifferenti”: per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l’etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma. “Senza un avversario la virtù marcisce”, dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà , che ha il suo modello nell’autosufficienza (autarkeia) del sapiente. La costruzione e l’affermazione di sè, attraverso il combattimento, è dunque una vicenda interna all’anima. Il ritiro in se stessi, nel seno protettivo della filosofia, è anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell’aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente (laqe biwsaV): questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo è abbastanza eccezionale nell’antichità : Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dellâepicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tantâò che lâobiettivo ultimo che si propongono ò di ordine etio. La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre è un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonchè platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, è proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), “soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator” (“sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore”), giacchò anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, “non sono i nostri padroni, ma le nostre guide”, giacchò “chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo”. La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, ò quella dellâape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là , sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: “e se anche nella tua opera trasparirà lâautore che ammiri, e che ò impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto ò una cosa morta”. Per questo motivo ò di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri â spiega Seneca nellâEpistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro allâaltro, senza fermarsi mai, poichè “nusquam est qui ubique est” (“non ò da nessuna parte chi ò dappertutto”): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro allâaltro nuoce a se stesso: “nihil tam utile est, ut in transitu prosit”. Lâuomo ò per Seneca â sulla scia di Aristotele â un animale congenitamente socievole (“hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus”, De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda. Buona parte dellâ opera di Seneca ò poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono lâepistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; lâidea centrale di Seneca ò che “non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo” (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo ò sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così ò per la vita, che ò breve ma può essere ben sfruttata; questo punto ò da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia “vita longa est, si uti scias” (“la vita ò lunga, se sai farne uso”) Il guaio ò che molti uomini si perdono in futili attività , sprecando in tal modo il loro tempo; ed ò a tal proposito che Seneca fa (nel De brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli “occupati”, e che noi potremmo definire “i perdigiorno”, coloro cioò che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. “La vita non ò breve, ma tale la rendiamo noi”, sprecando il nostro tempo in futili attività , senza accorgerci che “mentre si attende di vivere, la vita passa”: “comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che ò proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa ò perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa ò già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo ò nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando ò proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire” (Epistole a Lucilio, 1). E il miglior modo per impiegare la propria vita ò per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si ò accorto che nella politica ò impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma lâadesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante ò come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica (il LogoV), che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perchè il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica â come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anzichè puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: “perchò, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti”. Ricorrendo ad unâaltra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo “di più da coloro sui quali conta di più”. Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di unâimmensa fortuna nel pensiero successivo.h Riassunto delle opere Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicchè ò difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell’uomo. Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di “Dialoghi” su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto ò dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch’ò quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo”): ” De providentia ” (62 d. C.? ): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma ò solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell’ordine cosmico, accettandolo serenamente. ” De brevitate vitae “: vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perchè noi non sappiamo afferrare l’essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili. ” De ira libri III ” (41 d. C.? ): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poichè analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle: si tu vis vincere iram, non potest te illa, questo ò il tema portante. Se per i Peripatetici era giusto che si potesse sfogare l’ira in manifestazioni esterne, per Seneca ò l’esatto contrario: l’ira va trattenuta, va vinta, affinchò non sia essa a vincerci. Bisogna trascinarla dentro, affinchò non sia lei a trascinarci; ò opportuno tenere nascoste le sue manifestazioni ( obruamus signa illius ). ” De consolatione ” (posteriore al 37 d. C. ). ” De clementia “: l’opera ò stata composta all’incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo ò opportunamente dedicato all’imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nò le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’impero. Il problema, piuttosto, ò di avere un buon sovrano: l’unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L’ideale senecano di clemenza ò una misurata commistione di indulgenza e moderazione. ” De costantia sapientis “, ” De tranquillitate animi ” (62 d. C.? ): in questa trilogia, dedicata all’amico Sereno, Seneca cerca una mediazione tra l’otium contemplativo e l’impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell’intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa. E Seneca polemizza con un pensatore stoico (Attenodoro), sostenendo che il filosofo stoico non deve allontanarsi dalla politica (come voleva Attenodoro, sulla scia di Epicuro). ” De otio ” (62 d. C. ? ): in quest’opera vi ò un ribaltamento delle posizioni senecane: il vero filosofo stoico deve stare lontano dalla politica e dedicarsi interamente alla vita contemplativa. Chi opera politicamente si accorge di non potere esercitare la virtus, come si era accorto attenodoro, e come ora si accorge Seneca, in seguito alla rottura dei rapporti con Nerone. In effetti, più specificamente, questo ò il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l’imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune ò l’obiettivo da seguire: quello, cioò, della serenità d’animo capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e con la parola. Sempre di filosofia trattano: ” De beneficiis ” (7 libri): dedicati all’amico Ebuzio Liberale, in essi si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest’opera ò un appello ai doveri della filantropia e della liberalità , nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata. Il beneficio, per Seneca, ò un atto in sò, non finalizzato ad avere un tornaconto. Tra i dialogi abbiamo due lettere ( ad Helviam matrem e ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall’antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l’imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo. Quindi abbiamo: 124 ” Epistulae morales ad Lucilium ” (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L’opera ci ò giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicuro: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi ò Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio ò questione dibattuta; fatto sta che S. ò convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un’unione con l’amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera ò maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, “parenetica”). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquium, S. propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’ozio a valore supremo: un ozio che non ò inerzia, ma alacre ricerca del bene. La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico. Di carattere scientifico sono i 7 libri delle ” Naturales quaestiones “, dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali Seneca analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante della filosofia – non ò “gratuito”, ma ò legato ad una profonda istanza morale, comune all’epicureismo: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Seneca celebra, tra l’altro, il valore etico del progresso scientifico, ma ò contrario all’uso della scienza per fini esecrabili: ad esempio, ò contrario all’uso illegittimo degli specchi o alla barbara usanza romana di intavolare i pesci ancora vivi. Ci sono poi: 9 tragedie cothurnatae, cioò di argomento (mitologico) greco: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetus. Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo verbale, della “tragedia retorica”. Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non ò da escludere l’ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l’azione drammatica ò sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne ò la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell’autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae, che narra del tragico destino di àdipo e dell’odio che divide i suoi due figli Etòocle e Polinice. Il mito tebano di àdipo ò presente anche nell’ Oedipus: causa inconsapevole dell’uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di àtreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto con i modelli greci ò abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall’altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l’esasperazione della tensione drammatica ò ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia ò infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica. Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell’autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all’interno dell’animo, nell’opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, ò da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perchè abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perchè nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarà® d’orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all’interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario ò quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com’ò dalla paura e dall’angoscia, nel suo eterno problema del potere. A parte va considerata l’ Octavia, una commedia praetexta (cioò di argomento romano, e l’unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con le precedenti tragedie. l’ ” Apokolokà½ntosis ” o “Ludus de morte Claudii”, una satira menippea sull’apoteosi dell’imperatore: Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (ò la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone. Apokolokà½ntosis ò il titolo greco dell’opera e significherebbe “deificazione di una zucca”, con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un’opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell’imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità . Si attribuisce infine a S. una raccolta di circa 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa ò, invece, la corrispondenza con San Paolo.
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